La parte più calda

[Siamo lieti di riproporre ai nostri lettori il racconto La parte più calda, pubblicato su Los Ingrávidos, numero 12 della rivista Colla, dello scrittore spagnolo, classe ’85, Juan Soto Ivars e tradotto da Marco Gigliotti. Buona lettura.]

di Juan Soto Ivars

1.

Erano i giorni in cui il lavoro non ci aveva sfiorato. I giorni in cui conoscevamo intimamente l’estate e lei ci permetteva di passeggiarle sul dorso. Per noi la vita era andare su e giù per strade conosciute, portare a spasso la noia per le campagne che circondavano il paese e fantasticare sulle ragazze: creature incomprensibili e desiderate che ci ignoravano come se fossimo mendicanti molesti. Ricevevano in cambio le nostre risposte iraconde e ingegnose. Le nostre sassate cariche d’amore.
Il paese era piccolo ma le differenze tra gli abitanti erano molto marcate: c’eravamo noi e quelli che potevamo spaventare facilmente. Io vivevo con la mia famiglia in un complesso residenziale modesto vicino ai binari del treno. Innumerevoli giorni della mia infanzia ho aspettato, con altri come me, che passasse il treno merci carico di container di legno e cisterne di butano. A volte scommettevamo sul numero di container che avrebbe trasportato il treno. Ci giocavamo soldi o figurine dei calciatori. Altre ci divertivamo mettendo pietre enormi sulle rotaie. Pietre rotonde che esplodevano quando venivano schiacciate dalle ruote metalliche e che mettevamo lì con la speranza di far deragliare il treno. Immagino che volessimo far succedere qualcosa per spezzare la monotonia. Qualcosa che non ci è mai riuscito. Leggi il resto dell’articolo

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Carta taglia forbice – 9

[Continua da qui]

Una piccola città dell’Europa occidentale

Lei

Il Tempio è una cosa importantissima nella vita delle persone e anche nella mia. Io posso essere me stessa, nel Tempio, posso infilare il filo nella cruna e sentire l’odore della fede. Da quando sono piccola i miei genitori mi portano tutte le domeniche al Tempio, che è la chiesa dei Santi degli ultimi giorni. Noi siamo mormoni. Così ci chiama la gente. Ci chiamano mormoni perché Leggi il resto dell’articolo

Ultima spiaggia

a L.C.

Dalla strada statale alla spiaggia quarantadue passi di funerale. Tre bambini tengono sollevato un vecchio lenzuolo su cui è steso un gatto arancione e morto. Nelle ore precedenti, i tre hanno scavato una buca nella sabbia e adesso, in silenzio, vi adagiano dentro il gattaccio con il suo sudario a fiori rossi su sfondo blu. Poi, in piedi sul bordo della buca, i bambini guardano dentro: il gatto ha i visceri di fuori e un occhio in meno. Perché seppellirlo qui, chiede il più piccolo. Scemosei te lo abbiamo già detto cento volte, dice il più grande dopo aver sbuffato. Perché il mare pulisce tutto, risponde il mezzano che è anche il fratello del mocciosetto. Perché il mare pulisce tutto, chiede il piccolo. Gli altri due neanche rispondono. Per scavare la buca hanno usato delle vecchie palette di plastica – le stesse adoperate per trasferire l’animale dall’asfalto rovente al lenzuolo – e adesso, per ricoprirla, usano le mani. Vedendo il gatto scomparire a poco a poco, ricoperto dalla sabbia scura, il bambino più piccolo scoppia a piangere. Scemosei, dice il grande. Scemosei, ripete il mezzano. Il piccolo riesce a trattenere le lacrime, ma non i singhiozzi che gli scuotono il corpo. Dal chiosco delle bibite e dei gelati proviene una canzone di Vasco Rossi che piace a tutti e tre. Il sole non si decide a tramontare. Leggi il resto dell’articolo

Il cielo dei se

IL CIELO DEI SE *

Era così profondo che a guardarlo dall’alto quasi avevo le vertigini. Il canyon che mi ritrovavo sotto il collo, là dove normalmente sorgono floride colline, mi lasciava in uno stato di arida desolazione ogni volta che mi esaminavo allo specchio. Profilo destro. Profilo sinistro. Frontale. Osservavo attentamente qualsiasi impercettibile rigonfiamento che potesse farmi sperare in un embrione di femminilità. Ma niente. Lo specchio, facendomi rassegnate spallucce, mi rifilava sempre lo stesso verdetto: anche questa estate niente tette. Mi rivolsi allora all’unico santo a cui potevo votarmi: mia nonna Alberta, intenta in quel momento a fare la sfoglia. Diceva rosari per ogni gattino smarrito, ogni gamba fratturata, ogni colpo di tosse del paese: non vedevo proprio perché non potesse occuparsi del problema del mio seno, che all’epoca mi sembrava poter competere con la guerra e la fame nel mondo per aggiudicarsi il titolo di più grave catastrofe dell’umanità. E così le commissionai due rosari, uno per seno, e che ci si mettesse d’impegno, la rimbrottai direzionandole lo sguardo a quei tristi bottoni di tettucole che avevo al posto del decolleté.

Il punto è che io volevo diventare bella e grande per lui, Bici Rossa, il mio amore sedicenne, un affascinante moretto che passava le vacanze nel mio paese. L’estate per me cominciava quando riuscivo a vedere (dopo settimane intere di indecenti appostamenti in cima alla collina) la macchina dei suoi genitori parcheggiata davanti alla sua villa e finiva quando lui se ne andava con le prime folate settembrine. Trascorrevo l’intero inverno a immaginare il momento in cui ci saremmo rivisti: lui scendeva dalla macchina dei suoi, mi scorgeva (nel frattempo ero diventata una strappona bionda, alta un metro e ottanta, con la quarta di reggiseno e avevo anche ottenuto magicamente un paio di occhi verdi) mi diceva “sei proprio tu? Sei diventata meravigliosa!”, s’innamorava all’istante, ci baciavamo e vivevamo felici e contenti, come in tutte le fiabe che si rispettino. Proprio quel giorno, finalmente, l’estate era arrivata in macchina con Bici Rossa e me ne stavo irrequieta al fiume con i miei amici, sapendo che poteva comparire da un momento all’altro.

Era così profondo il fiume che ogni volta che mi tuffavo per andare a toccare il fondo non riuscivo a riemergere per vari secondi. Quando sbucai dall’acqua gelida e me lo ritrovai davanti, lì in acqua accanto a me, lo accolsi con la mia muta bocca spalancata: è qui che il mio film cominciava. Ma io non ero una strappona bionda bensì un’aspra dodicenne e neanche quell’anno, chiaramente, il film cominciò. Bici Rossa mi salutò con il suo sorriso pieno di sole e malizia, mi fece una carezza sulla testa di quelle che si fanno ai bambini e si occupò presto di altro, anzi di altre. Loro sì che erano appetibili: avevano addirittura tredici anni, venivano dalla “città” e non gli mancavano di certo delle arroganti, altezzose mammelle. Bici Rossa e gli altri ragazzini cominciarono per scherzo a slacciare a tutte il bikini. A tutte tranne che a me, perché era inutile. Un pochino mi rodeva.

La sera, come ogni sera, raggiunsi gli altri nel piazzale. Anche se eravamo piccoli nel paese non si celavano pericoli e i nostri genitori ci facevano restare fuori fino a tardi, le undici. Io avevo sempre i capelli ancora un po’ bagnati e un inebriante odore di balsamo addosso: era quello il profumo dell’estate per me, l’odore di una promessa mai completamente mantenuta.

Giocavamo sempre a un nascondino evoluto, che aveva come confini i dintorni del paese. Anche quella sera Daniele cominciò a contare Uno, due, tre…novantanove, cento! e noi ci spargemmo dietro ai porticati, giù per i borghi, sotto il Ponte medioevale, su a perdifiato per le colline. Io “casualmente” mi nascosi nel prato in cima alla collina con Bici Rossa. Mentre eravamo stretti stretti dietro a un dosso, il silenzio della notte si addensò attorno a noi e lui mi disse “quando sarai più grande ripasserò”. E allora cominciai subito ad aspettare di diventare grande, e a contare Uno, due, tre…novantanove, cento… Gli sorrisi per quella spremuta di potenzialità che mi stava offrendo, felice in fondo di non essere ancora. Ci sdraiammo sul prato senza fare più nulla se non contemplare le stelle che pattinavano veloci sul cielo nero.

Era così profondo il cielo e così pieno: pieno di tutto quello che mi sarebbe accaduto, di tutto quello che mi sarebbe potuto accadere e anche di tutto quello che non mi sarebbe accaduto mai. Mentre sentivo di lontano gli echi degli scalpiccii di qualcuno, dei “Tana per me!” e mia mamma che mi reclamava dalla finestra – No, mamma, fammi giocare ancora un po’– io mi scioglievo tra le trame oscure del cielo, da cui mi sgocciolavano addosso dei seducenti

SE      SE      SE…

Sofia Assirelli

* racconto pubblicato sul Corriere di Bologna

Trilogia sull’operaio – Il minidotato

All’inizio di questa storia ci sono io, sospeso a venti metri da terra. Guardo le macchine sotto, le donne che calcano il marciapiede. Sono sguardi che lancio veloci , prima di ricominciare.

Lavorare in un cantiere ed essere, nello stesso tempo, osservatori curiosi. Sembrerebbe strano ma questo sono io. Vedo scorrere il tempo qui abbastanza velocemente. Questo solo grazie al modo di distrarre la mente che ho mentre svolgo i miei doveri.

Posso dirlo ormai con certezza, dopo questi giorni passati qui: ristrutturare la facciata di un palazzo è parecchio faticoso e quando riesco a eludere questa verità è il male dentro alle ossa che me lo ricorda.

Guardo le braccia degli altri muratori.

Le loro vene sono tronchi, radici di pino che si diramano sottopelle.

Li osservo mentre le loro braccia si tendono. I loro bicipiti si gonfiano sottosforzo, come se qualcuno stesse soffiando aria dalla valvola che tengono nascosta sotto al gomito.

Dopo questo guardo le mie , di braccia. Esili bianchicce ed affaticate nel far tutto.

Qualche vena, in realtà, la vedo uscire anch’io. Sembra quasi che voglia solo far notare il fatto di esserci. E’ troppo piccola. Troppo ancorata verso il basso.

In vene come quelle che invidiavo, immaginavo scorrere ad alta velocità, centimetri cubici di rosso fluido vitale.

Se il sangue è linfa e nutrimento, una circolazione come quella degli operai in questione era probabilmente sinonimo vero di energia e forza esplosiva .

Questa ipotesi si portava dietro dunque i motivi della mia fiacchezza e dei dolori.

A volte eravamo a lavorare uno di fianco all’altro. In quelle occasioni le vene che avevo, venivano prese da un reale senso di inferiorità.

Era l’immagine degli spogliatoi e delle docce, della scuola calcio da bambino. Quando si sentiva urlare tra le nuvole di vapore: “Carlo c’ha il cazzetto!!!” in faccia ad un ragazzino dal cazzo ancora piccolo.

E’ paradossale. A volte, si sta su un’impalcatura ghiacciata in inverno ed infuocata in estate, a venti metri dal suolo e si riesce ad essere disinvolti nel camminare, orientarsi e dirigere gli sguardi.

Alla fine di tutto, c’è il sibilo quasi impercettibile del mio precipitare su una vecchia signora con le buste della spesa nelle mani. L’altra anziana vicina a lei si interrogherà per molto, sulla casualità che non l’ha uccisa.

Porrà termine ai suoi ragionamenti frequentando sempre più assiduamente la parrocchia del quartiere, vivendo nella consapevolezza che non conviene affatto provocare un Dio a cui basta solamente premere un pulsante.

Luca Piccolino

Qui puoi leggere Misericordia

Qui puoi leggere Caterina ovvero l’accoppiamento della lumaca

Precari all’erta! – Un dito di rosso

Visto che oggi è ferragosto ed è il compleanno di mio nonno Mariano, mi concedo una tregua dai miei soliti interventi e vi posto questo racconto a lui dedicato, che nel 2007 è arrivato finalista al Premio Letterario Castelfiorentino.  Magari potrà distrarvi per alcuni minuti da questa calura estiva, visto che si parla di paesaggi invernali e di vino rosso…

Un dito di rosso.

Mio nonno ne beve un dito ancora dopo il caffè, di rosso, come i suoi pensieri, pensieri ostinati di una vita, masticati con il pane, intinti con dita non tremanti, ma mica come l’ostia, che si scioglie in bocca senza sapore, no… un retrogusto amaro risale, di fumo incallito e di bestemmie davanti al televisore.

Capita che il vino prenda d’acido se la bottiglia sta troppo tempo aperta.

E così mio nonno ne mesce un bicchiere dopo l’altro, su e giù con il gomito proprio come quando correva con il camion per i colli, tra i tornanti, a caricare e scaricare frutta e verdura per un banco ai mercati, d’inverno con il ghiaccio che cedeva sotto i battistrada, d’estate con il volante che arroventava la pelle. E lo faceva praticamente con una gamba sola, perché l’altra se l’era mangiata l’alta tensione sopra un traliccio, e la ditta per cui lavorava gli passava una pensione che a fatica gli bastava per garze e pomate. Una faticaccia il rituale serale della fasciatura riscaldata al caminetto, pelle viva che non si cicatrizzava e piangeva pus!

Forse mio nonno è da quel momento lì che ha iniziato a bere vino del contadino, di quello che ti allega la bocca e sembra non voler scendere giù, proprio come la lingua che il suo compagno di lavoro gli srotolò fuori per non farlo strozzare. Un pezzo di legno lo ha tenuto in vita, ma non di pregiato aduso per botti, bensì un volgare stecco di ciliegio dal retrogusto fruttato. Ma per bere ogni giorno un litro di quello si deve aver visto la morte in faccia per davvero, e ci vuole coraggio a scriverne, poiché nell’ebbrezza poi la parola ci sfugge, si contorce, rigira nel palato e va a scavare le gengive tra i denti prima di rantolare fuori piena di stenti. E a ragione s’infuria con la medicina che vorrebbe togliergli anche quest’ultimo privilegio! S’inaridiscano pure i reni, gonfi lo stomaco e scoppi la vescica… avanti prego, adesso chi c’è?… e il fegato, eh?! Come la va con il fegato? Quello si rigenera, si rigenera sempre, e mio nonno ne è testimone coerente! Il segreto sta nell’aglio crudo strusciato sul pane con un filo d’olio e un po’ di sale, che anche quei vampiri dei fascisti c’ha scacciato così, che quelli il rosso rubino che mio nonno tiene nelle vene mica lo digerivano così bene! Tira tira, che a lui gli si tirano al massimo i tendini del collo per il nervoso, magro come un manico di scopa, ma di saggina però, che si flette e si flette e non si spezza mai! Col vino in corpo c’ha poi alzato per una vita quintali e quintali di pomodori, maturi all’arrivo sul bancone e sfatti al ritorno da servì in tavola alla famiglia come contorno, e melanzane e peperoni e zucchine, e le mele di tutti i tipi, e mai una volta che gli ha annebbiato la vista, neanche sul ghiaccio a Castelnuovo Val di Cecina, che me lo ricordo che c’ero anch’io, piccino piccino pigiato fra lui e mi ma’, che anche s’ero tutto assonnato il culo mi si stringeva per la paura! Con me non si casca di sotto, scemo!, mi diceva, e poi vedrai che quando s’è finito si va a mangià la braciolina impanata su in trattoria… hai capito? Col nonno di sotto non si casca mai…

Ma fermiamoci un attimo, proprio qua sul ciglio, a pensare in silenzio. Godiamoci questo paesaggio brullo di vigne e d’olivi che ti accompagnan fino a Volterra, sotto al carcere coi matti, che chissà là quanti ce n’hanno chiusi con troppi grilli in testa per poi farli inacidire e cantà come cicale.

Lasciamolo adagiato al buio, se è la che vuole stare, come il vino da invecchiare. Non ha bisogno di altra luce, il chicco ormai è maturo. Passo io, signor fattore, a controllare. Come? Lei dice troppi anni, che il rosso ormai è svanito? Glielo spieghi lei, signor fattore, che adesso va di moda il bianco, da servirsi fresco nel calice lungo e stretto. Io per me, mi piace ascoltarlo questo raglio d’asino che stringe il morso, che abbassa gli occhi sul lumino della cicca e par che guardi lontano, dove non si sa, perché due briciole sul tavolo son tutto quel che c’ha. Cadute dalla bocca, le lascia lì a danzare nel cielo acquoso degli occhi, e chissà a che pensa?, forse che se c’avesse vent’anni gliela farebbe lui la festa a quei pidocchi!, ché invece gli tocca di sentirli biascicare in sottofondo… bla, bla, il televisore… ma vedrai che tornano, e se tornano, non li vedi?, son già qua pronti in doppio petto!… e bla, bla, i parenti… tutti contro a sfotterlo, a non salare il sugo perché così lui dica che è sciapo, che insomma non sa di niente, e a ritornar su quel solito discorso… troppe sigarette, noi ti si diceva! A che ti giovò il non sentir più sapori? A che pro prendersela tanto per un’idea talmente antica che ormai ha preso di tappo? E giù altre risate, neanche fosse un bambino…

Io, le poche volte che ci sono giuro che ci divento matto! Allora gli calo un altro goccio e me ne verso anch’io, così si butta giù il boccone in due, una corsa pazza fino al caffè… e dice a tutti che meno male che gli è rimasto almeno un nipote che tiene le sue stesse idee, che gli sta appresso col rosso insomma, anche se alle ultime due dita poi non c’arriva e lo lascia da solo proprio sul più bello, là come un pivello sulla linea del traguardo…

Simone Ghelli