Metodica delle cose inutili – La verità

La verità.

Se non ci fosse la verità, dimmi tu come potrei mentire?

Proverbio tardo ugaridico, secondo alcuni pre-armeno.

Dovremo spendere delle parole sull’inutilità perfetta e tetragonica della verità, e quindi sulla sua centralità nel nostro sistema di esistenza, che sembreranno ai più ridondanti: l’inutilità della verità rispetto a qualsiasi prassi concreta e immaginale della vita è, infatti, di palmare e luminosa evidenza. Il nostro discorso varrà dunque come esortativo e catechistico, e sarà volto a rinforzarci nella fede che tributiamo al sistema, per mezzo della constatazione stupefatta e ammirata della grandezza del concetto di verità, ossia della sua totale e numinosa inutilità.

Numinosa, misticamente delirante, miracolosamente illusoria, se solo ci si sofferma a constatare che, quando pensiamo alla verità, abbiamo chiaro in mente con immediatezza qualcosa che esprime l’esatto opposto del concetto di verità. Verità, da etimo, è qualcosa in cui si crede per atto di fede: è un’astrattissima costruzione della fantasia. Astratta e vischiosissima. Una macchina inesorabile dalla quale è impossibile scappare, congegnata com’è per pochissime operazioni autoreferenziali: della verità si può predicare che è una, assoluta e certa; con un sofismo che non la intacca nella costituzione, che è molteplice e assoluta in maniera transitoria; che non c’è, il che comporta che la frase la verità non c’è non può essere vera.

Con la verità non se ne esce fuori. Cadere sotto il suo ambito, è cadere in trappola. Una trappola tranquillante e anestetizzante. Quando siamo sotto il registro della sua dittatura, infatti, altro non facciamo che collocarci in due condizioni comodamente ripartite: la verità ci concede solo o di credere in essa, o di farsi congegnare, ridisegnare da noi entro i suoi ben delineati limiti: essere comandati o comandare.

È il nostro sistema di potere, che si basa saldamente sulla verità, perché, prima di tutto, la verità, con le sue tentacolari costruzioni del come deve essere, e del così come è, ci allontana con uno scarto impercettibile ma gagliardo dalla vita. La verità del come deve essere espresso teologicamente dalle ideologie; la verità del così come è imposto fisiocraticamente dalla retorica del realismo, tutte le varie sfumature elaborate da questa macchina, sono, infatti, le sole ad essere capaci, con verità e per ultime, a tenere a bada lo slancio, la forza e il paradosso della vita, che vive e muore.

La verità è il fondamento mistico di un sistema della paura e della vigliaccheria, la rivendita di una fede che offre la liberazione da qualcosa che non è una prigione.

O Morte, dov’è il tuo pungiglione?”, grida l’uomo di verità, che non sa, o finge di non sapere, che in processione, quando si festeggia il dio della vita, è il dio della morte ad essere venerato.

Pier Paolo Di Mino


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Digressione libera su felicità e altre specie

Digressione libera su felicità e altre specie *

Ti offrirei da bere e otterrei dieci minuti del tuo tempo, poi l’intera serata, magari anche la notte; mi permetteresti di vestire i panni di un gentleman d’altri tempi, cultura di sinistra e abiti globalizzati, tanto quanto i tuoi così originali, frivoli e fuori dagli schemi e che però ti rendono molto simile ai manichini del centro commerciale. Dovrei dirti che odio i centri commerciali per lo spreco, l’ansia all’acquisto e la febbrile, isterica, angoscia di riempimento interiore fra carte di credito e rate da pagare e invece odio i centri commerciali per i manichini senza testa che ci somigliano un po’ tutti tranne che per il colore della pelle che è sempre troppo chiara o troppo scura, l’innaturale imitazione plastica di un incarnato senza nei e smagliature, e ci illudiamo che quei vestiti vestirebbero meglio noi, con le nostre forme da riempire, da coprire piuttosto, e le nostre facce tutte diverse. E invece vestono l’ansia di somigliarci tutti anche se viviamo fingendo d’essere tutti diversi. E tu mi daresti dieci minuti del tuo tempo, e io potrei fingere di possedere abbastanza denaro per offrirti da bere, abbastanza cultura per parlare di supermercati e centri commerciali, esproprio proletario no perché nessuno più ne parla nei bar e nemmeno negli scantinati e nei salotti che restano muti davanti alla televisione; e tu mi concederesti il tuo tempo in cambio di un bicchiere sapendo bene che non ti venderesti mai e poi mai per un bicchiere, dichiarando la responsabilità delle donne nel nostro sistema sociale mentre io ti pago da bere. Sorseggio e parlo, e bevo il secondo mentre ascolti con quegli occhi che sembrano l’unica cosa che ti appartenga davvero sotto strati culturali di ombretti iridescenti, che celano occhiaie e regalano qualche mese in meno, ma stai tranquilla io non ti dirò niente del genere perché tu scapperesti e non voglio che scappi, perché a nessuno piace sapere più di quanto non voglia, ci bastiamo noi con le nostre pseudo-coscienze neolitiche e analfabete e le nostre orecchie sorde alle critiche. Meglio credere di esistere ancora sotto lo spessore del trucco e le etichette che coprono la tua essenza perché tu possa proporti a me e agli altri uomini come un oggetto luminoso in una vetrina, aspettandoti però che io ascolti i tuoi turbamenti interiori e le convinzioni sul matrimonio sugli uomini e sui figli, ma non te lo dirò perché mi daresti del maschilista e niente è più lontano da me del maschilismo, se lo fossi dovrei sentirmi superiore e invece non lo sono, no non mi sento affatto superiore, il mio livello è così basso che non posso nemmeno essere realista perché dovrei costringermi alla consapevolezza di molte cose ed è così difficile essere consapevoli, sono un meschino e un bugiardo, come te anche io credo di esistere ancora, nonostante non lavori da mesi perché hanno dilapidato le loro promesse, o le hanno dimenticate, nessun rinnovo di contratto e tanti saluti. Senza lavoro non esisto, non esisto senza soldi, senza auto, non esisto senza un ruolo sociale riconosciuto e retribuito. Eppure io esisto ancora nella mia essenza, questo lo credo, mi costringo a crederlo senza pensarci tanto su, e non voglio soffermarmi a pensarlo perché equivarrebbe e non crederlo più, di fatto, e la fattualità delle cose mi renderebbe realista ma sono troppo meschino e bugiardo per spingermi a essere realista, di fatto non ammetto che sono un uomo di trentacinque anni senza lavoro e senza una moglie da odiare e senza figli da controllare come appendici o protesi della mia esistenza e senza potermi dannare per la scelta di un matrimonio sbagliato, cosa che mi occuperebbe la mente almeno per quattro ore al giorno, un uomo solo e abbastanza infelice senza nessuno da incolpare per la mia infelicità, ma questo non te lo dico perché potrebbe turbarti, voi donne siete sensibili a questo genere di cose, cambierebbe la tua espressione e per un momento il tuo coinvolgimento empatico forse ti avvicinerebbe a me in modo autentico, ma poi potresti sentirti in dovere d’essere tu a offrirmi da bere, d’essere tu a consolarmi e cambierebbe tutto, cambierebbe il gioco delle parti fra di noi che equivale a dire che cambierebbe tutto; solo dopo io potrò essere il peggio di me stesso, fra qualche anno mi parlerai del colore delle piastrelle della cucina e saremo felici di tacere sulle nostre aspirazioni, che non abbiamo mai avuto davvero; perché vedi, io credo che ogni cosa sia frutto di questo meccanismo che ci costringe a vestirci come qualcun altro, a pensare come qualcun altro anche se poi forse è proprio vero che siamo tutti uguali e i tuoi stupidi incubi sono tali e quali ai miei, non c’è rivelazione che tenga, non c’è genio che riesca a estinguere questa uguaglianza fascista, ma fascista è una parola che appartiene al passato, oggi è meglio dire cosmopolita, universale, sì meglio mantenersi nel campo vago delle linee imprecise e senza giudizio alcuno, perché il mondo è in continua evoluzione ed è un momento storico pieno di slanci e cambiamenti e mille possibilità e mezzi e strumenti nuovi, e tutto è ma tutto può cambiare, eppure non cambia nulla. Ecco siamo agli interessi, libri film sport. Ci ingozziamo di informazioni superficiali sulle nostre vite sviando la questione del desiderio. Cosa desideri davvero? Io non credo di saperlo ma stando così, senza nulla da fare tutto il giorno finisce che me lo chiedo di continuo e smetto solo se incollo le pupille a una televendita di coltelli gioielli quadri e tappeti e finisce che poi desidero quelli e la cosa si risolve. E però si risolve per poco. La questione desiderio e la questione frustrazione, vuoto mancanza o come la si chiami, è sempre quella. Se avessi un lavoro non starei tanto tempo a chiedermi i sinonimi delle parole per renderle meno dolorose. Mi dico che se avessi un lavoro mi sbatterei per mantenerlo, rendersi indispensabili, che è impossibile, mi sbatterei come con il vecchio lavoro, tutto sorrisi e puntualità, pratiche compilate, timbri, tutto ordinato, io al mio posto, sorrisi e cordialità, serietà e puntualità, senza avidità mai, sempre con rispetto e buon senso, ah umiltà sì, soprattutto umiltà, ed ero piaciuto tanto, dico davvero, mi avrebbero confermato di sicuro perché compilavo timbravo sorridevo e sorridevo meglio di chiunque altro, proprio bravo, molto bravo mi dicevano. Poi mi hanno scaricato, le scuse banali, umilianti per quant’erano banali, balbettano ancora nelle orecchie tipo il rumore dei bicchieri e voci e musica che fanno da sottofondo alla nostra conversazione che procede rallentata dai nostri filtri, dalle finzioni che esigiamo di mantenere. Potremmo cambiare però, potrei dirti che tutti i libri che ho letto e la laurea in economia e i viaggi non mi sono serviti a niente, che ho accumulato esperienze su esperienze perché ti fanno credere che serviranno, titoli su titoli di nessun valore utili solo ad allontanare il momento in cui scoprirai che non servi proprio a nessuno; la frustrazione aumenta a dismisura e cresce, cresce senza che io mi muova di un millimetro, lì, stabile, inchiodato alla linea di confine tra i perdenti e i vincenti con il mio curriculum di sei pagine in cui scrivo anche di un vago interesse per gli scacchi maturato all’età di sette anni. Ma non ti dirò tutto questo perché adesso è prematuro e quando potrò dirtelo, quando i nostri ruoli lo permetteranno, una relazione seria tra noi, una relazione in serie, dopo questi dieci minuti, dopo la notte passata insieme a scambiarci sudori e promesse, a usare frasi fatte come questa fatta e strafatta scambiarci sudori e promesse, piuttosto che dire leccare il tuo corpo fino a consumarlo, strafatta anche questa, dopo che avrò esaurito le espressioni rancide di un melenso repertorio condiviso e sarò costretto a trovarne altre, una relazione stabile e seria, che si prometta duratura per esempio, non potrò dirti più nulla, non potrò dirti la mia incapacità e la mia inadeguatezza, non potrò dirti che la corsa verso un posto di lavoro per me non è mai partita, il mio vizio di retorica, che non ci sono segnalazioni per me, né incarichi prestigiosi, vittimismo, che la mia responsabilità nella faccenda è enorme, che non mi voglio piegare al sistema, eppure lo desidero così tanto far parte di questo sistema, essere in gara, sorridere e stringere mani come loro che lo fanno, e forse lo fai anche tu che adesso mi racconti dei tuoi successi che durano un giorno e mai una vita, perché non sai che vengono cancellati, che verrai cancellata perché ancora ti illudi che sarà così e che resterai e che sei indispensabile con le tue capacità e qualità per loro, e io non potrò dirtelo perché sarai dentro il loro sistema anche tu e mi accuseresti d’invidia, non te lo dirò quello che penso neanche fra dieci anni quando avrò prosciugato il romanticismo utilitarista ed esaurito i complimenti di rito perché fra dieci anni io e tu saremo fermi alla balbuzie, non al silenzio dignitosissimo ma alla balbuzie, fingendo che ancora abbiamo qualche cosa da dirci, un universo di condivisioni, un’altra sciocchezza del sistema, e che non ci diremo nulla solo per imbarazzo, perché non troviamo le parole, fermi alla balbuzie perché sarebbe troppo difficile, distruttivo, ci annienterebbe, ammettere che davvero non abbiamo nulla da dirci, e da dire. Adesso ti accompagno all’uscita e pago il conto che non potrei permettermi mentre tu abbassi lo sguardo e ti sistemi i capelli. Entreremo a casa mia, consumeremo un rapporto mediocre senza specchi a ostacolare la finzione dei corpi in penombra, fra qualche mese ti confesserò il mio amore e tu farai lo stesso con me, vivremo insieme, compreremo mobili da riempire le dieci stanze che non abbiamo e che però tu desideri così tanto, ci saluteremo con un bacio o due prima di andare a lavoro, ciascuno il suo posto nel mondo, insieme come coppia nel mondo e il regalo della tua presenza sarà quello di educarmi a una frustrazione nostalgica di qualcosa che non avrò la forza di nominare.

Simona Dolce

* Racconto pubblicato nel 2009 sul trimestrale Rassegna sindacale

Metodica delle cose inutili – Ancora sulla psicologia e le pratiche spirituali

Ancora sulla psicologia e le pratiche spirituali.

Questo numero della nostra rubrica insiste ancora sul tema dell’uso della psicologia e della pratica spirituale: ognuno è libero di trarre da questa insistenza una sua personale considerazione sulla centralità di queste due branche del mercato nelle nostre esistenze.

Ed è proprio questa centralità che ci impone di scegliere bene, tra le tante offerte, quella migliore, la più adatta, dico, a praticare l’inutilità, ad essere inutili. Queste poche note varranno come un semplice e agile vademecum.

Diffidate gente (questo vale sempre) dalla complessità; la complessità ingolfa l’immaginazione, e quindi fa cultura; e la cultura gonfia, come dice San Paolo: e questo è peccato. E, allora, la prima cosa che dovrete fare nel diventare clienti di uno psicologo o di un maestro spirituale è che la sua dottrina operi innanzitutto su un candido semplificatore appiattimento della vostra compagine esistenziale. Qualcuno vorrebbe farvi cadere in mille lacci; qualcuno vi verrà prima o poi a raccontare che l’anima nessuno può dire che esista, ma nessuno può dire che non faccia per intero tutta la nostra vita. Quale astruseria! È più facile e chiaro dire che l’anima esiste punto e basta (come nella storia del rabbino che incontra un suo collega e gli dice che Dio gli ha parlato; il secondo rabbino non gli crede, gli chiede di dimostraglielo se non vuole passare per mendace. Ma il primo se la cava benone: Dio non parlerebbe mai a un bugiardo). Imponendoci che l’anima esiste punto e basta otteniamo un risultato importante (si chiama concretismo): l’unica domanda successiva possibile è: allora dov’è l’anima? La risposta più semplice che sia stata trovata è: dentro. Tagliare l’anima da dove è sempre stata, fuori, nel mondo (anima mundi) viene comodo alla nostra causa perché riporta tutto al privato, in greco idios, da cui idiota: e voglio vedere qualcuno dirmi che essere idioti e inutili non sia la stessa cosa. A quel punto noi abbiamo l’anima che è una cosa che abbiamo dentro, al buio, chiusa. E al buio, e poi col fatto che siamo idioti, non riusciamo più a distinguerla dallo spirito, non sappiamo vederla differenziata nei sui vari aspetti, nelle sue infinite anime (ci fanno pena i poveri neoplatonici con le loro demonologie).

Allora badate bene che il vostro psicologo o il vostro maestro vi dica che dentro avete qualcosa (spirito, anima, prana, energia, superpoteri) che non si capisce bene cosa sia, ma che, per essere tenuta stantia dentro, e poi dentro un idiota, è malata. E qui dobbiamo passare al secondo punto fondamentale: se uno è malato va curato. Così dobbiamo ragionare.

Una volta se uno era cieco lo mettevano a fare il poeta, tipo Omero, o, fino a sessant’anni fa in Giappone, lo sciamano (lo Stato totalitario nipponico si è efficientemente liberato da questo retrivo retaggio: ora i ciechi fanno i barboni). Uno che è malato va curato. Cosa otteniamo con questo? Che l’uomo, per dire, è all’ottanta per cento fatto di acqua, e il resto sono cattivi pensieri, sogni conturbanti, strane fantasie, ansie, manie, paranoie: ci curiamo, leviamo le ansie e le paranoie, e cosa otteniamo? Diventiamo delle bottiglie d’acqua.

E così la sera torniamo a casa, dopo esserci mondati dai peccati lì dallo psicologo o dal guru, nella nostra casa privata, come degli idioti; ci poggiamo sul nostro tavolino come una bottiglia, e possiamo constatare di essere puri e calmi, anche se questa casa non la pagherò mai, anche se non ho un lavoro fisso, anche se per me non ha un vero senso vivere e non mi fa neanche più effetto che stanno massacrando di botte sotto casa mia degli emigrati.

Tanto è sotto, è fuori, dove non ho più anima.

Pier Paolo Di Mino