Ritorno a Canton*

di Francesco Terzago

19.00 [ora italiana] Padova non è più visibile alle nostre spalle. Nella campagna il cielo è degradato dal porpora al viola, l’orizzonte, in direzione di Marghera, ha il colore del petrolio – i lontani casolari con le barchesse, e gli alberi che li circondano, sono ridotti a sagome accucciate tra le fibre della foschia.

19.30 [ora italiana] Il Marco Polo ci offre una decina di minuti per il congedo. Non ci vedremo per quasi due mesi, dieci minuti di lunghi abbracci e brevi sorrisi. Alla mancanza ci si abitua. Sono i primi momenti, quelli a ridosso del distacco, nei quali ci si sente come un albero sferzato da una benna e poi tirato su.

19.42 [ora italiana] La mia valigia sfora di un kg il limite, me la fanno aprire. Tolgo qualche libro, il responsabile del check-in mi dice che, di sotto, ne hanno un’altra, di bilancia. I bagagli che superano i 30kg non vengono imbarcati. Secondo lui è colpa del sindacato. Leggi il resto dell’articolo

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Hey brother, welcome to hell

Certo che c’ero anch’io là sotto a cantare «Suan, non ti vogliamo». L’avevo lette, le interviste, cosa credete? Stavano per fare una cazzata, tutto qua. «Credo di esser pronto, il calcio può abbattere le barriere,» aveva detto quello zozzo muezzin. «Se ci fosse un giocatore arabo tanto bravo da meritarsi una chiamata, non vedo perché no,» aveva rincarato la dose Ossie Ardiles. Gringo di merda. Non l’hai capito, Osvaldino? Noialtri, qua, gli arabi non ce li vogliamo. E tu, Abass, abbasso Abass, che pure quando ti vedo con la maglia azzurra della nazionale mi viene un nervoso, che anche davanti alla televisione ti sputo contro «non ci rappresenti, Abbass Swan, tornatene affanculo nello stadio che t’hanno pagato gl’emiri,» cosa cazzo credevi? Che il calcio abbatta davvero le barriere? Che sia uno strumento di pace?

Noi la pace non la vogliamo. Noi vogliamo la guerra. Capito, Swan?

Mi chiamo Itzik e sono un tifoso del Betar. Tutto il resto è merda.

A Gerusalemme di squadre ce ne sono tre: c’è l’Hapoel, “lavoratore”, significa in israeliano, è la squadra dei comunisti, degli operai, del partito laburista. Falliti. C’è il Maccabi, polli cagasotto. E poi ci siamo noi.

E poi, poi. Ci siamo noi, punto e basta.

Noi siamo quelli con le maglie gialle e nere. Quelli con la menorah nello stemma.

Noi siamo Gerusalemme. Noi siamo Israele. Solo noi, noi e basta. Guarda il leader del nostro gruppo di Ultrà, ci chiamiamo La Familia, siamo tutti fratelli e non ci sono mogli che contino. Il capo si chiama Guy. Guy è un tosto, e di cognome fa Israel, non a caso. S’è pure lasciato con la moglie, Guy, per stare sempre insieme a noi a seguire in casa ed in trasferta i gialloneri, «questa è la mia casa, la mia vita, tutto quello che ho,» ha detto.

Siamo i più forti, gli altri sono merde. Corrono, scappano quando ci sentono arrivare. Dovreste vederli, quelli del Maccabi quando gli sfoderiamo contro la nostra rabbia: come galline, scappano.

Prima che nascesse La Familia io stavo coi Tradition Keepers. Facevamo quello: salvaguardavamo la tradizione. Perché poi coi governi laburisti, coi governi sinistroidi, noialtri eravamo la squadra dei reietti, dei rinnegati, noi, capite?, noi che Israele l’abbiamo voluta prima degli altri, l’abbiamo fatta prima degli altri.

La sapete la storia del Betar, no?

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