Il trasloco

E adesso?, mi chiede, dove vai, cosa pensi di fare, adesso?

Io gli sto seduto di fronte e ascolto la sua voce profonda. Mi è sempre piaciuta anche da bambino la voce di mio padre. Una volta, mi ricordo, una volta era in camera mia la sera, che mi leggeva una storia per farmi dormire. Mi leggeva una storia, che raccontava di un ragazzino con i capelli ramati, che era arrivato sulla terra per scoprire come vivono gli umani, e poi si affezionava ad una ragazzina e decideva di vivere qui, e faceva alleare il mondo nostro con il mondo suo, e vissero tutti felici e contenti. Mi ricordo che stavo a letto e lo ascoltavo, e mentre lo ascoltavo sentivo la testa che mi vibrava sotto i bassi della sua voce, e mi piaceva e l’avrei ascoltato per ore. Adesso, invece, non lo guardo nemmeno negli occhi. Anche la sua voce mi sembra diversa. Non ha più quel modo fermo che ricordavo. Sembra come che quella tonalità bassa, nasconda qualcosa che non va: insicurezza, domande. Allora io non lo guardo e sto seduto, e mi scortico le dita con la bocca, mentre tengo gli occhi fissi sulle scarpe di mia madre che sta in piedi davanti alla finestra e non dice una parola.

Il giorno che vinsi la borsa di dottorato ero a casa della mia ragazza, di Marta, e fu proprio lei a dirmelo. Io ero in cucina che facevo il caffè, quando la sentii urlare come una pazza e ridere in maniera isterica.

Sarà uscito un nuovo video degli Eels, pensai, conoscendo il suo innamoramento per Mark Oliver Everett, invece mi sbagliavo.

Mi accorsi che mi sbagliavo, quando la vidi arrivare in cucina saltellando con il portatile in mano. Quando lasciò il portatile con la pagina dell’università aperta, e quando mi mise le braccia al collo e mi diede un lungo bacio a stampo sulle labbra.

Marco, adesso che pensi di fare, Marco?, mi dice mio padre, adesso che torni a casa, che pensi di fare?

Io continuo a fissare le scarpe verdi di mia madre, e guardo i suoi passi attorno per la stanza. Sul tavolo, le tazzine sporche di caffè hanno lo zucchero indurito dentro. Penso che le lascerò nel lavandino senza lavarle, tanto, mi dico, tanto poi chissenefrega. Mio padre continua a chiedermi cose sul mio futuro a cui non so rispondere. Forse potrei dirgli che cercherò un posto da commesso nel nuovo centro commerciale vicino a casa, magari nel Trony, dove gli può interessare la mia laurea e il mio mezzo dottorato in ingegneria informatica. Magari potrei dirgli anche che poi, se mi faranno un contratto che duri più di due mesi, cercherò casa da solo e andrò a vivere con Marta, ma non riesco a dirglielo. Non riesco a dirglielo, perché, come mi aveva detto una sera un mio amico che studiava psicologia, quando dici una cosa è come renderla vera, è come se la facessi materializzare, e allora se rispondessi a mio padre, sarebbe come farmi crollare il mondo addosso.

Il giorno che venne revocata la mia borsa di studio, per ragioni di ordine economico e nonostante apprezziamo il lavoro da Lei svolto in questi due anni, così recitava la lettera di comunicazione, il giorno che venne revocata la borsa di studio con cui venivo pagato, andai subito nell’ufficio del preside di facoltà, che mi accolse preparato. La segretaria mi fece entrare senza attese e lui era seduto dietro la scrivania e mi disse accomodati, facendo il segno con la mano. Mi disse anche che, prima di lasciarmi parlare, aveva bisogno di dirmi che era estremamente dispiaciuto per ciò che era accaduto e che non avrebbe mai voluto una simile situazione. Aggiunse che purtroppo è un periodo di crisi e che tutti avremmo dovuto fare dei grossi sacrifici, tirare la cinghia, disse, ma che purtroppo erano cose che non dipendevano da lui. Forse, aggiunse ancora, forse ha proprio ragione il mio amico Pierluigi Celli, con cui eravamo a scuola assieme alle superiori, a dire che i giovani devono andare all’estero. Io lo lasciai parlare e, lì per lì, gli risposi che capivo, che era ovvio che non fosse colpa sua, ci mancherebbe, gli dissi, era solo che… poi non finii la frase, mi alzai, gli strinsi la mano e mi girai verso la porta. Nei cinque metri di tragitto verso l’uscita, pensai che quelle che aveva detto erano tutte cazzate, che lui aveva un potere decisionale e che, in fin dei conti, questo stato di cose, questo stato di cose dove i genitori negano il futuro dei figli, l’aveva deciso lui, non io. Mentre abbassavo la maniglia, pensai anche che quel Celli era proprio stronzo, perché è troppo comoda avere una posizione di potere e poi dire al figlio, vattene dall’Italia. Troppo comoda non assumersi mai le proprie responsabilità, all’interno di una situazione dove si comanda. Troppo comoda lavarsi la coscienza così, cazzo, pensai, mentre chiudevo la porta dietro le mie spalle.

Per riportare tutta la mia roba a casa abbiamo affittato un furgone. Mia madre è seduta in mezzo, fra mio padre che guida, e me, che guardo fuori dal finestrino. Dopo aver chiuso la porta di casa, caricato le ultime due valigie e consegnate le chiavi alla portinaia, che mi ha salutato dicendomi che le spiaceva tantissimo che me ne andassi, non ho più parlato. Dopo aver sorriso alla portinaia, non ho più detto una parola.

Una volta in autostrada, ho acceso la radio, che rompesse la monotonia del solo rumore del motore che si sentiva in macchina. Il dj parla delle settimane bianche prenotate per il mese di dicembre, per le vicine vacanze di Natale. A riguardo, intervista il direttore di un importante albergo di Cortina.

Devo dire che nonostante la crisi ci sono moltissime prenotazioni, dice con voce composta e accomodante, alla fine una settimana di lusso e svago non se la nega nessuno.

Mio padre continua a fissare la strada, come ipnotizzato. Scuote solo leggermente la testa, poi mi lancia un veloce sguardo e abbozza sulle labbra un sorriso amaro.

Alessandro Busi

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