Face to Face! – John Romita Jr.

John Romita Jr. è figlio (John Romita Sr.) di uno dei disegnatori di Spider Man più conosciuti e riconosciuti nel tratto e nella sensibilità con cui ha saputo realizzare e far vivere il nostro affezionatissimo ragno di quartiere sulle pagine dei comics.

John Romita Jr. è un artista che con Spidey ha ancora a che fare perché da anni lo disegna, da anni ne conosce i più intimi segreti e i problemi più profondi, uno dei pochi che ci puoi realmente parlare del futuro di questo supereroe che in Italia festeggia il suo numero 500 con un’edizione speciale della Panini.

Dopo trent’anni di carriera, a Roma, mi trovo davanti un vero e proprio mito che scherza sul fatto di essere famoso, racconta il suo modo di concepire l’arte e il lavoro, ci parla delle sue origini ma soprattutto dichiara tutto il suo amore per un padre incredibilie e una famiglia per la quale si muove tutta la sua vita.

Benvenuti nel fumetto inedito della storia dello Stupefacente John Romita Jr.

Quanto leghi la parola eredità al tuo Jr.?

E’ una parola molto importante, doppiamente legata a me come artista e come figlio di un grande arista.
La cosa meravigliosa tra me e l’eredità che ho ricevuto, tra me e mio padre è che non c’è mai stata un’imposizione, mai un conflitto, uno scontro.
Per me è sempre stato solo un meraviglioso rapporto tra padre e figlio. Semplicemente questo. Non ho vissuto nessun tipo di costrizione grazie al tesoro che mio padre ha fatto della sua esperienza. Mio nonno (originario di Bari dove costruiva le bare) infatti era un uomo duro, concreto, che ha cresciuto il figlio con un regime molto autoritario. Una mentalità che neanche lontanamente pensava all’arte che si è ritrovata con un figlio che dal nulla ha dimostrato di viverne. Un talento naturale che è spuntato fuori così!
La vena artistica di mio padre era mal vista, come una “stranezza”. Ecco io sono cresciuto completamente distante da tutto ciò, grazie alla profonda intelligenza e sensibilità di un uomo che continuava a dirmi che mi avrebbe aiutato in qualsiasi modo, che mi avrebbe consigliato sempre, solo se lo avessi chiesto. “Chiedimi figliolo e io ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ma da me non avrai nulla che possa influenzarti in qualche modo a fare questo lavoro o ad avvicinarti all’arte” continuava a ripetermi. La cosa fu semplice: iniziai ad osservarlo e a chiedere.
Lui si è sempre rifiutato di trattarmi come è stato trattato.

Quali sono gli artisti che al tempo ti hanno influenzato e quelli che continui ad ammirare anche grazie al modo in cui hanno rotto le regole?

Sono cresciuto osservando opere italiane, francesi. Amo gli impressionisti, Matisse. Tra gli illustratori Gibson, J.C. Leyendecker e molti altri che avevo in un grande libro di cui non ricordo il nome e che sfogliavo continuamente.
Tra i cartoonist mio padre, John Buscema e Jack Kirby. Per quello che riguarda la mia professione sono loro tre i nomi più importanti, le influenze più grandi e i maestri da cui imparare. Hanno avuto la capacità di raccontare le storie, di dare un taglio quasi cinematografico alle sequenze sapendole immaginare nella loro testa con la stessa precisione con cui poi l’hanno disegnate.
Forti di una espressività narrativa innaturale.

E come vedi l’influenza di un giovane talento, negli anni 90 soprattutto, come Rob Liefield nello sviluppo del disegno e dell’attitudine a questo?

Agli inizi degli anni novanta ha influenzato moltissimo i giovani che si stavano avvicinando al nostro lavoro con il suo tratto caratteristico, irriverente e la sua età. Io però non sono d’accordo su una cosa, pur rispettando Rob e la sua arte, un artista (soprattutto se giovane) deve formarsi con i grandi maestri, con la grande arte come dicevo anche all’inizio e non da altri esordienti.
Mio padre mi ha fatto studiare al College insistendo molto sulla mia educazione scolastica, ripetendomi che prima sarei dovuto diventare un artista e poi un cartoonist. Mio fratello ed io siamo delle buone persone grazie ai grandi insegnamenti di mio padre e grazie al suo amore smisurato…naturalmente anche grazie alla mamma! (ride).

Come definisci il tuo lavoro in tre aggettivi da quando hai iniziato ad oggi?

Wow, sono trent’anni… ho un po’ di tempo??? Nei primi vent’anni: veloce, attento, sopravvivente. Negli ultimi dieci invece ho semplicemente imparato come imparare. Dai miei errori del passato, dai miei successi e c’è ancora così tanto da imparare. Se penso di non aver più niente da imparare penso che sia finita è come per i musicisti: più pratica fai più cresci.
In tre aggettivi oggi? Pieno di pensieri, medio… figo.
Mio padre poi mi ha sempre detto che se anche penso di essere bravo è meglio non dirlo, perché significa che sono quasi arrivato, che non ho più niente da imparare e che mi manca quella modestia per andare avanti. Per questo ha sempre consigliato di dire e pensare che sono nella media, in un livello “giusto”, così da non cadere anche nella trappola dell’ego e finiva dicendomi “Ricorda che ci sarà sempre uno più forte, più in gamba e bravo di te”.

Cosa pensi quando finisci un tuo lavoro e lo consegni?

Pwee… un’altra fatta!!! È un lavoro davvero molto duro, fatto di lunghe ore di concentrazione, meticolosità, attenzione. Difficilmente si fa questo mestiere per anni e infatti molti nel mio ambiente preferiscono farlo per un periodo, guadagnando molto così da godersi il frutto di tanta fatica. Altri diventano pieni di sé e si lanciano in progetti assurdi. Molti, semplicemente impazziscono! (ride).

Agli inizi gli eroi si scontravano con super criminali lontani dalla nostra realtà l’unico problema era sconfiggere un nemico con un costume colorato e dei super poteri. Poi è arrivata la droga, l’alcolismo, la prostituzione, le guerre e gli eroi hanno cambiato il loro sguardo. Cosa è successo?

Eccellente domanda. Stan Lee è stato tra i primi a bilanciare fantasia e realtà e credo che la risposta sia proprio qui, in questa capacità. Questa è la vera ricchezza di un fumetto.
Molti preferiscono creare scenari fantascientifici, lontani dal reale, allontanando troppo il lettore dalla storia perché manca un legame concreto. Altri hanno invece hanno realizzato personaggi molto drammatici che però, non hanno più permesso di far godere l’aspetto fantastico del comics.
Spider man ha molto successo per questa sua dimensione equilibrata: Peter è un ragazzo qualsiasi, un newyorkese che tutti i giorni fa i conti con i problemi più umani, ritrovandosi però poi a fronteggiare minacce sensazionali.
Un nome, secondo me, che è riuscito a coniugare fantasia e realtà in maniera stupefacente, è Neil Gaiman.

Ma chi è oggi il nemico? E in un certo senso anche il “nostro” nemico?

I cattivi sono una rappresentazione ingigantita, ma neanche tanto, della corruzione umana. Kingpin ne è l’esempio calzante: avido, infido, crudele, vuole soltanto possedere e dominare. I problemi reali vengono spesso calati nei personaggi dei fumetti: ad esempio l’antisemitismo che subiva da ragazzo Stan Lee, sono stati riportati ne Gli Incredibili X-Men. Mutanti, emarginati, diversi che decidono comunque di proteggere gli umani.
Ecco, tutto viene riversato nelle storie per poter essere anche affrontato, denunciato in un certo modo, reso comprensibile anche dai più giovani.

L’uomo ragno nasce dalla frase “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”… quali sono i tuoi poteri e la tua responsabilità.

Il mio potere? Avere pazienza. La mia responsabilità? Avere più pazienza.

Chi senti più vicino tra Peter Parker e l’Uomo Ragno?

Ogni padre, ogni figlio, ogni famiglia è un supereroe. Anche io ho una doppia vita: sul lavoro sono come Peter, alla presa con i problemi quotidiani, ma è con la mia famiglia che divento Spider man e uso i miei poteri per proteggerli, sostenerli.

Spider man è famoso per le sue battute, per l’umorismo che scaglia contro i nemici durante i combattimenti: quanta ironia c’è nella tua vita?

L’ironia la ritrovo nella mia insicurezza che fa capolino nella mia vita, nella mia carriera. Ci sono stati momenti e ci sono tutt’ora dei momenti in cui sono stato colto da questo sentimento. Una cosa di cui non ho parlato mai con mio padre perché si sarebbe arrabbiato da morire come fa la moglie quando capita. Non è un retaggio paterno, ma semplicemente a volte mi sento così e lo trovo ironico visto quello che faccio.

Qual è l’abilità di Spider man che potrebbe aiutarti nel lavoro?

Oh! Sicuro la velocità!

Il personaggio più complicato che ti sei trovato a disegnare?

Spider man. Pensa soltanto a tutte le ragnatele sul costume… Scherzi a parte. È un eroe con il volto coperto da una maschera eppure ha una serie infinita di espressioni da comunicare… ecco questa è ironia!

Qual è l’incarnazione di Spider man che preferisci?

Il classico, senza dubbio. Per me l’originale è quello che dovrebbe essere.

Hai mai vissuto o rivissuto un tuo dolore, un tuo problema con i personaggi che disegni?

Sì. Con Iron Man. Tony Stark è un alcolizzato ed io avevo due amici molto cari che soffrivano di questo problema. Uno di loro si è ucciso, con mio grande dolore. L’altro ne è uscito definitivamente. Ecco, in questo caso ho di nuovo vissuto quella situazione, mi sono tornati in mente tutti i momenti difficili. E sono riuscito ad addentrarmi di più nel personaggio che disegnavo
Con Peter Parker invece ho vissuto il problema della crescita, anche se da ragazzo non ho vissuto l’emarginazione del nerd, dell’immaturo, perché comunque disegnavo ed ero interessante. Però da adulto quando mi sono trovato di fronte a grandi uomini, mi sono sentito un po’ immaturo, insicuro. Come Peter.

Tu hai disegnato oltre a Spider: Thor, Cable, Iron Man, Devil, The Punisher. A quali ti senti più legato?

Mi piace molto Daredevil, ma adoro disegnare The Punisher… anche perché molti miei parenti sono simili a The Punisher. (ride)

Hai disegnato anche World War Hulk. Hulk è rabbia, cos’è per te la rabbia?

Nel mio lavoro è la voglia di fare, di farcela. Con la mia famiglia è prendersi cura di loro e non farli mai essere arrabbiati.

500 numeri in Italia, festeggiati con questo volume. Il futuro di Peter?

Negli Stati Uniti, Peter dovrà decidere tra la vita di zia May e la cancellazione di ogni ricordo con Mary Jane Watson a causa del demone Mephisto. Qui torna il discorso dell’equilibrio, perché ci deve essere un bilanciamento tra chi era Spider man all’inizio e chi è diventato. Dal matrimonio con M.J. c’è stato un allontanamento dalle difficoltà esistenziali di Peter e questo lo aveva distanziato anche dal lettore “sfigato” che si riconosceva nel Parker degli esordi e non in quello sposato con una top model meravigliosa. Per ri-bilanciare si è pensato a questo, a questa nuova verginità che sarà anche una nuova forza per il tessiragnatele.

Chi sceglieresti per una birra: Thor, Ercole, Hulk, la Cosa o She Hulk?

Niente donne! c’è mia moglie. Assolutamente Ben Grimm… è di Brooklyn, come me!

Alex Pietrogiacomi

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Precari all’erta! – Una terra promessa…

Vorrei fare alcune precisazioni riguardo alla mia iniziale provocazione sul tema “restare o partire?”. Si tratta di alcune riflessioni nate in seguito alla lettura dei tanti commenti alle varie note apparse su facebook, grazie alle quali il dibattito si è trasferito sull’inserto domenicale de Il Sole 24 ore prima e su Carmilla dopo.

Innanzitutto vorrei precisare che la mia intenzione di restare non è legata a un sentimento di patriottismo, ma si fonda sul presupposto che è a partire dal territorio su cui vivo quotidianamente (sul luogo di lavoro, per strada, negli spazi culturali più o meno ufficiali) che devo impegnarmi per migliorare le cose. È ovvio che mi ritrovi dunque a parlare del “sistema Italia”, e che mi debba confrontare con le logiche di quel sistema, altrimenti me ne sarei già andato e non mi porrei il problema in questi termini.

Una seconda precisazione, che mi sembrava già esplicita nei miei interventi: ritengo fuorviante metterla sul piano del coraggio. Non si tratta di una gara a chi è più eroe. Partire e restare sono due scelte opposte, eppure legate a uno stesso malessere, e questo è un valido motivo per ragionare senza porsi paletti o confini, magari creando una piattaforma comune dove poter confrontare le diverse esperienze. Precisato ciò, nelle guerre tra poveri siamo tutti un po’ eroi e un po’ fessi allo stesso tempo.

E qui veniamo al terzo punto, il più importante, quello di cui ho già parlato nel post precedente: cosa fare nella pratica? Una cosa che ho notato nei commenti, e che deriva dall’effetto “cascata” di internet (dove con facilità si possono spostare i confini di una discussione per allargarla all’infinito), è un malcontento diffuso, figlio forse dell’impossibilità di trovare delle cause ben definite della situazione attuale. Si parla naturalmente di responsabilità politiche (di destra e di sinistra), dei media, di una sorta di attitudine congenita degli italiani a lasciar fare, per non parlare di una serie di valori condivisi dalla maggioranza (ad esempio un certo maschilismo dilagante che l’ha fatta da padrone in quest’estate di “scandali rosa”) ma invisi a chi in questo dibattito è intervenuto. Questo per dire che prima del cosa fare, bisognerebbe forse chiedersi chi e quanti siamo, contarsi insomma.  La mia idea, col rischio di ripetermi, è che siamo in tanti ma sembriamo pochi, proprio perché parcellizzati in una serie di iniziative individuali che, se hanno il merito di dimostrare una forma di resistenza, corrono d’altro canto il rischio di rimanere isolate e di non offrire reali alternative. Alla resa dei conti siamo quindi una minoranza (o almeno è così che appariamo dinanzi all’opinione pubblica) ed è da questo presupposto che dovremmo partire.

La sinergia createsi in pochi giorni sul web è un esempio concreto di come possiamo muoverci, di come la rete possa scavalcare certe mediazioni tipiche di altri strumenti e offrirsi come possibile piattaforma di lavoro.

Proprio come dovrebbe accadere entro pochi giorni, con un nuovo blog dedicato al “precariato intellettuale” (scuola, università, editoria, etc), di cui ospiteremo un contributo.

E per concludere, vorrei prendere a prestito una frase estrapolata da un commento di Laura su Clobosfera, e che mi piacerebbe prendere come motto da tenere sempre a mente: “Non lavorate gratis per le università, lavorate gratis per la comunità, che vuol dire per voi stessi”.

Capito, cari i miei precari? Perciò state all’erta!

Simone Ghelli

Face to Face! – Don Winslow

Dopo lo splendido L’inverno di Frankie Machine torna Don Winslow con “il più grande romanzo sulla droga che sia mai stato scritto” come lo ha definito James Ellroy, Il potere del cane (Einaudi).

Un viaggio senza freno nell’incapacità di potersi salvare, la storia di una guerra dove non esistono innocenti e il male regna assoluto.

Un’intervista per vivere in prima persona il morso del cane.

Come e perché nasce questo libro?

Io vivo a San Diego, in California, vicino al confine messicano. Ecco, tutto è nato una mattina: mi sono svegliato e ho letto il giornale che parlava del massacro di 19 innocenti, tra uomini, donne e bambini in Messico. Un posto dove con mia moglie e gli amici andavamo per passare dei week end a basso costo, così per divertirci. Non volevo davvero scrivere questo libro ma da questa notizia mi sono chiesto come poteva succedere, come poteva accadere un fatto simile, e per capire mi sono reso conto che dovevo spiegarmi quello che era accaduto nel 2001, ma per farlo dovevo indagare su ciò che era accaduto nel 1997, nel 1993 e così via, a ritroso. E anche grazie a questo scavare è uscito fuori un libro molto “alto”.

Realtà e fiction come possono convivere nel tema della droga?

Con difficoltà, con tristezza e più del 90% di quello che viene raccontato nel romanzo corrisponde tragicamente alla realtà. Il vero problema dello scrivere questo libro è che la maggior parte degli eventi reali sono di gran lunga peggiori, di gran lunga più bizzarri, per così dire, di quello che potevo inventare. A volte qualcuno potrebbe pensare o esclamare “Ma questo è incredibile!”, potrebbe, tranne il fatto che in realtà tutto questo è accaduto e accade.

Molti hanno definito questo romanzo il nostro “cuore di tenebra”. Ma esiste davvero questo cuore di tenebra e, se sì, qual è?

Probabilmente questa è proprio la domanda che ha fatto nascere questo libro, che mi ha spinto a scrivere. È stata la ricerca di una risposta a questa domanda. Naturalmente non penso di essere un saggio, infatti ho impiegato cinque anni per scrivere Il potere del cane, cinque anni in cui ho studiato, mi sono documentato, ho fatto ricerca. È stato come una sorta di quotidiano viaggio virtuale nell’Inferno e io credo veramente che il “cuore di tenebra” sia in ogni persona e temo di dirlo, sia raffigurabile con la capacità di essere crudeli con gli altri. È un processo che ci indurisce, ci rende più impenetrabili e che raramente avviene per grandi passi. È qualcosa che parte dal piccolo, dal minimo, quindi un piccolo atto di crudeltà apre le porte per un passo più grande verso questa, verso un’efferatezza maggiore.

Quindi un’evoluzione verso un cuore di pietra più che di tenebra.

Oh sì! Avrei voluto dare io questa definizione, mi sarebbe piaciuto scriverla. Ottima definizione ridatemi il romanzo che lo scrivo. Sì un cuore che non ha nulla di pulsante.

I protagonisti dei suoi romanzi sono quasi sempre dei mezzo sangue: irlandesi, messicani, italiani. Cosa vuol dire essere uomini a metà in America?

Il libro fondamentalmente parla di confini, e il confine è qualcosa che separa ma al tempo stesso unisce e ci sono molti confini nel romanzo: abbiamo quello fisico, Keller (uno dei protagonisti) è metà americano e metà messicano, lacerato dalle due culture. Un’intera vita che trascorre in questa lotta. Per quanto riguarda essere metà irlandesi e americani può anche essere un lavoro a tempo pieno, perché noi irlandesi ci portiamo il passato dietro come una palla al piede, perché siamo innamorati del dolore del nostro passato in realtà, e quindi il personaggio irish di Callan è sempre in lotta con il suo passato, che sia personale o generale, deve esserlo per poter soffrire.

Cosa nasconde per lei e per i suoi personaggi il passato? (Fischia, ride e saluta facendo finta di andar via)

Per quello che mi riguarda come irlandese mezzo sangue, porto il mio fardello da irlandese ma soprattutto da cattolico irlandese, il passato per me è anche quello, è anche il tipo di istruzione religiosa ricevuta. Per i miei personaggi non nascondo ad esempio che l’alcolismo di Cullen è una cosa che conosco bene, come la violenza dei quartieri da cui viene. Il passato in una certa misura è un fantasma che ci segue non che deve inseguirci. Credo che per uno scrittore i ricordi siano al tempo stesso una benedizione e una maledizione.

I suoi eroi o antieroi, vivono o sono vissuti dalle loro storie? (ride)

C’e una differenza!?

La consapevolezza è la differenza.

Sono di certo consapevole che sono dei protagonisti di un romanzo eppure per questo tipo di libri, sono convinto che il carattere, il personaggio è tutto, quindi trascorro mesi e mesi a pensare ai protagonisti prima di scrivere. È questo che gli permette di muoversi nella loro storia. Entro molto in profondità con loro e a questo punto ci si sente molto vicini a queste entità, si vedono come reali e al tempo stesso sono conscio del fatto che non esistono. Il dramma sarà quando penserò il contrario … allora dovrete venirmi a prendere! Invece sembra che i fan, i lettori non si rendano conto di questo e arrivano delle mail arrabbiate “Perché hai fatto questo?!” e io mi sento di rispondere “Easy…”

C’è sempre un’operazione nei suoi romanzi (l’operazione perizoma in Frankie Machine, la Fenice in questo): quanto serve avere un buon piano, una buona operazione nella vita?

Non è molto importante, credo che possa essere qualcosa di negativo, un impedimento. “L’uomo fa i piani e Dio ride” hanno detto persone più importanti di me. Bisogna avventurarsi, vivere un’avventura. Ogni libro che scrivo parte con un piano, una visione in cui dopo circa 70 pagine i personaggi dicono e fanno cose non preventivate e il piano è rovinato. Quindi perché impegnarsi in una cosa così? Ma soprattutto perché togliersi il gusto dell’imprevisto, dell’ignoto?

Grazie al suo stile le città prendono vita e parlano, denunciano, mostrano: quanto però non si sa delle strade che si percorrono ogni giorno?

Credo che i luoghi siano dei personaggi e non penso che si possano disgiungere i personaggi dai luoghi perché in realtà i luoghi sono troppo importanti per le persone e poi c’è una magia in questi luoghi. Amo scrivere di questa magia e di questi posti. Ci sono dei panorami, delle viste di San Diego di cui non mi stanco mai e sento sempre la stessa emozione ogni volta che ci torno, la stessa emozione della prima volta. Quando vengono degli amici a trovarmi lì porto in quei posti a determinate ore e spesso penso ai miei lettori come se fossero miei ospiti e voglio mostrargli i miei posti. Perché sarebbe così se venissero a farmi visita.

Le sue città sono mamme borghesi o prostitute ammiccanti?

Senza dubbio delle prostitute ammiccanti.

C’è una caratteristica o più caratteristiche dei suoi personaggi, in cui si rispecchia?

Sì e questo mi disturba un po’. I miei personaggi sono dei solitari e vedo un po’ questa cosa anche in me, forse in maniera eccessiva. La maggior parte delle volte cerco di stare da solo e quando mi capita a lungo, non cerco di incontrare persone ed è un peccato perché mi piace la gente che conosco, che scopro. Poi c’è una certa tristezza che sinceramente vorrei anche eliminare.

I nuovi Stati Uniti, con il nuovo governo saranno più carichi di storie noir o di saggi che spiegheranno?

Entrambe, però ci saranno più spiegazioni del passato. Queste elezioni sono state un punto di svolta fondamentale per gli Stati Uniti, per delle ragioni ovvie ma anche per alcune che non sono così evidenti: ovviamente Obama è nero, ovviamente è giovane però ritengo che questa amministrazione consideri l’informazione non come una minaccia ma come qualcosa che da potere, che davvero occorre e quindi può avere conseguenze per tutti e soprattutto per gli scrittori.

Qual è il potere del Cane?

Innanzitutto si tratta di una frase della Bibbia e questo ha sorpreso tutti quelli che mi conoscono, pensa che un amico mi ha detto “Ehi cosa ti è successo!? Una notte sei inciampato e ti si è aperta la Bibbia?”. È un salmo che recita “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”. Una frase che continuavo a ripetermi e a ripetere a tutti per capire da dove provenisse, a cosa appartenesse e continuavo a ripeterla anche perché aveva una sua poesia che si rispecchiava con quello che stavo scrivendo. Poi ho incontrato una donna, un ministro del culto che ha sposato me e mia moglie, che mi ha spiegato che era nel vecchio testamento e che il potere del cane è la capacità e la consapevolezza dei ricchi e dei potenti di poter opprimere i poveri e coloro che non hanno nessun tipo di potere ed io dopo 500 pagine di libro mi sono reso conto che stavo parlando di questo. Inoltre nello slang americano il cane, soprattutto il cane nero è un sinonimo di dipendenza, si dice “Questo cane mi ha azzannato”, per parlare della dipendenza da una droga e quindi era perfetto per un romanzo che parlava di droga.

Alex Pietrogiacomi

*Intervista pubblicata sul numero 662 de Il Mucchio Selvaggio

Caro Simone, hai ragione però…

Caro Simone,

hai immensa ragione quando inviti al senso civile e ad un minimo di attaccamento per il proprio Paese, e hai immensa ragione quando sostieni che se se ne vanno tutti qua non rimarrà più nessuno a presidiare il territorio, ad ascoltare il pensiero di chi è rimasto. Rimarrà una terra desolata in mano a chi questo Paese lo voleva esattamente così, un deserto culturale senza opposizione.

Tuttavia, considera questo. L’Italia è un angolo di mondo la cui popolazione soffre di disturbo da stress post-traumatico a livello nazionale. Non ne è escluso nessuno. Lo dimostra il fatto che la memoria è labilissima, non si ricordano eventi tragici, ma allo stesso tempo nessun Paese in Europa celebra come eroi nazionali scrittori di noir storici o giornalisti che hanno l’unico merito di chiamare le cose con il loro nome – reati –, e di menzionare le leggi che in linea teorica li punirebbero.
Gli italiani sono il popolo più ansioso del continente europeo. L’ansia è ovunque: dalle madri isteriche che sulla spiaggia urlano ai bambini di non sporcarsi, all’ultra-trentenne in scadenza di contratto che non godrà di ammortizzatori sociali fino all’inizio dell’impiego successivo, ma dovrà accontentarsi di un assegno di disoccupazione ridotta calcolato sui CUD dell’anno fiscale precedente, che in totale non arriverà a coprire le spese vive di un mese. Il consumo di benzodiazepine e altri psicofarmaci è il più alto d’Europa.

C’è nel popolo italiano un’abitudine generalizzata al non detto, tale che non sembra più strano che non si siano mai fatti i nomi dei responsabili di eventi che hanno segnato intere generazioni e le cui conseguenze paghiamo fino ad oggi, oggi non in senso figurato, ma proprio ora, adesso. Non sembra più strano che si passino leggi contro l’interesse del popolo il giorno di Ferragosto, non fa alcun effetto che i sindacati non abbiano lottato perché l’introduzione della flessibilità nel mercato del lavoro implicasse che il soggetto tutelato fosse il lavoratore e non le aziende, le quali sulla base di quella flessibilità realizzano ora un risparmio sul personale che incide in maniera sensibile sul bilancio annuo.
Non sembra più strano nulla, neppure il fatto che oramai chiunque assuma dosi poderose di ansiolitici, che l’insonnia sia per gli italiani il fattore numero uno di destabilizzazione nervosa, che le coppie non durino abbastanza da diventare famiglie – tanto che ormai nelle scuole italiane ci sono più alunni di origine straniera (e vivaiddio che ci sono almeno loro, sennò gli insegnanti se ne starebbero a casa) che di italiani – che in genere si registri un aumento esponenziale di reattività emotiva nella sfera affettiva, mentre la resilienza nella sfera lavorativa è oramai da considerarsi patologica.

Bianconi dei Baustelle (gruppo che – detto per inciso – non ascolto, tanto da avere scoperto solo oggi che il cantante, oltre ad avere un look molto cool – cosa che mi ha sempre tenuta alla larga insieme al genere che non amo – è dotato effettivamente di un cervello sopraffino) avanza una proposta molto interessante. Dice: gli intellettuali che per raggiunto benessere possono permetterselo, perché non si trasferiscono all’estero e motivano il gesto con una lettera collettiva di indignazione indirizzata al Capo dello Stato? Non ha torto: sottrarre a questo paese che muore la linfa intellettuale significa infliggergli un colpo al cuore, un’umiliazione pesante davanti al mondo che ci guarda.

Il padre fondatore della lingua italiana fu esiliato da Firenze in contumacia, come si studiava a memoria al liceo, senza capire cosa ciò avesse significato per il poeta sul piano umano, intellettuale e professionale: un disastro. Le radici della cultura italiana affondano nell’esclusione, nella pratica di consorteria, nell’infamia. La situazione attuale non si può considerare una cacciata implicita? Noi si resta qui, ma qualcuno ce l’ha chiesto forse? Arrivano segni tangibili per cui la nostra presenza di intellettuali che potrebbero contribuire in maniera efficace a svecchiare e migliorare questo Paese è effettivamente voluta da chi questo Paese lo governa? Per quanto mi riguarda il fatto che la presenza di molte menti eccellenti non venga, non dico notata, ma neppure a volte remunerata, e che si dia per scontato che un’intera generazione accetti di rimanere appesa al cappio di contratti capestro annichilendo il suo potenziale intellettuale, equivale ad una condanna in contumacia. Perché abbracciare con uno sguardo amoroso un organismo anaffettivo come quello che è diventato questo Paese? Quale investimento emotivo è quello che si chiede a chi può decidere di andarsene: rimanere in cambio di che? Un’indifferenza assoluta.
E d’altronde questi intellettuali che grazie a raggiunto benessere, coronati dall’alloro di prestigiosi premi letterari, invece di abbracciare con uno sguardo amoroso il proprio paese da cui non solo non se ne vanno indignati, ma anzi si godono tutte le glorie transitorie di qualche successino editoriale in un carnevale egoico che fa pietà, invece di fare fronte comune e insistere perché qualcosa cambi, si impegnano unicamente in miserande scaramucce sui quotidiani nazionali, che chi è in scadenza di contratto non ha nessuna voglia di leggere, e se le legge per curiosità ne rimane disgustato e allibito.

Dunque Simone, concordo con ogni virgola della tua proposta, ma concordo per un’unica ragione: me lo posso permettere, perché in realtà niente e nessuno mi trattiene qui. Per me essere tornata in Italia per un periodo è un’esperienza come un’altra, come se fossi andata a vivere un anno alle Galapagos. Ma chi invece non ha né i mezzi e neppure il curriculum per potersi spostare all’estero credo che guardi con impotenza questo spettacolo, e che coltivi il desiderio feroce di allontanarsene, perché la verità è che provoca dolore.
Questo è un dolore che oramai non si sente più, è entrato a fare parte dell’organismo, si è trasformato in qualcos’altro, ansia, anaffettività, carenza endemica di autostima, carenza di desiderio, un dolore convertito in qualcosa di più accettabile, che permetta per lo meno di affrontare la giornata.

Io l’Italia la vedo così: un paese malato che non sa quanto soffre davvero, perché a volerlo veramente valutare si aprirebbe un abisso che è meglio per tutti che rimanga chiuso. Per questo nessuno muove un dito perché al lavoro intellettuale venga riconosciuto un ruolo nell’uscita dall’impasse politica, sociale ed economica. Aprire quel pozzo e sprigionare forze che da almeno un ventennio premono per uscire allo scoperto è qualcosa che chi questo paese lo tiene sotto giogo non può assolutamente permettersi. Il vero corpo di Eluana è l’Italia. A questo punto resta solo, veramente, da staccare il tubo.

Claudia Boscolo