Carta taglia forbice – 11
dicembre 9, 2011 2 commenti
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Una grande città dell’Europa occidentale
– Gliel’hai detto?
– No.
– Perché non gliel’hai detto? Leggi il resto dell’articolo
Saranno anche precari, ma di certo non sono scrittori (Libero, 1/9/09)
dicembre 9, 2011 2 commenti
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Una grande città dell’Europa occidentale
– Gliel’hai detto?
– No.
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giugno 9, 2011 Lascia un commento
Il cristallo è la mia casa da almeno un anno.
Il cristallo mi permette di stare al sicuro, di poter vedere la realtà nella sua interezza, nel suo vero significato.
Questa vita carica di nulla scompare totalmente nel cristallo.
Me ne avevano parlato molte volte. Mi avevano detto che non ci sarebbe stato più nessun significato ma solo significanti. Nessuna domanda, solo risposte. Pulite, solitarie nella loro chiarezza.
All’inizio ho creduto che fosse soltanto una delle solite cialtronate: quelle offerte che non si possono rifiutare, che non puoi non prendere in considerazione. Dopo le prime reticenze c’è stato il primo avvicinamento.
Non si può entrare nel cristallo di colpo. Il cristallo ti fa suo, ti prende e non lascia più la tua carne, perché il legame è fino alla morte. Leggi il resto dell’articolo
Maggio 10, 2011 4 commenti
E’ uscito da pochi giorni “Almeno mi racconto” di Daniela Rindi (Edizioni Il Foglio, 2011), “una raccolta di racconti di fantasia, con sfondo autobiografico, editi (e non) in cartaceo su antologie collettive o su riviste web”.
Quello che segue è uno dei tanti racconti (tra i più brevi, per motivi di spazio) compresi in questo libro diviso tra “Microstorie isteriche di donne quasi sane” e “Microstorie isteriche di uomini quasi sani”.
Bevitrice a giorni alterni
La giornata trascorre impegnata e piena di buoni propositi. Mi alzo tutte le mattine alle 6.30 e sveglio le bambine. Un cerchio alla testa mi strizza il cervello, secondo la qualità della sostanza alcolica ingurgitata la sera prima. Vino sopra i dieci euro, buona giornata, due litri d’acqua e torno come nuova. Sotto i dieci euro, terribile emicrania, non bastano tre litri e fatico a superare i sensi di colpa. Stentatamente mi avvicino ai loro letti e cerco di controllare la mia angoscia, cantando “ trallalero è lunedì!” In cuor mio maledico il lunedì. Le vesto, mi lavo, mentre mio marito dorme placidamente ignorandomi. Colazione, panini, merenda, pranzo. Commissioni nella mattinata, spesa, dottore, lavanderia, comune, banca. Ore 13.30 esce la piccola, la grande alle 14.00. Grande dispendio di mezz’ore, se non di ore che cerco di investire leggendo. Pranzo, meglio una pasta al pesto, sugo già pronto. Compiti… posso servirmi di un doposcuola, grazie naturalmente al marito che, oltre a dormire, lavora con diligenza. A Cesare quel che è di Cesare. Poi danza, o ginnastica, orari diversi e naturalmente, giornate diverse. Mi sento un taxi, utile e motivato, ma sempre un taxi. Gli unici commenti nell’abitacolo sono ingiurie e rivendicazioni. Ringrazio. Intanto sono puntuali alla lezione. Generalmente finisco col chiudere la saracinesca dell’ultimo discount. Torniamo a casa, cena, il marito distrutto e inutilizzabile sul divano. Ci tocca la solita minestra. Segnalare a questo punto, come il rintocco del big ben, l’ora della buona notte. Faticosamente si avviano ai letti. Sfamati gli orchi, messi a letto, non mi resta che sedermi sul divano. Non ho più fame, preferisco l’alcolico intossicante, per quanto sia una salutista convinta e abbia sulle spalle vent’anni di yoga. Non serve a un cazzo. Ogni sera, a giorni alterni, la bottiglia mi consacra a buona bevitrice, non ancora alcolista, solo perché mantengo il ritmo.
gennaio 25, 2011 2 commenti
La famiglia di pietra (Round Robin, 2010)
di Gregorio Magini
Adele parlava di qualcosa di incomprensibile che non c’entrava niente. Vauro si scostava i capelli dalla fronte in continuazione come se fossero sferzati da vento e pioggia.
«Ti ricordi tua nonna? Giacomo era troppo piccolo ma tu avevi sette otto anni. Diceva “pazzo e pazzo non fa mazzo”. Non voleva che Claudio mi sposasse, perché diceva che aveva il pazzo anche lui. Salutami tua madre. Come sta? Che signora elegante. Lo so che è sciocco, ma mi sono sempre sentita un po’ in soggezione davanti a lei. E che cuoca eccezionale. Mi insegnò il pollo alle mandorle. Fu la prima a importare i piatti cinesi negli anni Settanta. Peccato che tutte queste larghe vedute non le abbia poi messe a frutto, ma d’altra parte, non vedo come sarebbe stato possibile. Io non sono neanche in grado di accendere un computer…». Continuò su questo tenore per un quarto d’ora, poi invitò Vauro ad andare salutare Giacomo, che era come sempre in camera sua.
«Giacomo?» chiamò dolcemente la mamma bussando sulla porta di camera. Udirono dei tonfi, dei passi rapidi e pesanti, mormorii, e un aprirsi e chiudersi di ante e sportelli.
«Giacomo, c’è una persona in visita. È Vauro».
Nella stanza si fece silenzio. Vauro, alto una testa più della zia, aspettava alle sue spalle.
«Giacomo? Che cosa fai?».
Vauro aspettava in silenzio con le mani nelle tasche dei jeans. Si ricordava di Giacomo come un ragazzino magrolino e taciturno. La zia gli aveva detto: «Sapessi quant’è cambiato. Non lo riconoscerai mai». Gli aveva detto anche: «È molto reclusivo».
«Aspetta!» esclamò Giacomo.
Tramestò per la camera per un minuto, poi chiamò: «Avanti ma solo Vauro!».
La madre dischiuse la porta e si fece da parte per lasciar passare il nipote. Giacomo si fece all’uscio e le disse concitatamente:
«Scusami mamma è una questione di prossimiglianza capisci sicuramente vero sì».
E chiuse la porta.
Vauro guardò la stanza. Gli parve, dapprima, che fosse del tutto spoglia. Le pareti lo erano. I mobili pure. Il fatto era che stava tutto per terra. Fogli, libri e vestiti, tutto sparso sul pavimento. Un sentiero angusto si faceva strada tra gli oggetti dall’ingresso al letto, con una ramificazione che giungeva sotto la finestra.
Senza che avesse avuto modo di guardarlo in faccia, Vauro si trovò a cercar di afferrare quello che Giacomo gli aveva preso a dire. S’era inginocchiato sotto un tavolo, rovistava e diceva qualcosa su qualcosa che cercava. Era in mutande. Una canottiera azzurra gli metteva in evidenza il fisico solido e un po’ corpulento. Vauro, stupito, guardava le grosse cosce, le gambe pelose e tozze, i piedi in calzerotti bianchi scivolare sulla minutaglia sottostante nel tentativo di puntellarsi. Voleva vederlo in viso. La zia gli aveva detto anche:
«È introverso, ma dà retta come sempre. È un ragazzo d’oro».
«Che cerchi Giacomo? Ti posso dare una mano? Perché non vieni fuori un secondo?».
«È importante che voi vi asteniate dall’ora delle decisioni irrevocabili come se ci fossero decisioni revocabili vecchio mio» gli rispose il cugino.
«Ma di che parli?».
Giacomo smise di rovistare ed esclamò:
«Parlo dell’aria odierna di mistero, della necessità di astenersi dal male e di operarsi per il bene. Posso darti del lei?».
«Del lei?».
«Sì vorrei darti del lei in segno di rispetto perché ti voglio bene».
«Comincia che esci di là sotto».
Uscì con un peluche in mano: un ippopotamo marrone.
«Questo è Ippopazzo. Io lo chiamavo Ippocastano, ma Gloria preferiva Ippopazzo».
Finalmente poté osservarlo. Una faccia larga, zigomi a punta, quasi vietnamiti. Occhi stretti e vispi. Una peluria rada e ispida, capelli corti, disordinati e unti. Vauro si chiese quanto gli assomigliasse. Tacque in attesa; del resto, non sapeva che dire.
«Stamattina ho fatto le pulizie di primavera. Mi mancano solo i capolavori».
Indicò una libreria alta e sottile, in cui sopravviveva un’unica fila di volumi.
«Hai fatto questo stamattina?» allibì Vauro.
«Ho staccato prima i poster e le foto e ho tolto gli altarini».
«Gli altarini?».
«Sì vedi per esempio lì sul cassettone c’era una cartina di un Ferrero Rocher che mi aveva regalato Liala alla fine del Novecento. Accanto ci avevo messo una cartolina dal Giappone e un mattoncino rosso che avevo trovato sulla spiaggia di Spalato».
«A Spalato?».
«Sì, era pieno di ricordi. Ho dovuto levare tutto. Siedi qui e chiudi gli occhi».
Lo accompagnò al piccolo letto scompigliato. Vauro si lasciò trascinare con docilità. Gli aveva detto la zia: «Ha tante, tante cose da dire. Se hai la pazienza di ascoltarlo, è un tesoro vero». Giacomo armeggiò.
«Apri gli occhi ora» disse. «Vedi questa cornicetta che ti mostro di retro? Di davanti c’è una fotografia di Gloria, e ascoltami bene: non te la faccio vedere, piuttosto ti ammazzo».
Nonostante le parole, il tono non parve a Vauro troppo serio, per cui, ma anche d’impulso, provò ad allungare un mano per voltare la cornice. Giacomo scattò all’indietro e si buttò di faccia sul materasso, difendendo così la foto con tutta la stazza del corpo. Con il collo girato e metà faccia perciò tra le coperte, disse:
«Mamma ti ha detto quello che ci è capitato ma non ha detto di babbo dov’è né che fa perché non lo sa. Tu lo sai?».
«Zio Claudio? Non ne so nulla. Ma non sa niente? Nessuno l’ha avvertito? E dov’è?».
«Non importa sarà qui per terra. Prendi un foglio, ci sta che lo trovi».
Vauro prese un foglio.
«Leggiamolo».
«Vuoi che legga ad alta voce?».
«Sì grazie mille grazie».
Era stampato, ma coperto di correzioni a matita. Per trarne un senso, Vauro dovette ignorarle tutte:
«Ora una mosca mi ronza d’intorno. Sembra cosa da niente e lo è. A un primo momento, non è che ho pensato “ecco una mosca che mi ronza d’intorno”. Sono rimasto teso e concentrato e silenzioso e ho continuato a studiare. Ma l’orecchio s’è accorto e l’ho perso dietro la mosca». Vauro saltò alcune righe: «Ora è un movimento piccolo e scuro e anche l’occhio lo coglie e lo segue, e presto tutto il corpo gli crede e teso e in silenzio si mette in agguato. Una lieve angoscia si somma alla mosca. La mano formicola e la mano scatta e il palmo si abbatte sul dorso e il piccolo scuro movimento formicolante si ferma. La mosca è morta e il mio corpo si rilassa, gli occhi tornano a non guardare e l’orecchio a non ascoltare. Ma con fatica, perché la mente torna alla mosca che non ronza d’intorno e l’angoscia è la stessa ma senza mosca, ed è più lenta da assorbire per la mente».
Alzò gli occhi verso il cugino in cerca di spiegazioni. Ma Giacomo non disse niente. In quella, Adele bussò e chiamò:
«Ragazzi volete far merenda?».
Vauro fu preso da uno stordimento. Quello che gli avevano sempre detto a casa, che quel ramo della famiglia Conforti era una gabbia di matti, era vero. L’aveva dubitato, ma non poteva non ricredersi. La zia lo condusse in cucina – Giacomo non volle saperne – e gli offrì tè e biscotti. Era così stordito che non riuscì ad ascoltarla. Gli diceva qualcosa di pratico sul funerale, in tono neutro, come se si trattasse di una pratica uggiosa ma inevitabile. Mangiò i biscotti al burro meccanicamente e poco dopo si trovò fuori, in mezzo a gente che trafficava su e giù per la via senza parere. In mano aveva un assegno in bianco e dei fogli con indicazioni e numeri di telefono: il giorno, il luogo, l’impresa di pompe funebri, il fioraio… Su uno era scritto:
“Epitaffio: GLORIA CONFORTI 1983-2004 / AD MAIOREM GLORIÆ GLORIAM”.
dicembre 13, 2010 3 commenti
Come ho perso la guerra (Fandango, 2009)
di Filippo Bologna
La famiglia Cremona è da generazioni una delle più ricche del paese – un piccolo paesino toscano molto vicino a Siena. Il bisnonno aveva l’abitudine di frustare i contadini e si era fatto costruire un vero e proprio maniero, con tanto di passaggi segreti, come simbolo della sua potenza. La famiglia, nel corso delle generazioni, ha mantenuto parte della sua ricchezza ed ha un nome altisonante, da difendere ad ogni costo. La pace è bruscamente interrotta dall’arrivo di Ottone Gattai, un imprenditore spietato e senza scrupoli, cinico ed arrivista, arrogante e amico di «tutti quelli che contano». Scopo dell’imprenditore è di risollevare le sorti economiche del paese, costruendo – grazie alla sua società, la Acquatrade srl – un vero e proprio centro termale, modernissimo e dotato di piscine, un albergo extralusso e tutti i comfort che gli ospiti possano desiderare. Deturpare il paesaggio con questo enorme complesso, modificare il modo di vivere di un paese, non importa minimamente al Gattai: è il fatturato quello che conta. Per cui… che si sradichino alberi, che si scavi… che il progresso giunga finalmente trionfante anche nel cuore rurale della Toscana.
Come si finisce in una vera e propria guerriglia? Federico Cremona – protagonista del romanzo e ultimo erede della famiglia più in vista del paese – non saprebbe neppure spiegarlo. Trova insostenibile che tutto possa avere un prezzo, che tutto sia in vendita: anche l’acqua, anche le idee che per generazioni si sono tramandate nella sua famiglia. La famiglia Cremona è espropriata di parte della terra che appartiene loro. Eppure nessuno batte ciglio. Anzi. Pare che tutti, eccetto Federico, siano fiduciosi, pronti ad arricchirsi. Che resta da fare? Combattere. Resistere. Sabotare l’Acquatrade srl, sabotare Ottone Gattai. Al suo fianco ci sono i suoi amici e Lea, l’amore della sua vita.
Filippo Bologna esordisce con un romanzo dalla struttura complessa: passato e presente si intrecciano a creare un’opera difficile da catalogare. È una saga familiare, è una satira sul presente sempre più grottesco, è una critica alla commercializzazione di uno dei beni che mai dovrebbero essere messi in vendita: l’acqua. È un affresco a tutto tondo della Toscana di oggi. Un’intera generazione ha perso la guerra, ha smarrito i propri sogni, ha imparato a navigare a vista, ma ha mantenuto intatto il proprio sarcasmo, forse condito con il disincanto di chi è reduce da troppe sconfitte e si ferma a rifiatare. Solo un attimo. Solo per poi ricominciare una nuova battaglia. Solo per fallire di nuovo. Per fallire meglio. Tanto tutto ciò che è già accaduto scorre. È semplicemente acqua passata.
«Chissà dove, e quando, si formano i ricordi, chissà qual è il momento in cui il flusso della realtà si cristallizza, prende forma e vita, e diventa ricordo. In genere nevica tra -2 e +2 gradi centigradi, non dev’essere né troppo freddo né troppo caldo. È solo in quella precisa forbice che le molecole in sospensione nelle nuvole diventano cristalli di ghiaccio e si dispongono secondo misteriose geometrie che i matematici chiamano frattali. La stessa cosa secondo me avviene per i ricordi, dovrà pur esistere una forbice entro cui la realtà si cristallizza in ricordo. Non saprei dire quanto lunghe o affilate siano le lame di questa forbice, né quali mani la guidino. So solo che nel tessuto delle nostre vite viene ritagliato il banale, a volte il cruciale, a volte il doloroso, a volte il felice. Senza logica, per farne un assurdo abito da indossare tutta la vita».
febbraio 25, 2010 Lascia un commento
L’ultima volta che gli servii la cena fu la sera del 25 agosto. Chiusi la porta e lo trovai intento, come altre volte, a dipingere la parete. Per pennello usava un cucchiaio alla cui estremità aveva posto la lana del materasso che intingeva in acqua sporca di ruggine. Stava iniziando un ritratto. Con movimento sicuro tracciò il cerchio di una pupilla. Poggiai il vassoio e credo gli chiesi se cercasse compagnia in quel volto. Lui fece un gesto, lo ricordo bene perché mi colpì, si avvicinò alla parete che stava disegnando e la carezzò, come fosse una guancia.
Mi guardò e per la prima volta mi rivolse la parola, mi chiese se avessi, invece, io voglia di fargli compagnia.
Non saprei dire se m’impietosì o ipnotizzò. Il suo sguardo non era normale, ma pesante e fisso su di me. Temevo riuscisse a leggermi dentro, mi lasciai cadere sul bordo del letto.
Spezzò il pane e assicurò nelle mie mani la metà. Nei suoi gesti, nelle sue movenze non riconoscevo più quell’uomo che tutti dicevano diavolo, non ravvedevo la potenza, la cattiveria della persona entrata quattro anni prima nella fortezza inespugnabile, nell’isolamento più totale, fuori dal mondo; come me, il suo carceriere.
Mi chiese se avessi famiglia o una donna da cui tornare. Feci segno di No. Pensai che ero l’unico amico del diavolo, condannati entrambi al carcere a vita.
Non rammento le parole precise, ma parlò della felicità, diceva risiedesse nella capacità di volere quel che si ha. Eravamo dunque felici?
Non gli importava neanche della libertà, un valore, secondo lui, sopravvalutato che i potenti erano pronti a difender con sangue vergine; la ricchezza, poi, quella era solo un abbaglio creato per celare la verità. L’ascoltavo non perdendolo mai di vista e nel mentre mi ripetevo che se quell’uomo potente era mio amico, allora forse potevo essere potente anch’io.
Camminava lentamente dalla finestra al letto, con soli quattro passi percorreva l’intero perimetro della cella. Per molti era stato solo un truffatore, per altri un alchimista ed ancora: filosofo, matematico, astronomo, teologo, taumaturgo, linguista, orafo, musicista, massone e addirittura mago.
“Sa quante vite ho avuto?”, chiese nascondendosi il viso tra le esili mani. Non risposi, strappai con i denti un pezzo di pane e aspettai che proseguisse.
“Non mi dico innocente, ma la mia unica colpa si chiama amore, un amore malato come tutti gli amori” bevve un sorso d’acqua e riprese il racconto “La conobbi che non aveva quindici anni, era bellissima. Da quando fu mia, non smisi mai di ringraziare il cielo e mai di tremare per il timore di non meritarla. Volevo essere sicuro che fosse mia e solo mia perché lo meritavo e non solo per la sua giovane età. Fu così che la spinsi nelle braccia d’altri uomini, solo per riempirmi il cuore vedendola tornare da me”, il diavolo s’interruppe, forse anche lui aveva bisogno di coraggio per ricordare, per proseguire la sua storia. “Le presentai un russo, nelle passeggiate e nelle sue lussuose stanze conobbe ricchezza e nobiltà, ma lei tornò ancora da me. Il mio amore era una leva pronta a sollevare il mondo. Il secondo fu un avvocato francese, nelle sue carezze trovò l’onestà, ma chiese di tornare con me. Finalmente capivo ogni cosa. Il nostro amore era allora pronto, pronto per essere professato a tutti, cantato in ogni parte del mondo”.
Il diavolo si alzò dalla rete e mi fece strada tra quelle poche mattonelle accompagnandomi fuori dalla sua cella, poi proseguì: “Venne la volta del famoso Casanova, lasciai sola con lui la mia sposa, tra le sue lenzuola trovò l’avventura e la leggenda e ancora in lacrime tornò. Le giurai che sarebbe stata l’ultima volta, ma non fu così. Un giorno, però, mi convinse a tornare a Roma e scappò. Il resto è noto: mi denunciò, dovette pensare che l’unico modo per fuggirmi fosse mettere mura e ferro tra noi”.
Coprendosi il volto con le mani, chiese di essere lasciato solo. Chiusi la porta augurandogli una notte serena, lui raccolse il pennello e con un cenno del mento annuì.
Il mattino seguente, poco prima di mezzogiorno entrai nella cella, mi sembrò ancora addormentato, provai a svegliarlo, ma il suo cuore aveva cessato di battere. Tra le dita stringeva ancora il suo cucchiaio. Sulla parete, il volto di una donna ci sorrideva. Lei era tornata ancora una volta.
Giuseppe Balsamo alias il Conte di Cagliostro fu sepolto fuori da luogo sacro sul monte della fortezza di San Leo il 28 Agosto 1795.
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