L’olandese – #TUS2

Erasmo da RotterdamPer lo spazio dedicato ai testi del reading Torino Una Sega 2 oggi presentiamo un racconto di Andrea Berneschi, letto al Caffè Notte da Francesco Faralli. Il racconto s’intitola L’olandese.

I regali che ricevo ai miei compleanni vanno incontro a un destino molto variabile. I cd in genere sono quelli che durano di più, protetti dalle custodie di plastica, allineati nei loro scaffali: può darsi che a distanza di molto tempo li metta sullo stereo, e ascoltandoli mi rammenti dei tempi passati. Graditi sono anche libri e film. Anche se, non è mai facile indovinare i gusti di qualcuno in queste cose, e specialmente i miei: un regalo dovrebbe essere quello che uno vorrebbe fortemente ma che non si concederà mai. Opere complete, fumetti in formato grande e rilegato… difficile beccare proprio quella cosa precisa là. Neanche io ci indovino troppo, coi regali: a volte mi faccio l’idea che a uno piaccia qualcosa, gliela compro, e poi lo vedo nascostamente deluso. La pianta carnivora mi sopravvisse un annetto, per poi eclissarsi lentamente e svanire a causa di non so quale malattia; la tartaruga d’acqua durò un po’ di più. Ma in genere le cose vive le curo. All’ultimo compleanno un mio amico mi ha regalato invece qualcosa che non mi aspettavo proprio: un olandese.

Uscito dalla scatola, mi rimase subito simpatico. Era vispo, intelligente, si vedeva che me lo aveva fatto qualcuno che mi conosceva bene: come regalo mi caratterizzava, mi rendevo conto che forse qualche lato “olandese” nel carattere ce l’avevo sempre avuto. Elegante e sobrio, col cappello nero, il vestito nero, il grande colletto bianco, baffi e pizzetto, partecipò alla cena, divertendosi a raccontare anche delle facezie, così per rompere il ghiaccio. Ma senza voler dare troppo nell’occhio, senza voler per forza mettersi al centro dell’attenzione. Ai miei occhi acquistava punti. Leggi il resto dell’articolo

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Lo scherzo

Quello che segue è il quinto e ultimo racconto (qua il quarto) ispirato ai disegni di Lucamaleonte e scritti appositamente per la serata di letture tenutasi al Laszlo Biro il 5 maggio.

 

Lo scherzo

di Antonio Romano

 

 

Da quando si era trasferito non aveva più dormito molto bene, ma aveva preferito essere più vicino al lavoro. Si diceva che era il materasso, ma se poi ci pensava attentamente, l’insonnia era cominciata quando avevano cambiato il nome: lui era abituato a “lavori pubblici”, poi s’erano inventati questa cosa delle “infrastrutture e trasporti” che a lui era sembrata proprio una sbruffonata, ma ovviamente nessuno gli aveva chiesto se a lui andava bene, dopo tutti gli anni che ci aveva lavorato.

Però, da quando si era trasferito, anche il momento del risveglio era diverso. Prima il bersagliere lo vedeva solo entrando in ufficio. Adesso lo perseguitava anche al momento del caffè, la mattina: non ne poteva più, gli faceva venire l’ansia.

Questo stava pensando, quella domenica mattina, mentre annodava la cravatta e ricordava mentalmente a se stesso di passare in pasticceria per prendere i dolci per sua nonna. L’unico vizio della vecchia, da consumarsi solo alla fine del loro tradizionale tête-à-tête mangereccio della domenica. Lui non era mai mancato ai pranzi domenicali con la nonna. Le voleva molto bene e giocava con lei come quand’era bambino, facendole come allora un mucchio di scherzi. Leggi il resto dell’articolo

L’inutilità del genio post-moderno /2

Entriamo ora nel vivo. «Ogni uomo è un debitore e un mimo, la vita è teatro e la letteratura è una citazione»: Emerson, Società e solitudine. Questa citazione extra ci dà il là per la prossima domanda pleonastica e retorica che dobbiamo porci: di che cosa la letteratura è la citazione?

(Citazione, dunque contagio da un testo all’altro. Contagio esclusivo perché non per tutti e non in tutte le modalità).

Se questa letteratura di cui ci riempiamo la bocca è, come abbiamo visto, un’illusione repertiata e reiterata all’infinito nello spazio e nella storia ed è anche un morbo elitario, inevitabilmente dobbiamo ricercare la sua fonte originaria – cioè la cosa di cui è citazione – in campi analoghi a quelli rilevati.

Illusione (o menzogna o sogno o visione o come si vuole), morbo, fenomeno elitario: dove arriviamo? Arriviamo a una malattia poco comune che ha molto a che fare con l’illusione.

Marx e Freud dicevano (mutatis mutandis) che l’automatizzazione (leggi: reiterazione, compulsività) aliena e uccide (alienazione e thanatos, questi i principi che approfondirono in tal senso). Dunque, questa malattia rara d’illusione vestita, è mortifera e alienante.

La risposta diventa improvvisamente chiara, addirittura lampante: la letteratura è citazione della follia.

L’arte della follia. Il rapporto fra follia e creazione artistica ha creato da sempre curiosità e interesse. Perfino la follia di Nietzsche, quindi non un artista nel senso “tradizionale” o “comune” del termine (è meglio sorvolare sulle sue liriche pubblicate postume in uno stile decisamente brutto e accademico), ha stimolato non poco la fantasia degli studiosi, impegnati a capire se sia stata la follia a influenzare la sua filosofia o se la sua filosofia abbia determinato la follia (in questa sede preferisco trascurare il cinico dato della febbre sifilitica).

Quella di Nietzsche è un caso decisamente poco comune: prescindendo dalle modifiche apportate dalla sorella filonazista Elisabeth, la sua opera si caratterizza per la complessità con cui si snoda attraverso tematiche e registri stilistici assai differenti. Dall’organico saggio letterario-filosofico La nascita della tragedia all’apologo filosofico-favolistico espresso quasi unicamente per aforismi del Così parlò Zarathustra, al libro quasi propriamente filosofico di Considerazioni inattuali o Umano, troppo umano.

Ben consapevole del rischio che si corre di sollevare diatribe già ricorse nel mondo della filosofia e della letteratura, sono tentato di sottolineare la raffinata letterarietà dell’opera del filosofo. Pare quasi che Nietzsche abbia compreso l’importanza d’un linguaggio capace di coinvolgere ed esprimere, lontano dai peripli linguistici d’un Kant o d’uno Hegel (non a caso i testi di quest’ultimo furono definiti da Schopenauer «il più inutile, insulso sproloquio di cui si sia mai accontentato una testa di segatura» espressa nel «linguaggio più orribile e anche assurdo, che ricorda il delirio dei folli»). Sembrava aver colto il problema stesso del dire, così come lo colse in seguito Heidegger, che probabilmente ne aveva abbastanza di dover lavorare con un linguaggio che lo costringeva a scrivere frasi come «Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere».

Lo stile nietzschiano è sobrio, ma ricco; asciutto, ma evocativo; abbordabile, ma elegante. Si tratta d’una vera e propria opera di divulgazione, fatta sia per filosofi che per letterati che per uomini comuni.

Quindi anche per Nietzsche si può innescare una delle suddette diatribe su filosofia e letteratura. Diatribe del tipo: Leopardi, Esopo, Dante Alighieri, De Sade, Borges, Machiavelli, Henry Miller, Orazio, Jean de La Fontaine, S. Francesco sono più scrittori o più filosofi? Confucio, Rousseau, Platone, Sartre, S. Agostino, Pascal, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Kierkegaard, Voltaire sono più filosofi o più scrittori? Per non parlare di casi affini a quelli di La Rochefoucauld, Buddha, Hölderlin, Novalis o lo stesso Nietzsche.

Ma non è questo l’argomento di cui stiamo parlando, perciò ritorniamo al discorso interrotto poco fa.

Un altro dei molti punti in comune fra follia e arte è Van Gogh. Impressionista ante litteram, colpito dalla nausée du vivre prima di molti altri, fragile e forte, visionario e depresso. In lui c’è la sintesi di molti motivi esistenziali e anarchici, superomistici e decadenti, artistici e volgari: un Machiavelli della pittura, azzarderemmo.

All’orecchio di Van Gogh si possono dare mille significati (oltre quelli ufficiali): rifiuto, depressione, ribellione, autolesionismo pseudo-religioso e ancora ricerca di sé, effetti della vita, edonismo masochista, etc…

Come mille significati si possono dare allo stile e alle opere di De Sade, alla sua psicologia, alla sua dialettica, alla sua follia, agli intermezzi filosofici in Justine o in Filosofia del boudoir o nei Dialoghi filosofici.

E ancora il succitato Hölderlin, morto folle dopo essere stato un precoce filosofo e un precocissimo poeta. Quasi identico a Lucrezio, che addirittura, come riporta l’arguto padre della chiesa S. Gerolamo, scriveva per intervalla insaniae.

Tirare le somme di quest’argomento è quasi impossibile (non dico del tutto impossibile solo perché sono convinto che nulla sia impossibile), oltre che per scarsità di studi in merito, perché si cadrebbe sicuramente nell’opinione soggettiva.

L’unico modo per capire se la follia sia elemento integrante della produzione artistica o se piuttosto la produzione artistica conduca alla follia sarebbe diventare pazzi o artisti (che, in fin dei conti, sono praticamente la stessa cosa: o, meglio, sia i folli che gli artisti godono della “lateralità”).

Oppure si potrebbe provare a sostenere la seguente ipotesi: l’artista è un pazzo e viceversa.

Cosa fa l’artista nelle sue opere? Coglie il circostante, lo destruttura… lo smembra, lo rielabora pezzo per pezzo e lo ricostruisce in una propria maniera originale. Il processo patologico della follia è il medesimo. Il pazzo destruttura e ricostruisce la realtà a proprio uso e consumo.

La creazione dell’opera d’arte, insomma, si serve dello stesso processo di derealizzazione del mondo che nel folle è spontaneo. L’artista si serve della sua sensibilità e della sua cultura per ricostruire la realtà, la ricostruisce – per così dire – “umanisticamente”. Mentre il folle opera tale processo servendosi d’una logica; della sua logica, che ricostruisce tutto in termini fondamentalmente incomprensibili per gli altri esseri umani. Ma logicamente! Potremmo arrivare a dire che, mentre l’artista “pecca” di soggettività, il folle conserva una certa logicità all’interno della sua follia. È vittima della propria logica, mentre l’artista lo è della propria sensibilità.

E seppure fosse illogico, il folle, sarebbe comunque antiumanistico.

De Sade, all’incrocio fra arte e follia, dava dei significati propri a concetti comunemente accettati dalla società a lui contemporanea. Così come un secolo dopo avrebbe fatto Nietzsche con la filosofia, Van Gogh con la pittura e come aveva fatto Lucrezio con la poesia.

Tutti loro avevano trasposto la destrutturazione del reale nell’arte, con risultati davvero eccezionali. Altri intellettuali e artisti, pur bravissimi e preparatissimi, non sono stati in grado di raggiungere i risultati di uno dei personaggi succitati.

E perché questo? Perché non erano “pazzi”.

 

Antonio Romano