Sul ponte

Non c’era mai stato nulla tra me e il mare, eppure quella gran voglia di affondare il pedale e librarsi in aria con tutta la mia auto mi aveva quasi convinto del tutto. Sorvolare l’acqua, con l’ultimo salto della mia vita, volare e poi cadere giù, sprofondare nel mare oscuro fino a scomparire. Immerso nella notte liquida e nera, andare fino in fondo, con lacrime, ferro e tanto amaro in bocca. Sparire per sempre. Era sempre stata una buona idea, ma mai la mia in verità.

Quella notte ci pensai più del solito, immaginavo la sensazione che si poteva provare sapendo che avrei fatto una cosa per l’ultima volta nella mia vita, sentire il rauco respiro del motore, mentre le ruote girano a vuoto, in quell’eterna, ultima immagine dell’auto che si ferma in aria. Cascate di pensieri freddi e pesanti mi si riversavano addosso, come se in quel momento, in quel maledettissimo secondo avrei dovuto ripensare a tutta la mia vita, a tutti i miei errori. E non c’era alba che si vedeva in lontananza, nemmeno un chiarore proveniente dall’abisso dell’orizzonte, nessuno pronto a mettersi tra me ed il mare. Solamente il silenzio della notte, quel cupo lamento del vento che ti ricorda che sei schiavo di questo mondo e molto probabilmente lo sei al punto da non riuscire nemmeno a farlo quel salto. Io ci pensavo, lo conoscevo a memoria quel ponte, cemento per cemento, bullone per bullone. L’auto di traverso in mezzo alle corsie, con i fari accesi e il motore ruggente, io che fumavo nervosamente.

Poi, accadeva sempre la stessa cosa, quando mi decidevo ad andare, a farla finita, mi accorgevo di cose meravigliose, di bellezze ultraterrene nascoste nel pallore massacrante della quotidianità. Un barbone parlava alla luna, recitava i versi della sua anima piangendo commosso, un gatto giocava con il topo sul marciapiede, i palazzi in lontananza disegnavano una fenice col giallo della luce.

Allora infilavo la prima e me ne volavo a casa.

Jacopo Lubich

Pubblicità