Il senso del piombo – Reloaded

Mi chiedete chi è Carlos Reutemann, se esiste un’organizzazione dietro questa sigla. Rispondo no, non è stata la sigla di un’organizzazione unica, con organi dirigenti, con capi, programmi e riunioni periodiche. Non esiste un’organizzazione che abbia questo nome e che sia comparabile alle Brigate Rosse o a Prima Linea. Non esiste nemmeno un livello minimo di organizzazione. Ogni gruppo armato che si è formato anche occasionalmente nel nostro ambiente, fosse anche per una sola azione, ha potuto usare questa sigla. D’altra parte non c’è stato modo per impedirlo. Mi chiedete se siamo o siamo stati fascisti, vi rispondo che i fascisti del dopoguerra non sono mai esistiti e che candidamente qualcuno può solo aver pensato, o per meglio dire immaginato, di essere fascista. Di Mussolini non me n’è mai importato niente: non ho mai pensato che fosse una gran persona. Quando sentivo dire: “Uccidere un fascista non è reato” non pensavo al Duce o al Ventennio, ma all’unica persona fascista che conoscessi, mia madre.  

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Tutta colpa di Miguel Bosé

Tutta colpa di Miguel Bosé (Fazi, 2010)

di Sciltian Gastaldi

 

 

Inutile girarci attorno, è stata tutta colpa di Miguel Bosé e del suo balletto sul pezzo Super Superman giunto in Italia nel 1979. Mentre lo guarda, il piccolo Evandro non può fare a meno di provare un’attrazione strana – “diversa” per utilizzare un termine caro agli anni Settanta (e non solo, purtroppo) – nei confronti del cantante.

Evandro, terzogenito della famiglia Chiericato, è un bimbo “sensibile”, che vive nella più classica delle famiglie italiane. Due fratelli maggiori: il primo fervente militante del MSI, nostalgico del Duce e finto duro; la seconda cattolicissima, la cui vita si svolge tra una preghiera ed un rosario. La mamma è una ex cantante di piano bar che ha rinunciato ai suoi sogni e si dedica a tirar su i tre figli. Il padre è un uomo tutto d’un pezzo, uno che rimpiange i Savoia. Evandro ha come miglior amica la tv commerciale degli anni Ottanta. Assieme a lui ripercorriamo tutta la nostra infanzia: cartoni animato culto come Georgie, Lady Oscar, Candy Candy, le spaccate di Heather Parisi, le esibizioni di Renato Zero durante la trasmissione del sabato sera Fantastico. E ancora Drive in, le scarpe della Converse – ora di nuovo di gran moda – il mondo come lo ricordiamo con gli occhi dei ragazzini.

Attraversiamo così tutti gli anni Ottanta, con ironia, con sarcasmo, con la dolcezza che si dedica al racconto dei nostri ricordi più intensi e profondi. Evandro ci racconta cosa significa prendere consapevolezza di se stessi, sentirsi soli in alcuni passaggi delicati della propria esistenza… e poi finalmente osare, sorridere, prendere il coraggio a due mani e vivere la vita in tutta la sua pienezza (una seconda possibilità non ci sarà concessa). Evandro è fieramente “metrosessuale”, termine che ha coniato lui stesso. E non è sempre facile esserlo nell’Italia “piccola piccola” in cui viviamo.

Con il sorriso sulle labbra, Sciltian Gastaldi ci regala un romanzo che si legge tutto d’un fiato, da cui si fa fatica a staccarsi: i suoi ricordi sono esattamente anche i nostri, quel “piccolo mondo antico” è quello in cui noi siamo cresciuti – e che forse un po’ ci manca. L’autore riesce a coinvolgerci totalmente. Non c’è una sola emozione che non riesca a trasmetterci. Ci indigniamo, ridiamo, ci innamoriamo assieme ad Evandro. E assieme a lui siamo al World Gay Pride del 2000. Perché la sua battaglia per i diritti civili LGBT, è anche la nostra battaglia. Perché la sua idea di mondo è esattamente la nostra idea di una società che sia più giusta e che non discrimini ma includa.

Sì, è decisamente colpa di Miguel Bosé. O – più probabilmente – tutto merito suo.

Serena Adesso

Hey brother, welcome to hell

Certo che c’ero anch’io là sotto a cantare «Suan, non ti vogliamo». L’avevo lette, le interviste, cosa credete? Stavano per fare una cazzata, tutto qua. «Credo di esser pronto, il calcio può abbattere le barriere,» aveva detto quello zozzo muezzin. «Se ci fosse un giocatore arabo tanto bravo da meritarsi una chiamata, non vedo perché no,» aveva rincarato la dose Ossie Ardiles. Gringo di merda. Non l’hai capito, Osvaldino? Noialtri, qua, gli arabi non ce li vogliamo. E tu, Abass, abbasso Abass, che pure quando ti vedo con la maglia azzurra della nazionale mi viene un nervoso, che anche davanti alla televisione ti sputo contro «non ci rappresenti, Abbass Swan, tornatene affanculo nello stadio che t’hanno pagato gl’emiri,» cosa cazzo credevi? Che il calcio abbatta davvero le barriere? Che sia uno strumento di pace?

Noi la pace non la vogliamo. Noi vogliamo la guerra. Capito, Swan?

Mi chiamo Itzik e sono un tifoso del Betar. Tutto il resto è merda.

A Gerusalemme di squadre ce ne sono tre: c’è l’Hapoel, “lavoratore”, significa in israeliano, è la squadra dei comunisti, degli operai, del partito laburista. Falliti. C’è il Maccabi, polli cagasotto. E poi ci siamo noi.

E poi, poi. Ci siamo noi, punto e basta.

Noi siamo quelli con le maglie gialle e nere. Quelli con la menorah nello stemma.

Noi siamo Gerusalemme. Noi siamo Israele. Solo noi, noi e basta. Guarda il leader del nostro gruppo di Ultrà, ci chiamiamo La Familia, siamo tutti fratelli e non ci sono mogli che contino. Il capo si chiama Guy. Guy è un tosto, e di cognome fa Israel, non a caso. S’è pure lasciato con la moglie, Guy, per stare sempre insieme a noi a seguire in casa ed in trasferta i gialloneri, «questa è la mia casa, la mia vita, tutto quello che ho,» ha detto.

Siamo i più forti, gli altri sono merde. Corrono, scappano quando ci sentono arrivare. Dovreste vederli, quelli del Maccabi quando gli sfoderiamo contro la nostra rabbia: come galline, scappano.

Prima che nascesse La Familia io stavo coi Tradition Keepers. Facevamo quello: salvaguardavamo la tradizione. Perché poi coi governi laburisti, coi governi sinistroidi, noialtri eravamo la squadra dei reietti, dei rinnegati, noi, capite?, noi che Israele l’abbiamo voluta prima degli altri, l’abbiamo fatta prima degli altri.

La sapete la storia del Betar, no?

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