L’economia come scienza umanistica /1

Continua il nostro viaggio tra le dispense dell’economista Malina Kendelthon, di cui pubblicheremo in vari capitoli la parte intitolata “L’economia come scienza umanistica”.

Viaggio da una prospettiva psicologica ad un punto di vista organizzativamente rilevante

DIFFERENZE INDIVIDUALI NEL SELF-MONITORING : VERSO LO SVILUPPO DI UNA ”NUOVA COMPETENZA”.

Sulla capacità di adattarsi ad un io in movimento… «L’Uomo è il creatore di se stesso.. è animale di natura varia, multiforme e cangiante», in questa condizione flessibile all’uomo  «è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole».

(Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate)

Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

L’amore e la morte, più l’odio. E il potere /2

Continua da qui.

 

Qui sarà utile raccontare un fatterello di cronaca. Abbiamo prima citato gli snuff movie. Il primo film snuff fu realizzato nel 1974 dai coniugi Michael e Roberta Findlay, ed era intitolato proprio Snuff. Nel film si voleva ricostruire in chiave pornografica la strage che la “famiglia” Manson operò a Bel Air e in cui perse la vita anche Sharon Tate, moglie di Roman Polanski. Findlay aveva già realizzato alcuni porno, disgustosi ed estremi, come Invasion of the blood Farmers e Shriek of the Mutilated; eppure i suoi primi film erano stati dei porno-soft. Da qui, con la moglie, si erano spinti fino all’hardcore, poi al sadomaso, poi al sadomaso estremo, fino ad arrivare allo snuff – cioè fino all’omicidio. La spirale era partita da una base piccola, con sesso abbastanza pacato, non abominevole; poi si era allargata al sesso efferato; quindi alla violenza; e la violenza era sempre più aumentata fino a diventare morte violentissima. Una spirale. Leggi il resto dell’articolo

L’amore e la morte, più l’odio. E il potere /1

Per Freud l’amore è istinto al piacere, per sua propria caratteristica si colloca all’esterno dell’individuo. La morte è autodistruzione, ossia compulsività: è quando l’atto perde l’impulso vitale che lo contraddistingue; per sua propria caratteristica tende a convogliarsi all’interno dell’individuo e se si convoglia all’esterno diviene pura violenza.

La relazione fra eros e thanatos l’avevano già intravista Empedocle e Flaubert, che col personaggio di Emma Bovary (che s’innamora dopo la morte del genitore, che in collegio prima fantastica sull’amore e poi quasi morbosamente sulla morte, interessanti le letture che Emma fa nel capitolo 52) la amplia fascinosamente. Ma non finisce qui. Leggi il resto dell’articolo

Cari cittadini di Tebe

Cari cittadini di Tebe, io Edipo, vostro Re, ho saputo che un morbo ha portato in città l’ira di Apollo per la morte di Laio, e che il morbo durerà finché il colpevole non sarà punito: così l’Oracolo ha detto a Creonte. Ho udito le vostre grida e visto il vostro dolore, ho visto le pire e le fiamme bruciare i vostri cari nella speranza di limitare l’ira divina. Vedo i vostri corpi denutriti e sofferenti, poiché i raccolti sono distrutti e le mandrie muoiono senza che nulla possa salvarle, e io con voi e per voi soffro, cari cittadini di Tebe, perché vi amo come un padre ama i figli suoi.
Cari cittadini di Tebe, state tranquilli, so chi ha ucciso Laio, e il colpevole è proprio in quest’adunanza. Non c’è bisogno di chiamare Tiresia: non è lui ad aver sconfitto la Sfinge, ricordate? Lasciamolo dunque al suo flauto. Oggi gli Dei chiedono la soluzione di un altro enigma, e anche questa volta io vedo la soluzione, e la soluzione offro a voi, poiché io sono il vostro Re e, come ogni buon Re, io amo coloro sulle cui teste chinate lo sguardo mio si posa.
Cari cittadini di Tebe, state tranquilli, poiché il colpevole è sotto gli occhi di tutti, ed è bene che più non s’indugi, poiché nell’indugio cresce l’ira di Febo, e morbo e carestia più veloci si diffondono. Dunque ora, per la vostra salvezza, vi dirò cosa che da voi è taciuta, ma non ignota: so per quali vie furtive si sparge il sussurro della verità tra di voi, di bocca in orecchio, di vicolo in vicolo, e so come questo sussurro divenga molte voci, perciò non permettete alle vostre orecchie di nutrire scandalo per le mie parole solo perché più alta e più solenne è la voce di chi parla. Leggi il resto dell’articolo

Bravo Freud!

[Riproponiamo oggi questo intervento, che per una nostra svista non è stato pubblicato come previsto nel mese di marzo.]

Fra i disturbi dell’alimentazione il più discusso è l’anoressia e spesso si dice che le sue cause siano il benessere e la moda: l’eccesso di cibo che porta al suo rifiuto attraverso i dettami degli stilisti e dei consulenti d’immagine.

Tuttavia raramente ci si disturba – ed è paradossale in questi ultimi due secoli – a ricercarne i motivi altrove. Per esempio nella psicanalisi. Studiando i bambini ci si è accorti che, in certi casi, aspetti della loro psiche vengono repressi perché non sono compatibili coi canoni (generalmente stereotipati) imposti loro dai genitori. Tali repressioni – che possono sfociare in perversioni o follia dall’adolescenza in poi – rappresentano i cosiddetti «piccoli assassinii dell’anima» di cui parlava Kaspar Hauser nel 1832 e sono la causa d’un certo tipo di anoressia.

Si potrebbe dire che, per diversi psicanalisti, la bambina (che è il soggetto in questo specifico caso) tenta di ridurre la sofferenza della repressione cercando sollievo nella figura-modello della madre. Il soggetto, quindi, rinuncerà ad aspetti del proprio Sé per diventare un’estensione speculare di questa figura. La bambina è portata a cercare conforto nella madre perché essa è una fonte straordinaria di nutrimento per il suo ego: nelle frasi materne “Che bella bambina sei”o “Sei la bambina più bella del mondo” il soggetto avverte l’accettazione da parte del suo modello e contemporaneamente trova lo stimolo ad assomigliargli. Questo porterà la bambina a un progressivo attaccamento al suo modello e, in seguito (cioè nell’adolescenza), all’incapacità di far fronte autonomamente ai problemi. Con l’inevitabile distacco da sua madre l’adolescente soffrirà di un’enorme tensione che la porterà a un digiuno compulsivo e autoimposto perfettamente descritto nel vocabolo tedesco Pubertätsmagersucht: deperimento puberale compulsivo. Infatti, l’anoressica soffre di perdita di appetito, ma di fatto il disturbo non ha a che vedere col digiuno (anzi, questo tipo di anoressica non fa altro che pensare al mangiare, alle ricette e alle preparazioni dei cibi).

Si potrebbe dire, in sintesi, che talvolta l’anoressia è causata dalla tensione che la bambina morbosamente attaccata a sua madre prova nel momento in cui debba distaccarsi da lei. Tale distacco avviene con maggiore frequenza dall’adolescenza in poi, quando la bambina cresce e si viene a trovare in contatto con problemi che inevitabilmente causeranno l’allontanamento da sua madre. È chiaro, però, che questi sono casi limite in cui il fenomeno del disturbo alimentare è causato da una casistica che si verifica solo in modesta percentuale. Così, oltre il complesso di Edipo, la figura della mamma si fregia d’un’altra medaglia. Bravo Freud!

Antonio Romano

L’inutilità del genio post-moderno /3

Dati i presupposti, non possiamo dimenticare l’importante affermazione che Giorgio Colli fa in La nascita della filosofia («La follia è la matrice della sapienza») e il fatto che i più straordinari documenti dell’antichità, oltre agli illusori testi filosofici (compromessi interamente con l’intangibile se non col folle) e ai reiterativi saggetti (che ruotavano sempre attorno alle stesse cose e sempre negli stessi termini), sono opere teatrali con personaggi che – per i motivi disparati – commettono quelle che oggi (come ieri, spesso) definiremmo “pazzie”: Edipo, Medea, Antigone, Elettra…

Perché il “gesto insano”, conducendo alla catarsi, è tramite per la divinità: come l’idiozia dostoevskijana, che è insania e vocazione mistica.

Tiriamo di nuovo le fila, altrimenti in questa selva di deduzioni e supposizioni potremmo sperderci, e vediamo cosa abbiamo in mano: unità spazio-temporali in dissolvenza, illusione, irrealtà, morbosità, follia, divinità.

Improvvisamente si crea un nesso, anzi, un’equazione:

letteratura : illusione = follia : divinità

ed ecco che nello sputtanatissimo legame fra letteratura e divinità si evidenzia un percorso che passa per la finzione (la nota “finzione letteraria”) e la follia (la “theia mania” platonica del Fedro). Tutti elementi abbastanza risaputi, ma raramente o mai esaminati nella loro sequenza.

Un nuovo quesito movimenta questo dipanarsi: visto che la letteratura è citazione (dovremmo dire “metafora”) della follia e perciò della divinità, data la letteratura corrente, a cosa s’è ridotta la divinità?

Ci sono dei legami nelle opere di autori lontanissimi e nelle opere – ovviamente – del medesimo autore.

E così: fra il Conte Ugolino e i due poveri amanti Paolo e Francesca c’è il legame del racconto in pianto; fra l’Ofelia di Rimbaud e la Marinella di De André c’è il fiume e l’amore di mezzo con stelle e fiordalisi di contorno; Jonson, il poeta del «Lascia un bacio dentro la coppa e io non ti chiederò vino», s’assomiglia nei modi e in alcuni tratti biografici al Catullo di «Odi et amo»; Zorba e l’Inglese di Kazantzakis altri non sono se non il Dionisio e l’Apollo di Nietzsche.

Lo strutturalismo, se vuol fissare delle Gestalt che si meritino questo nome, deve fare a meno di limiti e compartimenti stagni: la struttura del materiale culturale con cui opera dev’essere leggera e interscambiabile, levigata e pronta a combaciare con ogni cosa.

Quindi, la divinità sottesa (anche se involontariamente… involontariamente per gli autori medesimi, ovviamente) alla letteratura contemporanea non deve avere troppi legami e deve potersi accostare a tutto – esattamente come i personaggi e le situazioni di cui abbiamo parlato qualche riga fa.

I principi e i valori devono farsi trasparenti e volatili. Leggerezza, raccomandava Calvino nelle Lezioni americane.

Ma i principi sono anche la trama: sono spinte su cui si muovono i personaggi. Principi volatili danno personaggi inesistenti e plot cadenti.

Rispondiamo alla nostra domanda: la divinità – motore sotteso e originario delle letteratura – è svanita, o meglio s’è ridotta alla sua effige: la follia.

Ambiguità e ironia

Humbert Humbert, l’Abate Faria, Hannibal Lecter, il Vecchio della Montagna, Eraclito, Omero, Tiresia, Edipo, Buddha, il Mago di Oz, Nero Wolfe, perfino Babbo Natale: tutti questi personaggi (e molti altri affini) recano in sé delle tracce mai soppresse e sempre presenti in certe figure letterarie.

L’Oracolo in Matrix o la figura del profeta nei Libri Sacri o Sherlock Holmes: questi tre i grumi in cui, più che in altri personaggi, si sono mostrate le tendenze della letteratura occidentale.

Onniscienza. Ombra. Onnipotenza.

Tutti i personaggi che ho elencato poco fa hanno tre caratteristiche che manifestano singolarmente o accoppiate o nel complesso: vivono nell’ombra, intesa in senso lato (Holmes, per esempio, si traveste e vive immerso nel fumo o nella nebbia); sono, o sembrano, onniscienti; giocano con la vita e la morte perché sono immortali o perché si sentono tali oltre che onnipotenti.

Lo scrittore non s’è mai liberato di queste tre fascinazioni: il sapere, il vedere e il potere. Perché il sapere è anche potere, ma questa capacità di conoscenza (e dunque di dominio) si esplica meglio laddove gli altri non vedono: lo scrittore, così addentro alle parole, sente anche di poter manipolare come vuole i concetti, quindi la verità medesima, quindi – in ultima istanza – la vita degli altri. Perché gli altri sono ignoranti, perché non vedono, e dunque niente possono più di chi mette loro in bocca le parole di cui si servono come sonnambuli. Questa malattia degli scrittori, io la chiamo “sindrome di Polo”, dal nome del personaggio del Gorgia di Platone: consiste nell’immaginare di controllare tutto e di vivere in una trama solo perché si controlla il linguaggio, e lo spirito degli altri attraverso il controllo sul linguaggio.

Questa tendenza s’è estrinsecata, quantomeno in me, nel patologico citazionismo de Il volo interrotto, nel suo amore per l’ambiguità del dubbio dell’indeterminazione e dell’ombra, nel suo raffigurare omicidi che somigliano più a gesti quotidiani che ad attentati contro tutto ciò a cui siamo stati educati.

Ed è in fondo questo il principio di tutti i libri che si propongono oggi di essere “creativi”: l’omicidio, la conoscenza, l’ambiguità.

La generazione pulp sbandierava e sbandiera la violenza, i moderni giallisti la conoscenza, e tutti gli autori, nessuno escluso, l’ambiguità (che, per loro pochezza, s’è ridotta quasi esclusivamente ad ambiguità sessuale e non è molto di più della parodia di se stessa).

L’ambiguità siede allo stesso tavolo dell’ironia: dov’è finita l’ironia? Nei libri di oggi non ce n’è traccia.

Spostiamo allora la nostra attenzione su questi due ambiti: ambiguità e ironia.

Antonio Romano