La storia di Johnny Fortuna – #fiabebrevichefinisconomalissimo

di Francesco Muzzopappa

Nessuno era più fortunato di Johnny Fortuna.
Se uno vinceva alla lotteria, lui ne vinceva due.
Se un tizio trovava un quadrifoglio per terra, lui ne aveva un intero stock.
Era davvero Leggi il resto dell’articolo

La parte più calda

[Siamo lieti di riproporre ai nostri lettori il racconto La parte più calda, pubblicato su Los Ingrávidos, numero 12 della rivista Colla, dello scrittore spagnolo, classe ’85, Juan Soto Ivars e tradotto da Marco Gigliotti. Buona lettura.]

di Juan Soto Ivars

1.

Erano i giorni in cui il lavoro non ci aveva sfiorato. I giorni in cui conoscevamo intimamente l’estate e lei ci permetteva di passeggiarle sul dorso. Per noi la vita era andare su e giù per strade conosciute, portare a spasso la noia per le campagne che circondavano il paese e fantasticare sulle ragazze: creature incomprensibili e desiderate che ci ignoravano come se fossimo mendicanti molesti. Ricevevano in cambio le nostre risposte iraconde e ingegnose. Le nostre sassate cariche d’amore.
Il paese era piccolo ma le differenze tra gli abitanti erano molto marcate: c’eravamo noi e quelli che potevamo spaventare facilmente. Io vivevo con la mia famiglia in un complesso residenziale modesto vicino ai binari del treno. Innumerevoli giorni della mia infanzia ho aspettato, con altri come me, che passasse il treno merci carico di container di legno e cisterne di butano. A volte scommettevamo sul numero di container che avrebbe trasportato il treno. Ci giocavamo soldi o figurine dei calciatori. Altre ci divertivamo mettendo pietre enormi sulle rotaie. Pietre rotonde che esplodevano quando venivano schiacciate dalle ruote metalliche e che mettevamo lì con la speranza di far deragliare il treno. Immagino che volessimo far succedere qualcosa per spezzare la monotonia. Qualcosa che non ci è mai riuscito. Leggi il resto dell’articolo

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Scomparsa *

Le quattro del mattino. Sorseggio una camomilla così che passino questi dolori, mi distendo nuovamente sul letto, bevo, sudo, penso: cos’è stato? Continuo a fumare, non ci penso: nei fogli per terra riconosco tutte le cancellature, impronte che mi lascio dietro. Bussano alla porta e sono scalzo, coi piedi sudati, che abbasso la maniglia: «Chi è?»
«Decimo, sono Giovanni. Hai visto Anita? Non è ancora tornata.»
Mi viene freddo quando vedo Giovanni Santa Cruz sull’uscio di casa mia, le parole non so nemmeno come escono, ma escono: «Non l’ho vista, mi spiace.» Anita Santa Cruz è sparita e il responsabile potrei essere io, il mostro su cui puntare il dito, quello che ha abboccato alle lusinghe di una quindicenne.
«Buonanotte.»
«Buonanotte.»
Chiudo la porta e faccio ritorno nella mia stanza. Anita Santa Cruz è sparita e il responsabile sono io; quello sguardo e quelle mani che indugiavano sul mio corpo, quella bocca, la lingua, l’alito alla mela, i capelli e il mare piatto davanti a noi – il fuoco era acceso? Ricatto e colpa, urla e mani – le mie – che si stringono attorno al suo collo, in macchina, nel bagagliaio, sulle strade che salgono fino a Monte di Chiesa, la notte che scende, una sepoltura di fortuna e una doccia che si porta via tutto. Ancora un conato di vomito e di nuovo in bagno, il giallo dei succhi gastrici che scivolano sul bianco del water e le contrazioni dello stomaco mi piegano sui ginocchi. Penso che dovrei guardarmi dall’alto, allontanarmi per vedere la fine. Tutto muore quando è scritto; la parola nasce quando è scritta e muore subito dopo, quando la penna si alza dal foglio. Leggi il resto dell’articolo

Pensando Wittgenstein

Ehi, ciao. Ci sei? Ciao. Sì, ci sono. Come va? Oggi non molto bene, e tu? Io bene, giornata di relax. Come mai non stai bene? Che c’è? Beato te. Ogni tanto ci vuole. Ho qualche problema con la mia salute. Oddio, spero niente di grave. Che succede? Spero, vedremo i risultati. Hai fatto le analisi? Povera. Urino sangue. Accidenti. Ahi ahi. Il mio corpo non ha 31 anni ma 80. Spero proprio di no. Che sia una cosa risolvibile. A volte trovata la causa si guarisce completamente. Sì, secondo me è lo stress. Potrebbe essere. Vuol dire che ne hai preso tanto. Poi fa troppo caldo. Di stress. Oggi meno. Tantissimo. Ti devi divertire di più. Sono stata anche dall’avvocato. Pure. Anche questo non aiuta. Con lo stress. Lo so. Oggi mi hanno consigliato: vivi di più. Più che altro. Divertiti un po’ di più. Pensa un poco anche a te stessa. Sei una ragazza. Ma come si fa, io non lo so proprio. All’anagrafe, sì. Arriveranno tempi migliori. Ma sì. Però cerca di uscire con qualcuno. Un’amica. O un amico. Per sfogarti almeno. Con chi, è il problema. Scappano tutti. Almeno. Ma non è vero. Quando sanno che sono separata con due bimbi. Ma tu non devi cercare un altro marito. Ma un amico. Lo so, sono loro che non lo sanno. Per un altro uomo è presto. Sì, troppo presto. Io però non scappo. Però sai, mi pesa di non avere qualcuno che pensa a me. Strano che non scappi. Eh, ci credo. Però, finché sei così pessimista. È dura che qualcuno non scappi. Più che pessimista mi son trovata qualche porta chiusa. Qualche? Io direi un sacco di porte in faccia. Dopo mio marito un uomo attirava i miei pensieri. Due figli. Ma è scappato. Non dico che sia facile, ma cresceranno. Sono la mia vita. Vedi che non va tutto male? Senza, l’avrei già fatta finita. E poi gli uomini che scappano è meglio perderli che trovarli. Hai ragione. Da quando sei fidanzato? Stasera lavatrice e ferro da stiro. Da nove anni. Cavoli, tanto anche te. Tanto sì. Ma stiamo bene insieme. Diciamo che sono stato fortunato. Anch’io sono stata nove anni prima di sposarlo. Però. È più facile trovare una donna ok, che un uomo ok. Direi di sì. Non sei d’accordo? Eri un ragazzino anche tu. Di uomini per davvero ce n’è molto pochi in giro. Uh, sì. Non sono meglio. D’accordissimo. Cerco di non vergognarmi troppo di me stesso. E poi io scrivo. Sono uno scrittore. Chissà che non sia la verità. Fai bene. Cosa scrivi? Sentimi un po’. Ti sento. Io ti posso offrire solo la mia amicizia. Però credo sia meglio di niente. Certo. Aspetta. Di sicuro. Eccomi qui. Ero al telefono. Ci sei? Sì. Scusa. E di che? Scusami tu. Ero al telefono. Dimentico che sei uno importante. Figurati. Se passi dalle mie parti, ci possiamo vedere. Volendo, sì. Ecco, bene. Basta saperlo per tempo. Tanto abitiamo vicini. Sai con i bimbi. Sì, ci credo. Ora scappo. Una foto, dovrei cercarla. A dopo. Ma dove vai? Hai dei finali drammatici. Io vado e poi ti cerco qui. Ciao. Ok ti aspetto. Ciao. Ehi. Sono tornato. Ciao. Sono al buio. Hai visto? T’ho accontentato. Non ho la luce. Come al buio? Fino alle 22. Un guasto. Perché? E chi lo sa? Ho ricevuto la tua foto. Ti dico che non sono per nulla fotogenica. Ma no che va bene. Di persona sono leggermente migliore. Sì, ma anch’io voglio vederti. Qui è andata via la luce. Sì. Una mia foto? Immaginavo. Aspetta. Yes! Non importa. Spero. Tra sfigati allora ci capiamo. Ecco la foto. Hai proprio l’aria del prof. Eh, credo proprio di sì. Secondo me ognuno nasce già predestinato. Dici? Con il viso che parla per te e dice ciò che sei. Sì e no, o meglio. Sì, un’inclinazione c’è. Sì e no che significa? Poi sta un po’ a noi riuscire a trovare la strada. Da piccola mia madre lo diceva sempre che ero speciale. Poi un uomo mi ha rovinata. Beh, la mamma non fa testo. Ma come mai ti sei cacciata in questo guaio. Lo fa, almeno la mia. E poi sono convinto che il tuo uomo non sia solo male. Troppo innamorata. Avevo 13 anni. Qualcosa è andato storto. Ecco questa è una cosa che non va bene. Posso essere sincera? Si cresce. Dimmi. Diciamo che ha due brutti vizi. E quali? Si fa ed è violento. Pure. Ma dovevi andartene dopo la prima volta che solo ci provava a toccarti. Che dire? L’ho amato tutta la mia vita. E non ti sei amata neanche un po’. Ero in attesa del primo. Amavi lui per non amare te. La mia famiglia mi ha pregata per anni di mollarlo. Difficile volersi bene, a quanto pare. Chissà perché così poco rispetto di te stessa. Non è cattivo ma vuole fare a modo suo. Ancora lo difendi? Prima andava bene ora non più. Prima, cioè dieci anni fa? Poi ho aperto gli occhi. Dopo 10 anni? É stato il mio primo grande amore e anche l’unico veramente. Si cresce. Siamo cresciuti insieme. Sai quanta gente interessante c’è al mondo? Non siete cresciuti. Lui ha continuato a essere se stesso. E tu sei cambiata? Anche adesso fai fatica a volerti bene. Non ci si caccia in un pasticcio come il tuo se non lo si desidera. Devo solo farci l’abitudine. Mai farci l’abitudine. Anche alle botte ci facevi l’abitudine? Sì, e mi sentivo pure in colpa. Ok, scusa. È tornata la luce. No, ma figurati. Però renditi conto che se una cosa non la capisci, ti ricapita. Ci vediamo domani sera? Lunedì è il mio giorno libero. Domenica si potrebbe. Cavoli, al contrario. Vai dalla tua tipa? Vado io o viene lei. È anche giusto altrimenti quando vi vedete. Infatti. Però ci stai anche tu come amica. Con la vita da romanzo che hai. Ecco prendi spunto per scrivere. Mi darai i diritti. Ah, beh, quello sì. Cinquanta e cinquanta. Io metto solo la storia. Tu devi scrivere. Ok. Ti impegni di più tu. Quella che si è impegnata di più sei tu. La vita è quella vissuta, non quella raccontata. No, la vita è il suo racconto. E poi, vivere. Forse sopravvivere. Non essere catastrofica. Questo gioca a mio favore. No, mai. Quasi ci riusciva lui ma… Son tosta. Adesso che sei passata per dei brutti momenti. I miei figli mi chiamano Hulk. Si chiama essere mamma. A 20 anni tutte avevano il moroso io il bebè. Mia mamma aveva 19 anni. Sai che sono la madre più giovane nella classe di mio figlio grande? Sto facendo continui errori. Scusa, prof non darmi 4. Non ti preoccupare. Ma che ti ridi? Non sono in servizio. Meglio, allora. Ti godo come amico. Sì. Perfetto. Sai, dietro ci sono delle persone. Dietro cosa? Dietro la chat. Per fortuna. Non ho mai pensato al retro di una chat. Se non ci fossero persone. Sì. Pensa che squallore. Che squallore dove?

Leonardo Tonini

L’ultima notte di Cagliostro

L’ultima volta che gli servii la cena fu la sera del 25 agosto. Chiusi la porta e lo trovai intento, come altre volte, a dipingere la parete. Per pennello usava un cucchiaio alla cui estremità aveva posto la lana del materasso che intingeva in acqua sporca di ruggine. Stava iniziando un ritratto. Con movimento sicuro tracciò il cerchio di una pupilla. Poggiai il vassoio e credo gli chiesi se cercasse compagnia in quel volto. Lui fece un gesto, lo ricordo bene perché mi colpì, si avvicinò alla parete che stava disegnando e la carezzò, come fosse una guancia.

Mi guardò e per la prima volta mi rivolse la parola, mi chiese se avessi, invece, io voglia di fargli compagnia.

Non saprei dire se m’impietosì o ipnotizzò. Il suo sguardo non era normale, ma pesante e fisso su di me. Temevo riuscisse a leggermi dentro, mi lasciai cadere sul bordo del letto.

Spezzò il pane e assicurò nelle mie mani la metà. Nei suoi gesti, nelle sue movenze non riconoscevo più quell’uomo che tutti dicevano diavolo, non ravvedevo la potenza, la cattiveria della persona entrata quattro anni prima nella fortezza inespugnabile, nell’isolamento più totale, fuori dal mondo; come me, il suo carceriere.

Mi chiese se avessi famiglia o una donna da cui tornare. Feci segno di No. Pensai che ero l’unico amico del diavolo, condannati entrambi al carcere a vita.

Non rammento le parole precise, ma parlò della felicità, diceva risiedesse nella capacità di volere quel che si ha. Eravamo dunque felici?

Non gli importava neanche della libertà, un valore, secondo lui, sopravvalutato che i potenti erano pronti a difender con sangue vergine; la ricchezza, poi, quella era solo un abbaglio creato per celare la verità. L’ascoltavo non perdendolo mai di vista e nel mentre mi ripetevo che se quell’uomo potente era mio amico, allora forse potevo essere potente anch’io.

Camminava lentamente dalla finestra al letto, con soli quattro passi percorreva l’intero perimetro della cella. Per molti era stato solo un truffatore, per altri un alchimista ed ancora: filosofo, matematico, astronomo, teologo, taumaturgo, linguista, orafo, musicista, massone e addirittura mago.

“Sa quante vite ho avuto?”, chiese nascondendosi il viso tra le esili mani. Non risposi, strappai con i denti un pezzo di pane e aspettai che proseguisse.

“Non mi dico innocente, ma la mia unica colpa si chiama amore, un amore malato come tutti gli amori” bevve un sorso d’acqua e riprese il racconto “La conobbi che non aveva quindici anni, era bellissima. Da quando fu mia, non smisi mai di ringraziare il cielo e mai di tremare per il timore di non meritarla. Volevo essere sicuro che fosse mia e solo mia perché lo meritavo e non solo per la sua giovane età. Fu così che la spinsi nelle braccia d’altri uomini, solo per riempirmi il cuore vedendola tornare da me”, il diavolo s’interruppe, forse anche lui aveva bisogno di coraggio per ricordare, per proseguire la sua storia. “Le presentai un russo, nelle passeggiate e nelle sue lussuose stanze conobbe ricchezza e nobiltà, ma lei tornò ancora da me. Il mio amore era una leva pronta a sollevare il mondo. Il secondo fu un avvocato francese, nelle sue carezze trovò l’onestà, ma chiese di tornare con me. Finalmente capivo ogni cosa. Il nostro amore era allora pronto, pronto per essere professato a tutti, cantato in ogni parte del mondo”.

Il diavolo si alzò dalla rete e mi fece strada tra quelle poche mattonelle accompagnandomi fuori dalla sua cella, poi proseguì: “Venne la volta del famoso Casanova, lasciai sola con lui la mia sposa, tra le sue lenzuola trovò l’avventura e la leggenda e ancora in lacrime tornò. Le giurai che sarebbe stata l’ultima volta, ma non fu così. Un giorno, però, mi convinse a tornare a Roma e scappò. Il resto è noto: mi denunciò, dovette pensare che l’unico modo per fuggirmi fosse mettere mura e ferro tra noi”.

Coprendosi il volto con le mani, chiese di essere lasciato solo. Chiusi la porta augurandogli una notte serena, lui raccolse il pennello e con un cenno del mento annuì.

Il mattino seguente, poco prima di mezzogiorno entrai nella cella, mi sembrò ancora addormentato, provai a svegliarlo, ma il suo cuore aveva cessato di battere. Tra le dita stringeva ancora il suo cucchiaio. Sulla parete, il volto di una donna ci sorrideva. Lei era tornata ancora una volta.

Giuseppe Balsamo alias il Conte di Cagliostro fu sepolto fuori da luogo sacro sul monte della fortezza di San Leo il 28 Agosto 1795.

Massimiliano Di Mino

Coincidenze – Il sarto

La chiesa strideva tutta per il temporale, come una gigantesca lavagna abbandonata a un branco di bambini dispettosi. Il feretro era lì, al centro della navata, somigliantissimo a un animale che dormiva senza respirare.

«Fermo, sorridi»: una coppia di sposi in luna di miele era in una piccola sala da the poco distante dal grande portale della chiesa e si stava facendo buffe fotoricordo. Erano belli come una vaga reminiscenza addolcita dal tempo per una memoria infedele.

Sono così strani i casi della vita…

L’uomo alla prima panca vestiva con sobrietà e bene. Lo si sarebbe detto un sarto: era benvestito, ma senza volerlo. Piangeva, ma composto e sommesso, identico a una canzone un po’ datata, anche se dimostrava appena una trentina d’anni.

Era un giovane attraente e antiquato: in questo stava il suo fascino. Piangeva composto e disperato, nessuno ci badava, anche perché nessuno lo conosceva. Solo qualcuno si chiedeva chi fosse quel giovanotto così bello che pareva uscito da un rotocalco del ’50, ma per una manciata di secondi. A nessuno importava veramente: la donna nella bara aveva avuto molti affezionati clienti, e qualsiasi degli uomini lì presenti poteva esserlo stato.

Anche il ragazzo, in effetti, era stato un suo intimo. Ma di tutt’altra specie. Intimo come un sarto fedele. E affezionato.

«Un cioccolato» chiese lei perché il temporale l’aveva infreddolita. Il marito le sorrideva. Ancora non le veniva naturale dire “mio marito”. Pazienza pensava verrà col tempo. «Sei felice?»

«Sì, ti amo».

La donna della bara l’aveva detto solo una volta al giovane sarto. Solo una volta: “Sono felice”, ma quasi bisbigliato, mentre teneva il volto mezzo sepolto nella federa del cuscino. Il ragazzo lo ricordava distintamente come se fosse stato un’ora prima. Anzi, lo ricordava man mano meglio col passare del tempo, come se invece di una ferita rimarginata fosse stata una frattura ricomposta che doleva a ogni sbalzo di umidità e temperatura. E quel giorno pioveva.

Piangeva mordendosi il labbro inferiore, con le mani affondate nelle tasche della giacca splendidamente sagomata. Era bello e disperato, come il richiamo a una divina sofferenza. Proprio come si conviene a ogni giovane uomo al funerale della donna amata.

Ogni mare ha la sua barca ad attraversarlo e ogni uomo vive ricordando un qualche amore finito. Spesso è un amore fantasma, che riaffiora ogni tanto, di solito quando più o meno indirettamente si viene a sapere qualcosa della persona amata in passato.

Molto più spesso la persona amata scompare nella folla, e allora quel periodico riandare indietro con la mente si trasforma quasi in un atto rituale. In un vizio del cuore, un’ossessione discreta.

«Chiamiamolo come tuo padre». La scelta del nome impegnava i due sposini nella sala da the. Fuori dalla chiesa il corteo funebre fu disperso dalla pioggia e col feretro rimase solo lui, il giovane sarto.

La pioggia abbracciò le lacrime e né lui né lei s’accorsero che stava piangendo.

Antonio Romano

Occhi in la minore

“Quanto ci vuole per capire una donna? Alcuni risponderebbero minuti, altri invece vi parlerebbero di anni trascorsi dietro labbra serrate o bocche ben spalancate.

Il guaio, e forse la banalità, è che non si arriva mai a capire davvero una donna.

Lasciano intravedere qualcosa, una parte della loro femminilità nascosta da seni, pelle, sesso. Dietro il paravento dei sensi e dei sentimenti c’è un’ombra che ci fa solo impazzire nell’illusione di una percezione e di una comprensione che in realtà è viziata, indotta e pilotata dai begli occhi che abbiamo di fronte.”

Tutto questo lo pensava e lo annotava mentre il caldo estivo pesava sul suo rhum e una bossanova si adagiava lenta nella stanzaccia dell’albergo affittato da due settimane.

In fondo non si può sprecare troppo tempo (o troppi anni, fate voi) alla ricerca della pietra filosofale della felicità maschile, della pace egualitaria tra i figli di Marte e le figlie di Venere.

Il rhum scivolava dietro i piccoli cohiba accesi di seguito come candeline a festeggiare il compleanno del tormento del cuore.

Tirò indietro la testa e guardò un po’ fuori in cerca di una frescura che potesse sollevarlo dal compito che aveva “ereditato” dall’ispido genitore che in quel giorno fatto di notte dopo averlo attaccato al muro gli aveva gridato sul naso: “Quando caprai le donne sarai davvero felice piccolo stronzetto….”

Passò una mano tra i capelli segosi e crespi che si arrotolavano attorno alla matita come un serpente sonnolento che cerca la pace del sole.

“Capire le donne. Amandole. Odiandole. Ignorandole. Capire le donne. Sembra facile.

“La prima volta che affondai nella sabbia umida di quelle lande calde fu una perdizione che credevo poter condividere per tutta una vita, e invece fu solo un attimo che durò qualche mese. Perché poi ci vuole la dolcezza, la pazienza, la dedizione e allora ero giovane per queste parole che sapevano di pretenziose catene legate per esasperare .

Arrivò poi il momento illuminante del sacro vincolo del sentimento in cui tutto è libertà e il puro fuoco non brucia più ma purifica dall’orgoglio, dalle menzogne, dall’io egocentrico che fa da direttore nell’albergo del nostro cuore.

Ma come si dice ‹le sorprese non finiscono mai› ed ecco che le mani che si sono sciolte vengono ripiegate verso il proprio petto. Perché l’amore incondizionato è un fantasma che arriva a mezzanotte con il gong del pendolo a ricordarci tutte le nostre paure”

Schiariva il giorno fino a sbiadire nella frescura del buio portando dal mare l’odore di sale e vaniglia, sudore e birra, speranze e beffe.

Il rhum schiarisce la gola dai pensieri morti dietro la lingua e li fa diventare sputo d’inchiostro blu, macchie che somigliano a parole.

Girò pagina.

“Cosa ci si deve inventare quando amore e inesperienza falliscono?”

Aprì dolcemente le gambe a cercare una risposta in un gesto di antica ribellione e docile appagamento.

Si trattenne per scrivere ancora un po’.

“Ci vuole il sesso. Puro. Estatico. Senza condizione. Il lasciarsi prendere dalle pulsioni e il prendere per i fianchi le passioni.

Ma poi arriva la noia. La noia è la vera riappacificazione in una coppia.

Ognuno rientra come una mollusco nel guscio e guarda l’altro dall’ombra del suo antro”.

“Cosa ci vuole per capire le donne?”

“Eppure ne ho avute, ne ho conosciute, ne ho bevuto parole, segreti, bugie, lacrime, sorrisi e trasgressioni nei miei viaggi, nel mio volo verso loro. Ma niente”

Il sudore iniziava a imperlare le labbra madide di preoccupazione e affannosa ricerca. La porta fece da palcoscenico al tip tap delle grosse nocche nere che danzavano sul legno chiaro.

“Anche oggi non ce la faccio a continuare”

Un gesto rapido per risvegliare il serpente raggomitolato, uno straccio sul letto e due, tre, quattro linee veloci.

La porta si apre e il sorriso giallognolo saluta pieno di aspettative. Docile e feroce. Le mani sono grandi e spingono sul letto, aprono, bagnano e aiutano l’attrezzo a lavorare meglio, a trovare quella naturale falsità

“Quando capirai le donne sarai davvero felice piccolo stronzetto…. Fino ad allora sarai solo un pervertito con la parrucca che gioca a fare l’amichetta di papà”.

E’ l’ultimo pensiero prima che una lacrima bagni il letto sporco di settimane.

Alex Pietrogiacomi

Trilogia sull’operaio – Caterina ovvero l’accoppiamento della lumaca

Conobbi la signora Caterina Manzone al telefono,circa sei mesi fa, in autunno.

Buongiorno… il signor De Rossi?”

Si, sono io. Con chi parlo?”

Mi chiamo Caterina. Ho letto il suo annuncio nella bacheca dell’ospedale. L’ho chiamata perché ho da tinteggiare una stanza, lei è libero?”
“Domani mattina concludo un lavoro di ristrutturazione in un appartamento. Se mi da il suo indirizzo, nel pomeriggio passo da lei per farle un preventivo. Senza impegno, naturalmente!”

Si, domani pomeriggio è perfetto! Sarebbe ottimo per me verso le sei!”

Le sei. Ok, va benissimo!”
“Il mio indirizzo è: via Uderisi da Gubbio numero venti. Al citofono: Manzone-Ceccarini.”

“…Manzone… allora ci vediamo domani, alle sei!”
“Perfetto, grazie mille! A domani!”

Il pomeriggio del giorno seguente, mi presentai all’indirizzo che la signora, al telefono, mi aveva indicato.

Mi fu offerto un caffè annacquato che, quasi subito, si mise a pungere l’intestino.

Mi fece vedere la stanza: una camera da letto di quattro metri per tre che, dall’arredamento e dalle suppellettili, sembrava appartenere a un ragazzo poco più che adolescente.

Le riferii il costo del mio preventivo, materiali compresi.

Lei accettò di buon grado dicendomi, tra l’altro, che il prezzo le sembrava conveniente. Si soffermò su quel fatto: “Non è che mi fa pagare tanto poco perché farà un lavoro a tirar via?”
“Non si preoccupi! Faccio l’imbianchino da anni! Può stare tranquilla!”

Mi spiegò che avrebbero portato via i mobili entro due giorni, che avrei trovato, dunque, la stanza sgombra da ogni impedimento.

Avevo una strana sensazione.

In una situazione normale avrei chiesto qualcosa in più su quella stanza. Sul perché degli spostamenti. Qualcos’altro. Invece era come se non mi fossi dovuto azzardare a togliere il coperchio dalla scatola: proprio questa, la metafora che mi venne in mente per prima.

Caterina era una bellissima donna. Di quelle abbondanti nelle forme e generose nei fianchi. Per nulla grassa.

Al telefono avevo pensato che avesse una voce molto sensuale anche se le sue corde vocali avevano, nel proferire parola, uno strano modo di nascondere il vibrato gracchiare dato dallo strazio.

L’avrei richiamata io, due giorni dopo, per chiederle se era stato portato via tutto. In caso di risposta affermativa avrei dunque iniziato.

Presi le scale velocemente dopo averla salutata. Le sgradevoli vibrazioni che avevo sentito vennero sopraffatte dalla certezza dello stare lì lì per cagarsi addosso.

Dicevo di essere un imbianchino solo perché avevo imparato un poco a farlo. Non da molto. Avevo mentito alla signora. E non le avevo fatto un buon prezzo perché ero un onesto operaio: avevo un disperato bisogno di soldi.

Ormai allo stremo delle mie finanze, licenziato dall’ennesimo lavoro da scimmia, avevo stampato volantini che distribuivo in giro, nelle cassette delle lettere, oppure appesi in bacheche, in mezzo ad altri milioni di annunci: “Imbianchino esegue lavori di tinteggiatura: appartamenti, zone interne ed esterne, bagni, cucine, grate, inferriate, ringhiere, porte, persiane, ecc ecc. Materiali di prima scelta, massima convenienza, onestà e qualità. De Rossi Armando 33898765”

Ma il mondo dell’edilizia non è rose e fiori. Sono pochi i guadagni se non si hanno i giusti agganci. E non ero nemmeno bravo come dicevo in giro e scrivevo sugli annunci.

Quando richiamai Caterina, lei mi rispose come se fossi stata la prima persona a parlare dentro alla sua cornetta in quei giorni. Era tutto a posto.

Il giorno seguente caricai vernici, scala e altro in macchina per trovarmi, alle otto e mezza del mattino sotto il portone della signora Manzone.

Dopo aver rifiutato il caffè che mi aveva offerto, con la scusa di averne appena bevuto uno, cominciai di buona lena a lavorare. Era una cosa di un paio di giorni. Niente di difficile, per fortuna.

Io e la padrona di casa cominciammo a darci del tu a metà mattinata, quando mi avvertì che sarebbe andata a fare la spesa e mi disse di fare come se fossi a casa mia per l’acqua da bere o altro.

Il pennello, intriso di vernice, scivolava sul soffitto uguale ad altre mille volte con i suoi “squash” intervallati ai miei respiri, sempre più affannosi.

Tornò verso mezzogiorno: “Hai fame? Ti preparo qualcosa?”

Grazie, ma sono abituato a lavorare filato, senza fermarmi per pranzo! In questo modo posso terminare prima la mia giornata lavorativa!”

Questa era una mezza verità.

Finire alle tre, massimo alle quattro, mi sembrava un buon modo per non passare la giornata a lavorare. Era vero anche che il languore che pian piano diveniva morso nello stomaco, mi faceva sentire meno solo. Era un masochistico rituale che perpetravo di continuo. Il dolore riusciva a distrarre i pensieri tristi e autolesionisti di quei giorni, facendomi sentire veramente di carne e viscere, umano insomma, come non ricordavo più di essere da molto tempo.

Va bene, se proprio non ti va di pranzare, lascia che ti offra almeno un panino!”

Accettai. Nemmeno uno come me avrebbe potuto rifiutare un’offerta così ridimensionata.

Non ricordo molto di quella giornata. Questo perché ci fu un particolare che spazzò via gli altri.

Mentre, appoggiato alla scala, mangiavo il panino preparatomi dalla donna, essa mi raccontò un poco della sua vita, un paio di fatti che cominciarono a dare spiegazione alle strane impressioni dei giorni precedenti.

Suo marito l’aveva lasciata. Aveva chiesto il divorzio, ottenendolo. Caterina aveva saputo che si era messo a convivere con una ventiduenne polacca.

Una storia come tante che avevo sentito.

Lei rimase a vivere lì col figlio.

Il secondo anno dalla fuga del marito Gianluca, il figlio, si ammalò. Tumore al pancreas. Nel giro di quattro mesi andò al creatore , tenendo la mano della madre e dicendole, con un filo di voce, di non preoccuparsi, sarebbe stato bene dove stava andando. Sedici anni e mezzo, la durata della sua vita.

Caterina aveva deciso di svuotare e ridipingere la camera da letto del ragazzo morto. Per via del dolore.

Sulla via del ritorno, in macchina, entrai per qualche minuto nei panni di Caterina.

Doveva essere terribile la sua vita da quando un destino beffardo, con un paio di mosse, l’aveva messa in una situazione di scacco emotivo da cui sarebbe stato difficile uscire.

In stati depressivi come quello che stavo attraversando in quel periodo, le sensazioni colpiscono fiacche, senza forza. Tutto si appiattisce inesorabilmente e le emozioni da rare si fanno via via inesistenti, qualsiasi cosa accada.

Invece il pensiero di quella donna splendida, incatenata per sempre alle conseguenze di un dolore tanto forte da paralizzare, riusciva a farsi largo a spallate, percuotendo a calci il mio umore.

Secondo giorno.

Arrivai a buon punto già prima delle tredici. A quell’ora Caterina apparve sulla porta. Sapevo che mi avrebbe chiesto qualcosa riguardo al pranzo, magari rinnovando la proposta del panino: “Va bene che vuoi finir presto di lavorare, però stavolta conviene tu faccia un’eccezione! Sto preparando una lasagna… a volte conviene staccare un poco più tardi per godersi i piaceri della vita o no?”

Aggiunse un tono impercettibile di volgare malizia al termine di questa frase. Eccitante se in grado di carpirla.

Mezz’ora più tardi eravamo seduti uno di fronte all’altra, sul tavolo della cucina, a mangiare quella prelibatezza.

Era una cuoca pessima. Nonostante ciò mi dilungai in lunghi apprezzamenti e teorie culinarie atte a glorificare il suo lavoro.

Il suo seno straripava oltre il maglione rosso troppo scollato.

Mai avrei tentato un approccio con quella donna. La mia mente era malata già da un po’. Colpa dello stress, del progresso, del lavoro, delle opportunità. Colpa mia. Avevo pensato al suicidio già molte volte, più che altro prendendo in considerazione l’eventualità e rimandando i tentativi di volta in volta.

Depressione. Una malattia da annoverare tra le peggiori.

Figurarsi se, ridotto com’era il mio stato d’animo, avrei potuto impegnarmi a rimorchiare una donna molto più grande di me, con un fascino ineguagliabile e una situazione alle spalle capace di intimidire tutti qui problemi che mi apparivano insormontabili.

Perciò mangiavo quella pappa disgustosa, la stavo a sentire, rispettavo le buone maniere. Certo non potevo fare a meno di buttare l’occhio su quelle tette enormi e sode.

Lei se ne accorse e fece finta di niente.

Dopo mangiato finii, in breve, quel che mancava alla tinteggiatura della stanza. Accatastai tutti gli attrezzi fuori dalla porta d’ingresso. Con un paio di viaggi li avrei poi caricati in macchina.

Caterina nell’allungarmi i soldi, mi afferrò dall’avambraccio con lo scopo di portarmi a lei.

Fronte contro fronte. Pressati uno all’altra.

Mi trascinò in camera da letto.

Non opposi la minima resistenza.

Chi ha mai visto due lumache che si accoppiano saprà che esse, nell’atto, si fondono in un unico gelatinoso filamento palpitante di muco e carne biancastra. Un solo essere alieno creato dall’unione di due viscide metà.

Il nostro gorgo di sesso fu qualcosa del genere.

Afferravo perché ovunque c’era da afferrare. Caterina era intorno a me e conferiva un senso di pienezza al tutto.

Le prime gocce della mia essenza picchettarono dolorosamente l’inizio del mio orgasmo, risultato inevitabile di una interminabile percossa.

Sensazione di essere fuori luogo.

Sensazione di sporcizia e nausea.

Desiderio irrefrenabile di rivestirsi e andar via.

Caterina, con la testa appoggiata al mio petto, pian piano iniziò a sobbalzare per poi esplodere in un pianto vigoroso ancor più del suo godere.

Dalla gola, pian piano, sempre più in alto, saliva il rospo della mia angoscia che veniva alimentato di continuo da emozioni immensamente poderose.

Piangemmo insieme per un po’ e mi piacque più della violenta scopata di qualche minuto prima.

Lacrime più salate del solito, figlie di un pianto che per troppo era rimasto dimenticato in un angolo oscuro.

Fu quella la fine del mio stato di depressione e l’inizio del resto della vita.

Da quel giorno non ebbi più nessun tipo di contatto con la signora Manzone.

Luca Piccolino