Contributi d’autore – il video

contributi d'autore

Durante la scorsa edizione di PiùLibriPiùLiberi, fiera della piccola e media editoria tenutasi a Roma nel dicembre 2012, Carolina Cutolo (Scrittori in Causa) e Andrea Coffami (Scrittori precari) hanno realizzato una serie di interviste a editori, tutti (o quasi) a pagamento, a proposito della discutibile prassi di mettere il rischio imprenditoriale sulle spalle degli autori chiedendo contributi economici alla pubblicazione.
Il video che segue, raccoglie le argomentazioni con le quali gli editori giustificano una prassi palesemente in contrasto con l’art. 118 della legge sul Diritto d’autore (633/1941), che definisce il contratto di edizione come “Il contratto con il quale l’autore concede ad un editore l’esercizio del diritto di pubblicare per le stampe, PER CONTO E A SPESE DELL’EDITORE STESSO Leggi il resto dell’articolo

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Il print on demand NON è editoria

[Articolo di Carolina Cutolo riveduto e corretto per Scrittori precari in seguito alla discussione su Scrittori in Causa]

Iniziative come Il mio libro del quotidiano La Repubblica, fanno parte della categoria denominata print on demand (POD), cioè letteralmente: “stampa su ordinazione”. Questo nome (nonostante l’inglese a effetto distragga dal senso preciso delle parole) è già una dichiarazione d’identità, come dire: stampiamo (non pubblichiamo), siamo tipografi (non editori).
Peccato che la campagna pubblicitaria che circonda questo tipo di operazione calchi invece la mano sulla preziosa possibilità che offre alla realizzazione del sogno di ogni aspirante scrittore (che paghi): vedere il proprio manoscritto pubblicato, “accedere al mondo dell’editoria”, come troviamo scritto testualmente sul sito di Youcanprint. Queste operazioni dunque, al pari dell’editoria a pagamento, glissano sul fatto che la discriminante per pubblicare sia il denaro (e chi non ce l’ha, problemi suoi), sottolineando invece la presunta democraticità del fatto che secondo loro chiunque può finalmente realizzare il suo sogno di diventare scrittore, omettendo che in verità tale democraticità è riservata (palese contraddizione in termini) solo a chi paga. Lo slogan del progetto Ilmiolibro.it è illuminante: “Se l’hai scritto, va stampato”, come se il semplice fatto di buttare giù un malloppo di frasi qualsiasi, fosse sufficiente a conferire al testo dignità e diritto alla pubblicazione: un povero aspirante scrittore, ingenuo e narcisista, non aspetta altro che questo tipo di avallo per potersi considerare a tutti gli effetti uno scrittore, cosa che sembra importargli infinitamente più che imparare a scrivere bene. Leggi il resto dell’articolo

Sommersi dai libri

«Nell’antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore.»

Lo scriveva Luciano Bianciardi nel 1957, il libro è Il lavoro culturale.

Nello stesso testo si parlava già anche del fatto che tutti volessero scrivere, pubblicare il loro libro (ma poi ai dibattiti, ad ascoltare, non ci voleva stare nessuno: come nell’incontro sui pellirossa, quando i due relatori milanesi scappano via perché devono lavorare).

Da allora sono passati più di cinquant’anni e le proporzioni si sono indubbiamente moltiplicate. Leggi il resto dell’articolo

Aspetta primavera, Lucky

Aspetta primavera, Lucky (Edizioni Socrates, 2011)

di Flavio Santi

 

Arrivo la sera morto, con gli occhi cotti come due uova in padella.

 

 

Ci sono dei libri che non ci lasciano indifferenti per principio, perché appartengono al nostro mondo ancor prima che alla scrittura, alla loro scrittura.

È un fatto strettamente personale, qualcosa che incrocia il nostro percorso fatto di altre letture e altre riflessioni; qualcosa che ci avvicina per principio al libro in questione, che ce lo rende fin troppo prossimo. Insomma, ci sono libri che per mille motivi non sfuggono a una lettura partigiana, viziata da un’invasione di campo che ci spinge a ingaggiare una lotta, più che una lettura: con o contro di loro.

È da queste premesse che nasceva il mio iniziale scetticismo nei confronti del libro di Flavio Santi, che tra tutti andava a toccarmi proprio il mio adorato Bianciardi (e il Bandini di John Fante); motivo per cui ho apprezzato di meno le prime pagine, dove ancora dovevo liberarmi dai miei pregiudizi e da ogni resistenza dettata dalla diffidenza nei confronti di una certa sfrontatezza dimostrata dall’autore – eppure, mi dico oggi che l’ho letto, in quel momento non ero forse la stessa persona convinta del fatto che sia meglio cimentarsi coi grandi e rischiare un grande fallimento, piuttosto che gareggiare col primo babbeo che va di moda?

E infatti dicevo dell’incipit, dove il protagonista sogna Pasolini, mica noccioline: Pasolini che anziché esser fuggito a Roma si è fermato in Friuli, a lavorare come insegnante nelle scuole medie, e che non ha più tempo per scrivere poesie né provare a fare un film. È a partire da questa invenzione dell’inconscio che Santi ci regala un’invettiva sulla condizione dell’intellettuale nel terzo millennio; in particolare quella di un traduttore – ed ecco qua Bianciardi e la sua Vita agra – che deve combattere con un mondo editoriale ridotto a spettacolo grottesco, a fiera delle vanità, dove la sopraffazione è un valore riconosciuto da tutti.

I personaggi che abitano le pagine di questo romanzo restano impressi al pari del protagonista, nel quale può riconoscersi chiunque viva oggi sulla propria pelle la condizione di lavoratore precario: basti pensare al collaboratore editoriale Danilo Casupola – che ripete continuamente: «A quando il botto?» riferendosi al Pirellone o Torracchione bianciardiano –, licenziato per far posto a un raccomandato; o allo scrittore Adamantino Pollastri, uno molto potente e in vista, uno che si lamenta del suo successo che l’ha trasformato in “brand”; senza dimenticarsi di Tano Dere, un conduttore televisivo che fa trasmissioni sui libri senza mai averne letto uno.

Il prodotto di questo mondo, a cui il protagonista rimane attaccato a costo di enormi sacrifici – perché ci starebbe volentieri al posto di Adamantino Pollastri, anziché dover elemosinare traduzioni per pagare le bollette –, è una persona incapace di esplodere, tanto per non discostarci dalle pagine della Vita agra: un uomo che anche volendo non distruggerebbe niente, circondato com’è da sole macerie. Un uomo che a forza di accettare è diventato persino incapace di scegliere, diviso fra due donne così come lo è fra il sogno e la realtà: da una parte la moglie Giulia, che ancora crede all’utopia (al comunismo), e di cui è innamorato di un amore delicato ma evanescente; dall’altra Sveva, che raggiunge a Roma ogni volta che può per sfogare le sue pulsioni sessuali – due parti che non formano comunque un intero: quella Simone Weil che è il sogno erotico segreto del protagonista.

Per quanto odi il potere e l’aura d’arroganza e ipocrisia che lo circonda, Fulvio Sant – alter ego dello scrittore, che suona all’orecchio come una sorta di kamikaze – è un uomo che non riesce neanche più a urlare i suoi vaffa, ma che al massimo se li sogna, e che come lo struzzo (della copertina del libro) mette la testa sotto terra; ma ci sente lo stesso, eccome se ci sente. Infatti non c’è niente di consolatorio in questo libro, a partire dalla scrittura stessa di Santi, che arriva dritta al cuore del problema e delle cose: una scrittura che mette in subbuglio e lascia il segno, e che soprattutto non risparmia nessuno, né vincitori né vinti.

 

Simone Ghelli

Scrittrice: tu m’hai provocato… e io te distruggo!

ovvero la seduzione nell’epoca della riproducibilità virtuale

 

 

«Sono appena tornata da Berlino e sto scrivendo un’autofiction in cui mescolo le cose vere che mi sono capitate con fatti inventati».

«Brava! Fai bene a scrivere. In questo paese c’è un bisogno viscerale di scrittrici di qualità che trattino la materia politica attraverso la metastoria, cioè che travestano di finzione l’urgente necessità di mimesi. Se poi sei un cervello in fuga che ha scelto di rientrare e ora sei precaria chissà quante osservazioni acute potrai fare sulla realtà che hai trovato qui. Questo è un paese disastrato, è fondamentale narrare la diversità, l’altro, attraverso la rappresentazione di eventi anche finzionali che però trasmettano un senso di denuncia».

«Veramente ero in Erasmus»

«Bene! È importante che si continui a parlare di Erasmus, perché è la porta che si spalanca davanti ai nostri studenti disillusi e li proietta in realtà ricche di stimoli, in paesi dove la democrazia esiste davvero, mica come qui, che siamo in balìa di Ramsete II e della sua corte di nani e ballerine, in senso letterale, eh? mica metaforico. Mi sembra fondamentale che voi giovani trasmettiate a questo paese marcescente l’idea forte che voi avete altre opportunità, che Internet vi ha liberati da vincoli secolari, che il mondo è un a clic di distanza da voi e che abbandonerete questo paese alla ricerca di nuove opportunità, di nuovi modi di fare cultura e di nuove libertà di espressione. Chi vi ferma a voi? Siete il futuro! Bravi, andate e riportate indietro la democrazia».

«Veramente è una storia d’amore».

«Ah sì? Be’, mi fa piacere che questa nuova generazione anche se così tecnologizzata sappia ancora narrare l’amore, in questo mondo così cupo, in cui le coppie si separano presto e nessuno fa più figli. Siete il futuro, è bello vedervi innamorati».

«La trama racconta di lei, che poi si chiama come me perché è un’autofiction, che si innamora di un tossico a Berlino in un centro sociale. Insieme fanno un sacco di esperienze, la più importante, che poi è l’episodio centrale del libro, è quando a lei finisce la borsa Erasmus, e i suoi non possono mandarle soldi da casa, perché è figlia di operai (questa è la parte di finzione, io sono figlia di dirigenti di azienda, ma mi pareva fico farla di estrazione proletaria, così è più credibile anche quello che segue). Insomma, lei è innamoratissima di lui, e decide di prostituirsi per procurare la droga ad entrambi. Però alla fine è una storia di redenzione».

«Splendido! Bisogna infondere fiducia nel futuro, e lasciare che anche nelle esperienze più cupe il lettore possa immaginare una via d’uscita. Insomma, bisogna essere positivi, altrimenti qui si soffoca nella depressione. E hai intenzione di pubblicarla?»

«Embè, sì, mica scrivo pe’ sticazzi. Si fatica a scrivere, eh? È un lavoro. Sono come Hemingway, mi chiudo in camera almeno quattro ore al giorno con i tappi nelle orecchie e scrivo, scrivo, scrivo. Sto studiando molto, ho ripreso in mano i classici della letteratura perché voglio scrivere una storia lunga, che venga fuori un tomo di almeno quattrocento pagine con moltissime citazioni. La mia idea sarebbe di pubblicarla con un grosso editore, perché mi hanno detto che la mia prosa è molto lirica e profonda, molto convincente, e che quello che racconto avrà vasta eco di pubblico. Sto sviluppando l’episodio centrale, quello in cui lei si prostituisce per lui, che ovviamente è finzione. Anche se devo dire che attraverso la scrittura vivo situazioni che mi mancano, che vorrei davvero avere sperimentato. Ho preso spunto da William Blake, mi ispiro alla sua lingua oscura, al suo registro visionario».

«Caspita, come ti esprimi bene! Però mi dà l’idea che sarà un romanzo molto difficile, sei sicura che qualcuno lo vorrà leggere? Hai sentito un agente letterario?»

«No, vado su facebook».

«…?»

«Lì ho incontrato la mia guida, quello che mi consiglia e a cui posso chiedere tutto. È un grande scrittore, uno con cui ci si può davvero confrontare».

«E allora com’è che sta su facebook?»

«Guarda che se non sei su facebook non sei nessuno, e poi è quello il luogo della cultura alternativa, solo lì si possono incontrare gli scrittori davvero impegnati. Quelli a cui i media non danno spazio. Ha detto che quando l’ho finito mi piazza dall’editore Supermega».

«Ma non era alternativo?»

«Oddio!! Non segui i dibattiti!! Cosa c’entra essere alternativo e pubblicare con Supermega?? … Ehm.. Cioè… Cos’è che dovevo dire? Ah, sì: è più nobile se si pubblica con un piccolo editore, però se mi intervista Mediaset mica je dico de no, non vorrai mica togliere a quei pezzenti sottoproletari che guardano il TG5 l’opportunità di sentire un po’ de cultura?»

«Scusa, ma la tua protagonista non era di estrazione proletaria?»

«Sì, vabbè, che c’entra, tanto queste cose rimangono fra noi».

«Eh… Scusa ma tornando al tipo di facebook, ti piazzerebbe da Supermega in cambio di cosa?»

«Ma di niente! Lui mi adora, sono la sua scrittrice preferita».

«Ma se non hai ancora pubblicato?!»

«Eh, ma certi esperti sono in grado di valutare il valore di uno scrittore anche da una chat o da quello che si scrive sul profilo di facebook».

«Ma sei sicura che vuoi fare un tomo strampalato di quattrocento pagine perché te l’ha detto uno su facebook? Non sarebbe meglio se cercassi di scrivere come ti viene naturale e che ti facessi consigliare da un bravo agente letterario?»

«Non capisci proprio niente! Cosa credi, che gli agenti letterari leggano i manoscritti alla cazzo? Leggono solo quello che gli segnala Tizio che sta su facebook!»

«Ah ok. Sai, è che non ho mai cercato di pubblicare niente, anzi non scrivo proprio. E Tizio lo hai mai incontrato dal vivo? Dico così, solo per sapere se esiste veramente».

 

«Che sospettosa. Comunque, no, è troppo preso. Ma lo sento spessissimo in chat, mi dà molta attenzione. E poi mi commenta il profilo su facebook»

«Senti, mi rendo conto che sono un po’ indietro, ma non è che questo qui non ha un cazzo da fare e ti racconta delle gran balle tanto per esercitare un po’ di seduzione? Dico così per dire, sai, non ti offendere, è che questa cosa mi ricorda vagamente Baudrillard…»

«Chi?»

«Un sociologo francese. Lo trovi su Wikipedia. Vabbè, ci si becca».

«Sì, ciao. Però iscriviti anche tu a facebook, così te lo faccio conoscere!»

«»

Claudia Boscolo

La critica tra comunità e consorterie

Queste riflessioni nascono a margine dell’articolo intitolato “Per la critica”, firmato da Fausto Curi e pubblicato sul numero 2 della rivista Alfabeta2.

Nonostante si parli costantemente di crisi (intesa come penuria) della critica e della cultura, il nostro paese riesce lo stesso da anni ad alimentare un sottobosco ricchissimo di stimoli e di esperienze diverse, che con l’avvento di internet ha visto moltiplicarsi i canali attraverso i quali raggiungere non soltanto il proprio pubblico, ma anche chi opera negli stessi contesti, con la possibilità di articolare dei percorsi fino a pochi anni fa impensabili. Eppure, ciclicamente, nel nostro paese si sprecano i discorsi apocalittici sulla morte della letteratura o del cinema, tanto per fare un esempio, salvo poi verificare che queste parole vengono da chi, forse, non fa fino in fondo il proprio dovere, e si limita a scorgere una superficie (per quanto materia importantissima, visto che è quella che muove il mercato e che dunque non può certo sfuggire all’analisi degli addetti ai lavori) usata spesso come esempio per giustificare il predominio della quantità sulla qualità. E allora, se non sono i critici a scovare la “novità” (che, come vedremo, Fausto Curi, elenca tra i criteri senza i quali non si dà vera attività critica), il compito passa agli scrittori stessi, che proprio in rete hanno trovato un nuovo canale per far circolare i propri lavori – molto spesso attraverso forme paratestuali, che accompagnano e prolungano l’opera, aprendola al confronto diretto con i propri lettori (ancora più precisamente, quindi, tramite la proliferazione di epitesti autoriali, e a maggior ragione con l’avvento dei social network).

Fatte queste dovute precisazioni, mi pare di poter concordare con alcune premesse contenute nell’articolo di Fausto Curi, dove si parla appunto di una crisi della critica come effetto di una crisi della società (nella fattispecie quella italiana, è ovvio) e in cui si precisa

  1. che “non è il critico che conta, è la critica importante”;
  2. che “senza distinzione non si dà critica”;
  3. che “la critica è sempre di parte e soggettiva”;
  4. che è “la novità ciò di cui la critica deve andare in cerca”, ma sempre tenendo conto che “nelle arti la tradizione conta sempre, anche quando là si respinge, anche quando si crede di ignorarla”.

A lasciarmi perplesso, invece, sono piuttosto le conclusioni indicate nello stesso articolo.

Per Fausto Curi la critica si sarebbe spenta perché è venuta meno quella “battaglia letteraria” che ha caratterizzato “la cultura militante italiana negli anni Cinquanta e Sessanta”, ovvero perché è venuto a mancare “un dinamico rapporto fra la letteratura e la società”. Eppure, a giudicare dagli ultimi dibattiti (penso ad esempio al “caso Saviano” o al “caso Mondadori”, per non parlare del fiume d’interventi scatenato dall’uscita del saggio New Italian Epic di Wu Ming, o degli articoli seguiti alle proiezioni del documentario Senza scrittori di Andrea Cortellessa), sembrerebbe che a tutt’oggi non si possa parlare di una mancanza di partigianeria, anzi. Il problema della critica (non di tutta, ma di gran parte) mi sembra che consista piuttosto nella sforzo di evitare una “giusta misura”, nel vizio di prendere delle scorciatoie che hanno più a che vedere col sistema delle consorterie che col criterio di soggettività.

Tanto per cominciare, direi che si possono distinguere due tipi di critici che vanno per la maggiore: quello che per farsi notare stronca un’opera per principio, e quello che per non farsi nemici parla bene indistintamente di tutti gli autori (e questa regola direi che è valida in generale, non soltanto per l’ambito letterario a cui si riferisce Fausto Curi). Sono due modi speculari di farsi pubblicità, di rimanere per così dire “in vista” in una giungla intricata qual è quella del mondo editoriale, dove spesso l’opera diventa un presupposto per parlare di se stessi. Entrambi questi tipi di critici tendono di conseguenza a fare sempre i soliti nomi, quelli che ad attaccarli o a difenderli ne viene sempre qualcosa, per se stessi e per la consorteria alla quale essi appartengono. Si potrebbe definirla una critica a rotazione rapida, al pari dei libri sugli scaffali dei megastore, dietro ai quali si affretta a correre proseguendo per generalizzazioni. Se infatti andiamo a verificare, nella disamina della situazione letteraria si procede volentieri in astratto, anche quando abbiamo a che fare con quella critica che si autodefinisce più engagé. D’altronde, è lo stesso Curi a darcene un buon esempio quando c’informa che “cresce paurosamente il numero di coloro che scrivono versi” e che “la poesia abita ormai le piazze, non in senso metaforico, giacché non si contano le manifestazioni in cui poeti diversissimi l’uno dall’altro, di fatto uniformi, recitano in piazza i loro versi”. Ma a quali manifestazioni e a quali autori qui ci si riferisca, non ci è dato saperlo, né vengono fatti esempi dei tanti tentativi di portare la poesia e la letteratura in generale nelle piazze o in altri luoghi diversi dalle librerie: poiché qua c’è sì in gioco da una parte il rischio di ridurre il pubblico a una massa indistinta, ma dall’altra c’è il tentativo di conquistare degli spazi strategici, dove far vivere la parola scritta attraverso il confronto fra chi scrive e chi, ascoltando, viene magari invogliato anche a leggere – e qua gli esempi da fare, diversissimi per intenti e modalità dalle grandi manifestazioni a cui si riferisce con ogni probabilità Fausto Curi, sarebbero tantissimi.

Fatte salve queste precisazioni, mi sembra di poter dire che la critica più viva si ritrovi oggi proprio sul web, un mezzo che chi scrive su riviste e quotidiani vari ha snobbato per anni, per poi affrettarsi nel tentativo di colonizzarlo, ma senza sforzarsi di cambiare le proprie strategie e i propri regimi discorsivi. La rete, se si evita la dicotomia fittizia virtuale/reale, è un modello in grado di attivare un circolo virtuoso, le cui dinamiche funzionano tanto sul web quanto al suo esterno, e la cui finalità è in primo luogo quella di fare comunità. Non a caso, ai tempi di internet gli scrittori hanno ritrovato non soltanto un rapporto più diretto con il loro pubblico (che prende corpo, con modalità diverse, nei blog e negli incontri pubblici) ma anche un terreno di confronto tra loro stessi, chiamati di conseguenza a svolgere anche quella funzione critica che per Fausto Curi è “radicata in un obbligo sociale”, quello “di non lasciare soli, o, peggio, in preda al mercato, che ha tutto l’interesse a conservare quella solitudine, migliaia di lettori e di ascoltatori”. È in questa intersezione tra scrittori e lettori, mi pare, che si possano appunto ritrovare quei significati che appartengono alla radice comune di crisi e di critica, intese come movimento votato alla trasformazione. Una trasformazione, in ultima analisi, che la critica più tradizionale sembra rifiutarsi di voler vedere, e che è causa della sua stessa crisi, della sua incapacità di riflettere su se stessa e di darsi un programma, presa com’è nello sforzo di difendere con le unghie i propri territori, sempre più iperuranici, dai quali parlare e pontificare.

Simone Ghelli

Leggere è pericoloso

Venerdì ha nevicato su Roma e i romani andavano in giro con l’ombrello: quattro fiocchi di neve hanno paralizzato la città: l’inadeguatezza di rapportarsi con l’insolito.

Sabato era già tutto finito, c’era un bel sole e la neve è rimasta soltanto nelle fotografie. Verso le due sono passato a prendere mia sorella per accompagnarla in libreria, doveva comprare un dizionario: io le ho consigliato di prenderne uno antecedente l’avvento di internet, perché poi sono spariti un bel po’ di lemmi, per dar spazio al nuovo linguaggio tecnologico: una bella tragedia.

Intanto, per la strada, ad una bancarella dietro piazza della Repubblica, ho trovato, e comprato per soli 15 euro, uno Zingarelli del 1954. In tutti questi anni, ho sempre utilizzato il mio Devoto-Oli: mi fu regalato, su mio espresso desiderio, quando ho fatto la prima comunione, sarà stato il ’91-’92. A che età si fa la prima comunione?

È finita che anche per mia sorella abbiamo comprato un Devoto-Oli, l’ultimo, edizione 2010, ma senza il cd-rom: vincono sempre loro.

“Se ti occorre qualche definizione che non trovi mi scrivi e te la ricopio in chat”, le ho detto.

Abbiamo fatto un giro per la libreria. Sorvolo sui tanti, troppi volumi che non avrebbero ragion d’esistere: la letteratura è sempre più rara nelle librerie: è come cercare il vino buono al supermercato: quando lo si trova, spesso è a prezzi esorbitanti.

I problemi dell’editoria italiana sono tanti e complessi che scriverne in un breve post sarebbe riduttivo e controproducente, lasciamo perdere.

I libri costano troppo; mi capita troppo spesso di dover rinunciare a letture desiderate a causa dei prezzi esorbitanti stabiliti dagli editori (spesso in combutta con i distributori): questo fa male alla letteratura: occorre trovare nuove forme di resistenza.

Si dice chi cerca trova, e spesso è vero: me ne sono andato felice dalla libreria: nella sezione usati e a metà prezzo ho trovato tre libri, che avrei voluto leggere ma non avevo potuto a causa dell’eccessivo costo d’uscita: Al Diavul (Marsilio, 2008) di Alessandro Bertante, Strane cose, domani (Baldini Castoldi Dalai, 2009) di Raul Montanari e I Cariolanti (Elliot, 2009) di Sacha Naspini: ho speso 25,25 euro, comunque troppo, ma a prezzo pieno avrei pagato 50,50 euro: tre libri, due giornate di lavoro: c’è qualcosa che non va.

Per ovvie ed evidenti ragioni, non mi aspetto che il Governo si occupi di queste cose, per carità, d’altronde pare abbia altre priorità, e non parlo di disoccupazione naturalmente: quanto va al chilo, la cultura?

Gli italiani, dicono le statistiche, non leggono più (e si vede!, direbbe una pecora). La mancanza di cultura e di informazione (ma anche di interesse e curiosità, aggiungerei) è probabilmente la causa principale della regressione democratica e culturale del nostro paese. Ripeto: occorre trovare nuove forme di resistenza.

Una bellissima iniziativa, come spesso ultimamente, viene dal web: Alberto, un ragazzo di Empoli di 22 anni, appassionato lettore, è rimasto, giustamente, sconcertato dal dato che una persona su due in Italia non legge un libro in un anno e ha lanciato sul suo blog e su facebook un’idea: il 26 marzo regala un libro ad uno sconosciuto.

Il gruppo su facebook vola verso le 200.000 adesioni in poche settimane. Una giornata dove decine e decine di migliaia di libri passino di mano in mano: un momento d’incontro, d’avvicinamento all’altro in quest’epoca individualista: per non dimenticare l’umanità.

Certo, considerato che lo scopo è quello di far nascere nuovi lettori, scegliere un libro, uno solo, è una faccenda complicata: deve essere un capolavoro, senza dubbio, ma non troppo complesso, serve una buona scrittura, una bella storia, degli elementi di empatia tra la narrazione ed il lettore. Vi auguro una buona scelta.

La lettura rende consapevoli. Lo sanno anche le pietre, una persona consapevole è una persona libera.

Regala anche tu un libro: una nuova forma di resistenza.

Gianluca Liguori

Pubblichiamoli tutti!

We need body rockin’ not perfection /Let me get some action from the back

section

[Body Movin’, Beastie Boys]

Sì, pubblichiamoli tutti. Pubblichiamo tutti i libri nei cassetti, diamo dignità alle scritte sui muri, ai numeri di telefono scritti nei cessi pubblici [“pratico fellatio con gusto: chiamami al”], alle liste della spesa, ai girighori, alle poesie d’amore scritte sui biglietti d’auguri. Chi sono gli editori per giudicare, per decidere cosa merita, e cosa no? Come si fa a scegliere?

In Italia si pubblicano sessantamila libri all’anno: ebbene, sono pochi. Pubblichiamone duecentomila, trecentomila. Pubblichiamo tutto, e tutti. Stampiamoli in digitale, con tirature di qualche decina di copie. Mettiamoli on-line. Obblighiamo le librerie a fare – ogni libreria: piccola, grande, media – cinque presentazioni al giorno. Regaliamo dispositivi elettronici per gli e-book, e trasformiamo tutto ma proprio tutto in epub – scritte sui muri, testi giovani e giovanilisti, poesie sulla Morte ecc.

Certo, c’è sempre il problema della visibilità. Se il novantanove percento dei sessantamila libri che già si pubblicano oggi, è invisibile, figurarsi con trecentomila libri: sì, è una buona obiezione. Sì, è vero: oggi chi pubblica un libro, cinquantamilanovecento volte sul totale, s’accorge presto che quel libro – se pure è uscito qualche articoletto sui giornali, se pure l’ha portato in giro, l’ha presentato, se anche l’autore se ne è occupato e preoccupato – chi pubblica un libro, si diceva, quasi sempre s’accorge di come quel libro sia immediatamente introvabile, invisibile, innominabile. E anche in quell’un percento di casi benevoli, anche quei libri – quelli di cui si parla, si discute; dei quali si vendono copie – fan presto a sparire. Dagli scaffali, dai cuori, dalla memoria.

E allora: facciamolo. Pubblichiamoli. Tutti. Facciamoli scomparire tutti, facciamo scomparire ogni dannato libro nella massa informe delle immagini, delle copertine, dei testi, dei falsi montaliani e dei nuovi King.

Avanti! Facciamolo.

Enrico Piscitelli