Se fossi fuoco, arderei Firenze

Se fossi fuoco, arderei Firenze (Laterza, 2011)

di Vanni Santoni

Non avendo io patente di critico letterario, per giudicare un libro mi sono inventato un metodo infallibile nelle vesti di accanito lettore: quella che definirei la prova acustica (il che comprende la valutazione del ritmo e della tonalità: e della storia in quanto struttura e della lingua), ovvero la lettura ad alta voce, preferibilmente con qualcun altro che ascolti – anche se già so che c’è chi mi obietterà che leggere un libro è un atto per definizione solitario, e che così facendo metto il testo alla prova in una sua dimensione per così dire teatrale: ma tant’è, a me piace che l’effetto si propaghi. Per essere ammesso alla prova un libro deve essermi piaciuto davvero tanto (ed è questo il caso), al punto che io abbia voglia non solo di rileggerlo, ma di farne partecipi anche altre persone – e dunque, per rispondere a coloro di cui sopra, che io ne abbia già apprezzata la lingua e lo stile, ma non solo: anche la struttura della storia – al punto, mi ripeto, che mi venga voglia di rileggerlo.
Ecco, lasciamo adesso in disparte le mie tecniche di lettura e ripartiamo da qui: da come Vanni Santoni organizza la sua materia.
Forte dei suoi precedenti – Personaggi precari (RGB, 2007) e Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008) – si può dire che l’autore continui il suo percorso su un binario ben definito: l’idea, cioè, che la trama sia l’effetto delle azioni compiute dagli attori (coloro che appunto agiscono) e che dunque non possa prescindere dai personaggi – in questo senso potremmo leggere la sua prima opera come la vera e propria configurazione di un metodo (eccolo che ritorna), come d’altronde si può constatare seguendo il suo blog. C’è insomma qualcosa di teatrale, ma ancor più cinematografico, nella scrittura del Santoni, che d’altronde è tra i fondatori del metodo (ancora!) SIC – ma non attendetevi effetti speciali o robe del genere, che l’autore voglia insomma stupirvi tralasciando il resto, perché è una scrittura tutta letteraria la sua, altroché: una scrittura che pedina i propri personaggi (era già così nel romanzo precedente) e che ne ruba anche la lingua, disseminata di toscanismi che esplodono in vere e proprie schegge di fiorentino quando è la volta dei dialoghi.

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 18

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Purtroppo dovremo accontentarci di un processo alle intenzioni, che sarà senz’altro sommario, ma che conterrà comunque le sue indubbie verità.

Ad esempio, che i sedicenti scrittori, una volta concluso il fallimentare reading, non si recarono a casa della cugina in dolce attesa, bensì girovagarono in auto per la città e per giunta in condizioni fisiche non del tutto adeguate. Insomma, pare proprio che in mancanza di pecunia essi approfittassero soventemente della gentilezza dei baristi, ovvero che alzassero il gomito con facilità, così come accadde quella notte all’ombra delle guglie del Duomo – per quanto fosse notte.

Così conciati essi si ubriacarono d’aria per le vie del Biscione, assetati e furenti come dei discendenti di quel principe Saraceno che fu battuto a duello da Ottone Visconti*. In queste condizioni, finirono a tarda notte dalle parti degli studi televisivi, dove la biscia non ha un moro in bocca, bensì, più poeticamente, un fiore.

I cinque – che si fossero riuniti o meno non ha più importanza – pare che rimasero di stucco dinanzi a quell’enorme margherita di grigio metallo, tanto che in uno dei taccuini compare un passaggio piuttosto esplicativo in proposito:

Mai visto cotanto simbolo di sole asservito al colore che più si confà all’alienazione; il gigantesco fiore secco si libra in aria, al di sopra dei miei occhi, insensibile come un ingranaggio e pronto a schiacciare l’uomo ancora dedito al sogno…

Adesso penserete che di vera poesia si tratti, e che tutto questo resoconto sia stato un tentativo poco felice di sminuire un’arte che invece merita plausi e allori, ma posso assicurarvi che la precedente citazione è un’eccezione alquanto rara all’interno di un’accozzaglia di retorica assai poco cesellata.

Gli è che, a mio modesto parere – per carità, son giornalista, mica poeta! –, quel simbolo di un potere tanto visibile quanto occulto, fu senz’altro una ricca fonte d’ispirazione, tanto che ingravidò le loro bocche di belle parole e le loro teste di cattivi pensieri. Insomma, quella stessa forza contro cui si battevano – che loro definivano populista – finì con l’offrirgli i semi per i loro miglior frutti, e questo ci basti per affermare che non sempre l’arte nasce dal bello e dal buono, anzi, ché a ben vedere pare proprio che prenda forma per il verso contrario.

Per certo si era di notte, nell’ora popolata dai mostri, per quanto gli studi fossero illuminati a giorno, poiché la scatola dei sogni in technicolor non si addormenta mai, e di conseguenza non dorme chi vi sta dietro a dipanarne i fili. Di spiriti i nostri scrittori dovevano vederne assai, e di fantasmi pure, annebbiati com’erano dalla loro ideologia e da tutto quell’alcool: mostri che con le loro fauci inghiottivano il paese e lo sprofondavano nella melma della barbarie. Ed era proprio per combattere contro queste terribili creature ch’essi erano arrivati ai piedi del tempio a cristalli liquidi, del totem degl’imbonitori che abbagliavano gli spettatori di bianchi sorrisi e di sguardi invitanti, mentre zompavano da un’inquadratura all’altra senza perder mai il centro dell’immagine.

Immaginateveli davanti a quell’enorme blocco di vetro e cemento, finalmente giunti alla loro meta, con gli occhi tremolanti e la gambe molli, ma soprattutto orfani del dono della parola; perché così dovettero sentirsi quando si udì il cigolio di stivali in pelle in avvicinamento sull’asfalto, mentre la voce di una guardia urlava il chi va là…

Simone Ghelli

* Si narra che nel 1187 Ottone Visconti sconfisse in duello un principe Saraceno che portava sul proprio elmo una grossa serpe che ingoiava un infante. Dopo aver schiacciato l’esercito saraceno come si schiacciano i serpenti, quelle insegne strappate al nemico furono donate dal Visconti alla Cattedrale di Milano

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 14

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Insomma, i cinque arrivarono a Milano carichi come una bomba a orologeria, pronti a esplodere da un momento all’altro, magari proprio nell’ora dell’aperitivo, in mezzo al brulichio e al cicaleccio di certi personaggi azzimati e impomatati che sembrano usciti fuori da una pubblicità di qualche analcolico on the rocks.

Da testimoni attendibili risulta che i sedicenti scrittori alloggiarono in periferia, presso una cugina di primo grado in dolce attesa, e che vi giunsero soltanto in quattro, ma piuttosto trafelati e puzzolenti e ancora carichi di scatoloni di libri rimasti invenduti. Dal qual particolare si evince una volta di più che destava interesse il loro fenomeno, l’esser dei saltimbanchi, o dei pagliacci se preferite, piuttosto che la sostanza delle loro idee, la scrittura vera e propria.

La riunione si realizzò poche ore dopo sulla scalinata del Duomo, un po’ ingrigita e impallinata dai piccioni, ma pur sempre affascinante sotto quel cielo incredibilmente terso e romantico, come documentato dalla foto traditrice, che riprende un abbraccio in bianco e nero tra i nostri, mentre tutt’intorno la piazza pullula di poliziotti col pastore tedesco al guinzaglio e di turisti all’oscuro del fatidico disegno.

È ovvio, a questo punto, che i fatti precedentemente riportati siano tutti quanti viziati da un madornale errore di fondo, alla luce del quale dovremmo rivedere l’interpretazione vigente. Chiediamoci quindi il perché di questa macchinazione, partorita dalle menti di chi si è voluto dipingere in pubblico come puro artista, come animo intonso ancorché impegnato, e del ruolo rivestito infine da questo fantomatico quinto componente. Quale doveva essere la sua funzione, se non quella di coordinare da una torre di controllo le scriteriate gesta dei suo compari, inficiando così la teoria del piano improvvisato sul momento? Ecco allora spiegata la natura guerrigliera di costui, il suo impegno nelle arti marziali e il ruolo strategico di ufficio stampa alle dipendenze di un editore noto da tempo come sovversivo e sobillatore.

Ed è a questo punto, cari i miei lettori, che mi ritrovo, dopo tanto peregrinare tra scartoffie, interviste e dichiarazioni varie, a esser costretto a prendermi anch’io qualche licenza poetica, ad azzardare qualche ipotesi che non potrà mai essere tanto inverosimile quanto la realtà riportata nei commenti dei nostri protagonisti.

Dopo tanti giorni passati chino sui fogli o con le orecchie attente ad auscultare le intercettazioni ambientali, posso affermare di aver fallito nella ricostruzione dettagliata del piano (ed è questo il dubbio che più mi arrovella, poiché questa pecca giustificherebbe ancora l’ipotesi di un colpo di testa, di una bravata improvvisata), ma di aver compreso alcune cose affatto secondarie sulla psicologia di questi scrittori ributtanti e rivoltosi.

La prima è che non avevano una, non dico due o tre, ma un’idea che fosse una di letteratura, la qual cosa si deduce dall’uso sproporzionato di aggettivi indecenti e deleteri quali carino e interessante, con cui infarcivano le loro riflessioni di bassa lega. Hai letto quel mio lavoro?, chiedeva loro qualcuno, e giù a dire che sì, che era carino, interessante, ma che c’era qualcosa che non andava, che non convinceva fino in fondo. Ecco, di questo qualcosa, che immagino costituisse proprio l’irriducibile sostrato letterario della questione, essi non sapevano darne una definizione precisa. Arrancavano, come i più che oggi si buttano a scrivere in mancanza d’altro e che per lo stesso presupposto, quasi che siano spinti da forza d’inerzia, finiscono persino con l’accettare l’obolo del pagamento pur di vedere pubblicate le loro elucubrazioni da quattro soldi. Loro cinque si dichiaravano però contrari a questa forma masochista di letteratura, per quanto poi non si vergognassero di fare la questua a questo o a quell’altro personaggio famoso pur di ottenere un minimo di spazio e di visibilità.

Insomma, se proprio posso permettermi anch’io un poco di licenza poetica, direi che la storia del nostro glorioso paese doveva ancora conoscere dei simili gigolò della letteratura, che forse non sarebbero dispiaciuti al D’Annunzio, se non fosse che questi non avevano neanche l’ardire di rischiare la propria vita per la patria.

Altro che rivoluzionari della parola!, essi miravano né più e né meno all’effimera gloria, al caduco successo, quello stesso che avrebbero raggiunto con più facilità in uno studio televisivo che nell’impervio mare di carta che s’eran prefissati d’attraversare…

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 11

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Il riferimento al bello ci è utile anche per comprendere l’univocità di genere caratterizzante il gruppo, che non era certo costituito di soli maschi per una forma di maschilismo o di misoginia – o almeno ciò non sembra emergere dai loro scritti – ma piuttosto perché essi erano accomunati da tratti fisici non proprio ripugnanti, ma sicuramente non piacevoli. A vederli nelle foto che si son divertiti a scattare durante il viaggio, emerge anche una certa sciatteria nell’abbigliamento e nelle posture, che addizionata al venir meno del cosiddetto fascino dello scrittore in un’epoca poco avvezza ai libri, ci dà la soluzione al quesito sull’assenza delle donne in questa combriccola.

E questo dev’esser stato sicuramente un altro chiaro motivo di frustrazione, che ha spinto i cinque, bombardati da una continua pioggia ormonale, a riversar la loro carica su altri obiettivi, e in particolare su quello assurdo e grottesco di rubare le parole al Presidente. Detto così, potrebbe sembrare un gioco letterario, una sorta di gara di retorica, ma dietro questo slogan un po’ naïf, questi terroristi del verbo nascondevano ben altri intenti.

Per niente sfiancati dalla prestazione bolognese, essi ripresero infatti la marcia verso nord, in direzione della capitale ambrosiana, e fu probabilmente durante quel viaggio che iniziarono a pianificare la loro strategia. Se nelle tappe precedenti il significato del loro discorrere sembrava ancora tutto compreso nell’universo letterario, durante la serata milanese sembrarono emergere degli elementi nuovi, che ci permettono di leggere in chiave ideologica anche certi passaggi dei loro scritti. Non parlo della trita propaganda di cui erano intrisi da cima a fondo i loro testi più impegnati, ma degli altri racconti e poemetti per così dire d’evasione, che nascondevano invece una critica ben più radicale al sistema in cui si andavano muovendo. V’era inoltre in quel loro modo un po’ sornione e testardo di stare sul palco nonostante tutto – i brusii, i movimenti, persino lo svuotarsi degli spazi – un irriducibile e caparbio residuo d’utopia, che si pensava ormai spazzata via grazie ai soporiferi talk show televisivi e all’informazione precotta che si vendeva un tanto al chilo.

Tutto ciò emerse chiaramente in quel di Milano, dove i nostri sembravano dei bambini in gita, e come questi non si risparmiavano in critiche da bar legate a un po’ di sano campanilismo: la prima delle quali fu di carattere meteorologico, ché chi vive a Roma s’affeziona al sole e al cielo della capitale, e per queste due qualità subisce volentieri il peso di tutte le altre angherie della città dei ministeri. Insomma, gli è che anche sotto un cielo terso, ai loro occhi in quella città sembrava comunque tutto grigio, probabilmente per via di una visione viziata da anni di dicerie, al punto che l’immaginario inabissava la realtà a portata di mano.

Ma c’è un fatto che più di altri dimostra la presenza di una trama oscura dietro l’apparente sciatteria del progetto; un particolare non da poco che emerge da una delle fotografie archiviate dal quintetto, che ritrae un abbraccio sospetto ai piedi degli scalini del Duomo. Nell’immagine si vede chiaramente lo scrittore con attitudini alla lotta salutare due dei suoi compari di viaggio, in un modo che indica in maniera lampante la ricongiunzione dopo un considerevole lasso di tempo, e che desta molti dubbi sulla veridicità degli appunti ritrovati tra le loro carte. Come se il viaggio fosse insomma stato riscritto al suo termine, per raccontarci una storia un poco diversa da quella realmente accaduta.

Già vi sento obiettare che in fondo questo è il compito dell’artista, che s’ingegna nel rimescolare un poco gl’ingredienti di un piatto che siamo abituati a trovare servito e condito, e al cui sapore ci assuefacciamo facilmente e volentieri – nel nostro paese la televisione è in fondo servita proprio a questo: a presentarci sempre il solito menù, e non è un caso che stia caparbiamente accesa mentre la famiglia si riunisce a tavola per desinare.

Il compito di un buon degustatore – che sia lettore o spettatore non importa – è però quello di saper discernere quest’ingredienti, in modo che non corra il rischio d’esser caso mai avvelenato; perciò siamo arrivati al punto di dover sporcare un poco le nostre mani, per separare il buono dal cattivo, come in ogni opera che si rispetti.

Simone Ghelli