… e poi c’erano i consigli di lettura

A volte faccio conversazioni immaginarie col subcomandante Liguori.
– Santoni, è un po’ che non fai recensioni.
(il Subcomandante reale in realtà è troppo un signore per spaccare le palle chiedendo post, ma il mio Subcomandante interiore è fatto così. La maieutica di quello vero è più sottile, per esempio porta in qualche modo la gente a fare conversazioni responsabilizzanti con una proiezione immaginaria di sé)
– Eh ma come faccio, c’è la promozione di In territorio nemico, ottanta date e rizzati, c’ho da finire due libri…
– Un pezzo breve lo potresti anche fare.
– Ma c’ho le riedizioni dei vecchi libri, gli articoli per il giornale… Tra un po’ c’è Torino una sega 3 e io non ho neanche letto i libri presi al Salone…
– E da maggio ti saranno arrivati una ventina almeno di pacchetti dagli uffici stampa.
– Più i pdf…
– E mi vorresti dare a bere che di tutta quella roba non hai letto niente?
– Giusto quelli che mi sembravano più interessanti…
– E lo erano?
– Alcuni sì, ma non ho tempo di strutturare una recensione, di riprendere in mano i testi…
– E allora fai un post di consigli di lettura.
– Dici che è utile?
– Se è utile? Ma lo vedi quanta roba esce? Le case editrici da un lato piangono miseria, invocano diradamenti delle uscite, auspicano maggiore attenzione per la qualità, e dall’altro continuano a intasare le librerie con fiotti di libri ogni tre mesi, nella speranza che uno faccia il miracolo, e per gli altri c’è immediata l’oscurità…
– Se vuoi un pezzo sul mercato editoriale chiedi a Carolina Cutolo, a Federico Di Vita… Non so, a Christian Raimo…
– Voglio un pezzo di consigli di lettura. La gente esige consigli di lettura. È arrivata anche l’estate. Sai, una cosa tipo letture sotto l’ombrellone. Non vorrai mica consegnare gli ombrelloni a Dan Brown?
– E sia, Liguori interiore, e sia. E dato che siamo qui a far dialoghi immaginari, per prima cosa consiglio la lettura di Mio salmone domestico di Emmanuela Carbé, curioso testo che inaugura una nuova direzione per la collana Contromano di Laterza, sia perché Carbé è esordiente assoluta, sia perché Mio salmone domestico (titolo completo: Mio salmone domestico. Manuale per la costruzione di un mondo, completo di tavole per esercitazioni a casa) è un romanzo del tutto atipico

[devo interrompere. Sto scrivendo questo pezzo al Caffè Notte ed è passato per l’appunto Di Vita, e mi ha detto di leggere assolutamente Matteo Galiazzo; io che ho cominciato a scrivere a fine 2004, non ho la minima percezione di cosa sia accaduto nella narrativa italiana gli anni subito precedenti – ricorderà il succitato Raimo la meraviglia che provavo di fronte alla libreria di casa sua, così ricca di romanzi italiani usciti tra il ’94 e il 2004, volumi usciti per i più grandi editori, magari buoni, forse eccellenti, i nomi dei cui autori erano già completamente dimenticati, oppure al massimo echi captati in un commento su Nazione Indiana, nelle note di qualche vecchia Leggi il resto dell’articolo

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Potere alle storie – Liguori intervista Santoni

di Gianluca Liguori

Ho incrociato per la prima volta Vanni Santoni su myspace, era il 2008: incollava con costanza impressionante l’immagine di copertina e lo spottino de Gli interessi in comune su ogni bacheca; spuntava dappertutto.
Dopo esserci scambiati qualche mail e partecipato a un’antologia insieme, ci conoscemmo di persona, l’aprile dell’anno successivo, a una presentazione de Gli interessi in una libreria a San Lorenzo. Lo invitai – quella stessa sera avevamo un reading al Simposio – a venire a leggere un paio di brani insieme a noi. Così, dopo un kebab dal Sultano, Santoni e le sue storie conquistarono il pubblico di Scrittori precari. Quello che più lo sorprese fu la capacità di quattro autori sconosciuti di organizzare reading seguiti da un pubblico attento di trenta-quaranta persone; a Firenze, disse, era una cosa impensabile. Si finì, dopo la lettura, a tirar mattina, pub dopo pub, cercandone uno nuovo man mano che chiudevano, mentre si chiacchierava di New Italian Epic e Wu Ming, Saviano e Cosentino, blog e romanzi e scrittori e letteratura. Da allora, ogniqualvolta gli era possibile, Vanni era presente ai nostri reading. E così, quando Dimitri ideò Trauma cronico, lo volle nella banda, malgrado poi abbia potuto prendere parte soltanto a due performance. In questi anni di reciproche letture e continuo scambio di idee, oltre alle numerose collaborazioni, è venuto a crearsi anche un bel rapporto d’amicizia. E dal momento che i tipi di Tunué gli hanno affidato una nuova collana di narrativa italiana, ne approfitto per fare – in questo ultimo post del 2013 – una chiacchierata con lui per i lettori del nostro blog.

GL: Ciao Vanni, a che punto è la tua clonazione? Scrivi sul tuo blog che stai lavorando a tre romanzi, ad aprile esce il romanzo SIC e scrivi sul Corriere Fiorentino, su Orwell e su numerosi blog (SP, NI, MM). Quando dormi? Leggi il resto dell’articolo

L’economia come scienza umanistica /5

Ultima parte – continua da qui.

 

SELF-MONITORING E ORGANIZZAZIONE : SPECIFICITÀ OPERATIVE.

Alla luce dei significati attribuiti nella definizione del dominio della variabile self-monitoring, è possibile allontanarsi da una dimensione puramente concettuale per sottolineare la valenza pratica, direi quotidiana, di una diffusa consapevolezza organizzativa delle implicazioni della presenza di individui self-monitors nei gruppi di lavoro.

Social networks e self-monitoring : implicazioni per la workplace performance

Numerosi sono gli studi in letteratura che indagano le relazioni tra posizioni e vantaggi strutturali, variabili di personalità e job performance. Una recente ricerca (Mehra, Kilduff, Brass, 2001) ha esaminato gli impatti dell’orientamento al self-monitoring e della posizione in una rete sociale sulla workplace performance. Leggi il resto dell’articolo

Se fossi fuoco, arderei Firenze

Se fossi fuoco, arderei Firenze (Laterza, 2011)

di Vanni Santoni

Non avendo io patente di critico letterario, per giudicare un libro mi sono inventato un metodo infallibile nelle vesti di accanito lettore: quella che definirei la prova acustica (il che comprende la valutazione del ritmo e della tonalità: e della storia in quanto struttura e della lingua), ovvero la lettura ad alta voce, preferibilmente con qualcun altro che ascolti – anche se già so che c’è chi mi obietterà che leggere un libro è un atto per definizione solitario, e che così facendo metto il testo alla prova in una sua dimensione per così dire teatrale: ma tant’è, a me piace che l’effetto si propaghi. Per essere ammesso alla prova un libro deve essermi piaciuto davvero tanto (ed è questo il caso), al punto che io abbia voglia non solo di rileggerlo, ma di farne partecipi anche altre persone – e dunque, per rispondere a coloro di cui sopra, che io ne abbia già apprezzata la lingua e lo stile, ma non solo: anche la struttura della storia – al punto, mi ripeto, che mi venga voglia di rileggerlo.
Ecco, lasciamo adesso in disparte le mie tecniche di lettura e ripartiamo da qui: da come Vanni Santoni organizza la sua materia.
Forte dei suoi precedenti – Personaggi precari (RGB, 2007) e Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008) – si può dire che l’autore continui il suo percorso su un binario ben definito: l’idea, cioè, che la trama sia l’effetto delle azioni compiute dagli attori (coloro che appunto agiscono) e che dunque non possa prescindere dai personaggi – in questo senso potremmo leggere la sua prima opera come la vera e propria configurazione di un metodo (eccolo che ritorna), come d’altronde si può constatare seguendo il suo blog. C’è insomma qualcosa di teatrale, ma ancor più cinematografico, nella scrittura del Santoni, che d’altronde è tra i fondatori del metodo (ancora!) SIC – ma non attendetevi effetti speciali o robe del genere, che l’autore voglia insomma stupirvi tralasciando il resto, perché è una scrittura tutta letteraria la sua, altroché: una scrittura che pedina i propri personaggi (era già così nel romanzo precedente) e che ne ruba anche la lingua, disseminata di toscanismi che esplodono in vere e proprie schegge di fiorentino quando è la volta dei dialoghi.

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SP intervista TQ – parte prima

Il dibattito su Generazione TQ ha tenuto banco in quest’estate 2011: se n’è parlato tanto e ovunque, a cominciare dal primo articolo, Andare oltre la linea d’ombra, apparso sul Sole24ore, per proseguire su tutti i quotidiani nazionali e tantissimi siti e blog; molti hanno aderito, tanti altri si sono dimostrati scettici nei confronti dell’iniziativa. Dal momento che su Scrittori precari abbiamo ospitato diversi interventi più o meno critici, ci è sembrato giusto dare spazio, ponendo loro alcune domande, anche a due dei firmatari dei manifesti: Alessandro Raveggi (AR) e Sara Ventroni (SV).

SP: Partiamo dall’etichetta. Perché l’uso del termine “generazione” e in che cosa vi sentite di essere rappresentativi di tutte quelle persone che hanno oggi un’età compresa tra i 30 e i 40 anni? Non è limitante e limitativa questa “selezione aprioristica”? Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità occulta

Io lavoro per una casa editrice. Mi chiamo Giovanni ed ho i peli sulla schiena. Il mio lavoro è un part-time dal lunedi al giovedi, dalle 7 del mattino alle 10 e dalle 12 alle 14. Nelle due ore di buco non passo fare nulla di che, ma sono libero e mi godo la mia libertà. Di solito mi appoggio in libreria e mi leggo i romanzi a puntate. Dico a puntate perché mi leggo ogni giorno una ventina di pagine dello stesso libro. Entro alla Feltrinelli, mi sorseggio un the e mi sfoglio le pagine di qualche classico, tutti libri che poi non compro, tanto stanno lì, come se fosse una mia libreria personale, me li leggo pian piano ma senza acquistare mai nulla, li considero miei. Il mio lavoro consiste nel prendere la metro, arrivare al copolinea, uscire dal vagone, prendere la stessa metro ma in direzione opposta, arrivare all’altro capolinea, cambiare linea metro ed arrivare al capolinea della seconda linea metro, uscire dal vagone e ritornare indietro. Così ogni giorno dalle 7 alle 10 e dalle 12 alle 14. Naturalmente non devo fare solo questo, io lavoro per una casa editrice, una di quelle “famose”, di quelle che “vendono”, di quelle che hanno autori che vanno in tivvù, quindi, una volta in metro mi devo ricordare di tenere bene in evidenza il libro che sto leggendo, solitamente mi affidano le nuove uscite. È pubblicità subliminale. Devo essere come un attore: devo saper piangere se il libro è drammatico, devo ridere fino alle lacrime se il libro è comico, devo spaventarmi ed ogni tanto chiudere il volume (come se fosse posseduto dal demonio) nel caso si tratti di un romanzo horror, devo mettere in evidenza la mia erezione se sto leggendo un libro erotico, devo iniziare a parlare di luoghi comuni e malcostume italiano con il malcapitato vicino, se sto leggendo un saggio politico di qualche giornalista televisivo. È un lavoro semplice e redditizio che mi permette di vivere decentemente. Siamo parecchi a fare questo lavoro, solo nella mia casa editrice ne siamo una decina. Quindi: quando vedrete un ragazzo che nella metro è immerso in qualche lettura e sembra pure soddisfatto di quello legge, pensate pure tranquillamente che si tratti di un pubblicitario.

Angelo Zabaglio e Andrea Coffami

Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro

SERVI. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro (Feltrinelli, 2009)

di Marco Rovelli

Poi mi accompagni alla macchina e mi dici: “Mi piacerebbe sapere meglio l’italiano, sai la lingua è un problema, non capisci mai fino in fondo, e nelle cose il gusto è in fondo”, e già è il primo regalo che mi porto dietro nel viaggio, e poi mi lasci dicendo: “In patria ormai sono straniero, quando torno al paese non mi piace più andare a rubare la frutta sugli alberi”, e questa immagine perfetta del tuo sradicamento la porto con me, in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso. (p. 106)

Vi ricordate degli “italiani brava gente”? Quelli che hanno permesso il boom economico del dopoguerra e che sono conosciuti in tutto il mondo per il loro estro e la loro fantasia? Quegli stessi che sono emigrati in massa a cercar lavoro, in America o nel resto d’Europa, e che in materia di discriminazioni dovrebbero saperla lunga?

Forse no, perché il popolo italiano pare avere la memoria corta, o forse fa finta di non averla affatto, grazie a quella stessa capacità istrionica di saper ribaltare la realtà dei fatti che lo contraddistingue da sempre. Anni e anni di trucchi e sberleffi ci hanno ormai abituati a identificare ciò che conviene con la realtà dei fatti, che poi è un altro modo per dire che chiudiamo volentieri gli occhi dinanzi a ciò che non ci piace vedere. Anzi, per non dover neanche sostenere lo sforzo di abbassare le palpebre, ciò che è sconveniente lo rendiamo direttamente invisibile, relegandolo in uno spazio cieco, per poi illuminarlo solo quando ci torna utile.

È quanto più o meno succede da anni nei confronti dei clandestini, ché riconoscere una massa di nuovi servi nel paese del Rinascimento sarebbe poco meno che bestemmiare, o giù di lì.

Marco Rovelli, in quello che la quarta di copertina definisce un “reportage narrativo”, gli occhi non li chiude, anzi, ci restituisce con la sua scrittura il viaggio allucinante nel mondo della clandestinità made in Italy, di cui la legge (e quindi lo Stato) è diretta produttrice. L’autore fa quest’opera di scavo – nella lingua, nella vita – necessaria a gettare una luce sui vasti coni d’ombra di un’economia italiana fatta ancora di braccianti e di subappalti che moltiplicano i cantieri di lavoro nero.

Come non capire, leggendo le storie qui riportate, a chi convenga mantenere gli immigrati in situazioni d’irregolarità per sfruttarli a condizioni lavorative inumane? Forse molti di noi già lo sanno, o intuiscono come vanno certe cose, ma conviene far finta di non saperlo. Conviene a noi italiani, soprattutto. E allora è necessario un libro – ebbene sì, anche loro, a volte, sono ancora necessari – per andarci a sbattere contro queste verità: un libro che restituisca la parola e un volto, o dei gesti, a chi solitamente non ne ha.

Rovelli riesce magistralmente in questo lavoro, assieme geografico e geologico, che è sì un reportage (la geografia di un’Italia sconosciuta), ma al tempo stesso anche un romanzo in cui la voce narrante è il prodotto dell’incontro tra l’autore e i propri temporanei compagni di viaggio. Un libro, soprattutto, in cui ci si rivolge in seconda persona nei confronti di chi non viene mai interpellato, di chi spesso non ha neanche un nome. Difatti, in più d’una di queste storie si riscontra questo stupore dell’altro – il clandestino – davanti alla disponibilità all’ascolto . Non si tratta di compassione, bensì di rispetto, quello a cui dovrebbe avere diritto ogni essere umano, ma che sembra roba da marziani in un paese che non conosce più il rispetto neanche per se stesso; in un paese che perde volentieri la memoria, come ci ricorda Maloud, che non si capacita di come gl’italiani non si rivedano nella situazione che investe oggi i nuovi emigrati, bloccati in questa terra di nessuno e stranieri in ogni luogo. Prigionieri in Italia, dove non gli vengono riconosciuti i propri diritti; prigionieri nel proprio paese, dove non possono rientrare sia per motivi politici (possibili ritorsioni o persecuzioni), sia a causa di una legge kafkiana che li mette in condizioni di irregolarità perenne. E lo dice uno come Maloud, che è fortunato, perché per via della pelle chiara, il capello biondastro e gli occhi chiari non lo prendono per maghrebino. Eppure anche per lui l’integrazione resta un sogno, perché quando gira con i suoi amici marocchini vede la gente che c’ha paura, che si stringe la borsa al corpo. E se lo dice uno come Maloud, che forse l’Italia non è quell’America che tutti si credono prima di partire, c’è da credergli, perché all’interno di questo libro la sua storia sembra la più normale, o forse è soltanto perché sono le altre ad essere allucinanti oltre ogni immaginazione. Proprio come in quest’Italia, dove la realtà sembra ogni giorno di più uno sceneggiato girato male, ma dove chi viene costretto a pagare, alla fine, paga davvero.

Simone Ghelli

Face to Face! – ‘Ala Al-Aswani

Dopo Palazzo Yacoubian ‘Ala Al-Aswani torna a parlare del mondo arabo, della sua cultura, dei suoi paradossi e dei sentimenti che animano un paese difficile e affascinante. Stavolta però cambia la scenografia, cambiano le strade e le voci sono quelle degli immigrati che popolano la piccola Egitto americana che è nata a Chicago. Città dell’università in cui si incrociano le strade dei protagonisti e titolo dell’ultimo libro di ‘Ala, incontrato in una splendida mattinata romana davanti a molte tazze di caffè.

Questo libro parla del “Mal d’Africa” in un certo modo?

Può essere un aspetto del romanzo anche se in realtà il libro apre a prospettive più ampie su quelle che sono le esperienze della sofferenza umana in generale. Aspetto che poi si riscontra in tutti i personaggi.

“La libertà ha un prezzo” viene detto in Chicago, qual è il prezzo che devono pagare i suoi personaggi e quale quello che dovrebbe pagare il suo paese?

Vorrei innanzitutto dire una cosa: io non mi ritengo responsabile di quello che dicono i miei personaggi nel libro, nel senso che io non esprimo una mia opinione per mezzo di loro e del mio romanzo. Personalmente posso trovarmi in pieno accordo o in pieno disaccordo con le loro opinioni, ma non sono le mie idee ad essere espresse per bocca loro.
Detto questo, mi trovo pienamente concorde con l’affermazione che fa il mio personaggio. Ovviamente questa non vale solo per gli egiziani o gli arabi, non è una problematica legata prettamente a loro ma a tutto il genere umano: tutti i popoli hanno dovuto pagare, nella storia, un prezzo per ottenere la propria libertà. Compreso l’Egitto che ha subito il colonialismo inglese per 90 anni e che ha pagato un altissimo prezzo di sangue per ottenere la sua indipendenza.

Chicago è una specie di atto di fede continuo: nella medicina, nello studio, nei ricordi, nella religione. Cos’è per te la fede?

Credo nei valori umani. Credo nell’essere umano e questo è prettamente correlato al discorso della letteratura perché tutte le cose di cui hai parlato si ritrovano nel romanzo in quanto io cerco di produrre la vita sulla carta nei miei libri.
Giangiacomo Feltrinelli pronunciò una frase molto bella, lui che, come ben sappiamo, è stato un comunista rivoluzionario e ha condotto una vita d’onore, disse “Io conosco soltanto due tipi di romanzo: il romanzo vivo e quello morto”. Ecco io sento questa frase molto vicina alle mie idee. Quando scrivo cerco di scrivere un romanzo vivo, che affronti ogni genere di problematica.

La tua è quindi una fede nella vita come flusso di ricordi, esperienze che si riversano nello scrivere?

Impariamo una cosa molto importante nella letteratura: possiamo essere tutti diversi ma condividiamo gli stessi valori, o meglio , stessi sentimenti, desideri e dolori e se diamo uno sguardo alla storia vediamo che ci sono state guerre e lotte tra popoli in nome di questo scibile umano. Ma tutte queste lotte, essenzialmente ci conducono a quella tra il lato umano e il lato non umano della vita. Per lato umano intendo dire la difesa di valori come la democrazia, la libertà d’uguaglianza contro il non umano della dittatura, del terrorismo, del potere. Credo nella vita e nella lotta per essa.

Pur mantenendo, chi più chi meno, la propria coscienza etnica, religiosa, i tuoi personaggi hanno una specie di incapacità all’integrazione con la nuova società che gli accoglie. A volte sembrano rassegnati ad uno status quo impostogli o auto imposto. Perché?

Innanzitutto ci tengo a dire che i miei personaggi non rappresentano modelli sociologici, sono quello che sono: creazioni letterarie. Questo è molto importante proprio perché, in quanto tali, sono frutto dell’ispirazione di uno scrittore e quindi non ci si può aspettare di trarre delle conclusioni dai loro comportamenti nel tessuto narrativo, mentre invece le conclusioni si possono giustamente trarre guardando i modelli sociologici.
In questo romanzo ho presentato figure di immigrati che non sono riusciti ad affrontare, ad adattarsi a questa nuova cultura che li accoglieva. Questo però non collima affatto con la mia esperienza perché conosco moltissimi immigrati che si sono integrati perfettamente.
Due dei miei personaggi vivono un conflitto molto forte tra quello che è il loro retaggio culturale e la loro tradizione con la nuova cultura nella quale si trovano inseriti. La formula dell’inserirsi mantenendo le proprie radici non è impossibile, ma loro non ci riescono.

Se ti chiedessero di scrivere un libro scegliendo uno dei tuoi personaggi quale sceglieresti e perché?

È una domanda molto difficile perché scegliendo un personaggio andrei ad escludere tutti gli altri e per me è impossibile perché questi personaggi nascono dall’esigenza di essere presentati, di essere introdotti nella storia. Nascono dalla stessa motivazione di essere raccontare e farsi raccontare, allora a questo punto se dovessi scrivere un libro su un solo personaggio non sceglierei tra quelli già vissuti ma lo creerei ex novo.

Una frase dice “Era stato come se avesse voluto seppellire la sua pena dentro di lei”. La donna è una grande protagonista in ‘Chicago’, un contenitore di emozioni proprie e altrui. Come viene visto il mondo femminile dai tuoi occhi?

La donna svolge un ruolo importante, anzi importantissimo, non solo nei miei romanzi ma nella mia vita naturalmente. Devo dire che io sono molto di parte per quanto riguarda le donne, perché le trovo delle creature incredibilmente creative, degli esseri umani incredibili. Come medico so che la vita “nasce” dall’uomo ma poi si “sviluppa” nella donna e questo è molto, molto significativo in quanto la donna ha un talento per tutte quelle che sono le comunicazioni nel mondo e con il mondo, una sensibilità decisamente superiore. Preferisco avere a che fare con le donne nella vita proprio per questo in quanto rarissime volte mi trovo ad avere difficoltà a comunicare cono loro e poi, quando scrivo, nel momento in cui mi trovo di fronte ad un personaggio femminile e al suo sviluppo, la scrittura diventa più fluida, probabilmente questo è dovuto all’energia dinamica che possiede la donna e che riesce a trasmettere.
Ritengo che la donna finora abbia ottenuto molto meno di quanto si meriti e non solo nel mondo arabo, ma ovunque. Dobbiamo arrivare al punto in cui la donna deve essere vista come la meravigliosa creatura che è senza distinzioni sessiste di nessuna specie.

Possiamo parlare di redenzione nel tuo libro?

Qualsiasi buon testo letterario e spero che questo lo sia, deve essere letto a livello stratificato quindi c’è anche questo desiderio però non ho un vero e proprio controllo sui miei personaggi dall’inizio alla fine del lavoro. Io li creo, li porto alla vita ma poi smetto di avere le redini e inizio a seguirli, a leggerli e portano a compimento la loro esperienza, la loro volontà, trovando o no la loro strada, la loro redenzione.

Sei quindi uno scrittore “grande fratello”.

(Ride) Sì e alcune volte sto simpatico ai miei personaggi mentre altre volte diventano molto aggressivi.

Cosa ci vuole per produrre vita sulla carta per te?

All’inizio ho scritto una novella e due raccolte di racconti e mi ci sono voluti dieci anni per scrivere il romanzo, che è la forma più complicata se vogliamo di narrativa e ho verificato i programmi che si seguono nei corsi di scrittura creativa, anche se non ho mai frequentati e ho scoperto che non esiste una formula precisa per scrivere. Ho tentato e fallito molte volte nell’arco di questi dieci anni perché spesso mi sentivo davanti ad un testo morto e per questo mi è piaciuta molto la frase di Giangiacomo Feltrinelli. In quei momenti mi fermavo per poi tornare a riprovare, ma è stato un processo lungo di tentativi e fallimenti.

Dopo aver messo la parola fine ai tuoi romanzi, cosa auguri ai tuoi personaggi?

È un’esperienza strana. Ho lavorato per due anni e mezzo tutti i giorni e alla fine avrei dovuto mettere tutto su cd per mandare in stampa ma per due settimane ho rimandato, procrastinavo. Ad un certo punto mi sono fermato per capirne il perché e ho individuato tre sentimenti: il primo un senso di grande orgoglio, il secondo una condivisione quotidiana della vita dei miei personaggi e ora la separazione imminente e alla fine mi sono sentito come al giorno delle nozze di una figlia, un giorno di gioia ma anche di lacrime perché sai che dovrà vivere la sua vita e le si deve augurare il meglio.
Ho provato queste sensazioni con ogni mio lavoro ma ne ho preso consapevolezza solo con quest’ultimo.

Detto tra noi, i tuoi personaggi si farebbero curare una carie da te?

Essere un dentista mi ha permesso di sviluppare grandi contatti umani e amicizie. Ho molto a cuore i miei pazienti e quello che mi raccontano quindi penso di sì.

Alex Pietrogiacomi

Comunicazione di servizio:

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