I*

Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

La società dello spettacaaargh! – 16

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10 – 11 – 12 – 13 – 14 – 15]

Caro Jacopo,

torno molto volentieri sul libro di Federica Sgaggio: è un libro molto denso, nel recensirlo ho potuto scegliere solo alcuni nuclei tematici del libro e, come suggerisce la tua interessante espressione «eros per la logica», solo alcuni nuclei emotivi. Forse, a proposito della tua espressione, essa sintetizza ciò che manca a volte nella filosofia, la capacità di esprimere l’autenticità del sentimento che muove verso il sapere, dando forma e vita all’etimo del termine. A giudicare dalla dedica e dall’introduzione del libro (o anche da questa intervista), quell’eros nasce per una considerevole parte dall’esperienza in redazione, dal contatto con quegli ambienti che nel giornalismo vengono prima delle retoriche messe su carta (o su una pagina web), e forse questi aspetti avrebbero bisogno di essere raccontati e testimoniati al pari di quelli linguistici.
Ma è un altro aspetto quello che mi ha maggiormente colpito.

Leggi il resto dell’articolo

La società dello spettacaaargh! – 11

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10]

Caro Matteo,

ho ragionato un po’ sulla tua analogia tra piani meta- e geometrie di Escher: non era proprio così che me l’immaginavo, e questo mi ha portato ad analizzare meglio il concetto, che avevo delineato in modo approssimativo e frettoloso.
Con “inerpicarsi di piani meta-” intendevo ciò che scopriamo in quelle discussioni che finiscono quasi subito per vertere su cosa si è detto, sul perché lo si è detto, sul fatto che lo si è detto (talvolta addirittura qui, si finisce) etcetera; meta-discussioni, insomma, spesso snervanti, che sono favorite dall’epidemica comunicazione in forma di trolling (e in generale da quel fenomeno della comunicazione nel quale Mario Perniola ravvisa il discorso psicotico): il discorso del troll è talmente disgregato – spesso inconsapevolmente – e superficiale – nel senso proprio che pare un’increspatura della superficie – che la prima cosa che ti viene da fare è chiedere conto dei presupposti, tentando di mostrare al tuo interlocutore quanta complessità e quanto pervertimento dei significati si celino in quelle che lui pretende essere verità lapalissiane. La cosa interessante è che ai suoi occhi è il tuo meta-discorso che inerpica piani meta- e si allontana dal reale, mentre per te il tuo meta-discorso non fa che scoprire, a ritroso, in direzione del reale, la somma di piani occultati sui quali il discorso del tuo interlocutore si muove: l’impressione prodotta nel tuo interlocutore dal tuo meta-discorso, di un ulteriore allontanamento dal reale, è causata dal fatto che stai spostando l’attenzione dalla realtà dell’originario oggetto del dibattere alla realtà dell’esistenza del piano meta-, che però, per chi vi si muove sopra, è occultato, quindi il tuo meta-discorso scade, agli occhi dell’interlocutore, a pippa. Leggi il resto dell’articolo

Rubrica che vieni, rubrica che vai

Slacrimuzzo.
Sembra ieri ch’erano appena finiti i mondiali, avevo scritto qualcosa pe “i mondiali dei palloni gonfiati“, mi ricordo mica si chiamasse così, quella rubrica, Liguori mi fa “e se scrivessi delle ròbe di pallone per tutto il campionato?”. Seh, penso, seh, tutto il campionato, pallone, seh, poi il primo pezzo, è un ritaglio di quotidianità pallonara, parla del posticipissimo del lunedì e del mio parrucchiere, del fatto che i parrucchieri di lunedì siano chiusi, del fatto che allora chi sforbicia di lunedì?, i calciatori, l’unica sforbiciata del lunedì, la loro e la mia che ne racconto le gesta, ah ah, delle copiose risate. Questo il panettone non lo mangia, pensava Liguori.
Ci siam fatti tutta la stagione.
Vi si vuole del bene.
Slacrimuzzo.

Fabrizio Gabrielli

Una volta c’erano le bandiere, calciatori che esordivano da ragazzi in prima squadra e finivano la carriera senza cambiare casacca. Molti di loro diventavano allenatori, dirigenti: un posto si trovava sempre. Erano altri tempi. Qualcuno dice: quelli sì che erano bei tempi. Oggi invece i giocatori simbolo sono in via d’estinzione. Siamo abituati a vedere fior di campioni trasferirsi dal Barcellona al Real Madrid, o viceversa, dal Milan all’Inter alla Juventus e così via, è tutto un valzer di carnevale, conviene, si fanno le magliette nuove, i tifosi le comprano, son soldi, cosa credete, mica amore, passione, attaccamento alla maglia e quelle robe lì. È il capitalismo, bellezza! Si stava meglio quando si stava peggio. Mogli e buoi dei paesi tuoi. Non ci sono più le mezze stagioni. Sì, ok ok, smetto. Dicevamo: le bandiere. Ve l’immaginate, chessò, Facchetti con la maglia del Milan? Certo che no. Rivera in nerazzurro? Neppure. Oddìo, è vero che Rivera quando ha smesso con il calcio e s’è buttato in politica, dopo l’esordio democristiano, ha militato poi in diverse formazioni politiche. Senza dubbio, era meglio come calciatore. I mondiali del ’70, pensaté, me li ricordo pure io che non ero ancora nato: la staffetta Mazzola-Rivera, Italia-Germania 4 a 3, Pelè che vola, su, più su, più in alto di tutti, colpisce la palla di testa che si insacca alle spalle di Albertosi, era solo l’antipasto, alla fine si prese quattro pippi e tutti a casa; il Brasile si portò la Coppa, quella coppa maledetta che non si sa che fine abbia fatto, se sia diventata davvero lingotti d’oro o dove sia finita. Le storie misteriose contribuiscono a creare il mito, ad alimentare la leggenda. Si leggevano, qui su SP, il lunedì, le storie sul calcio, a base di calcio, che sfornava per noi Fabrizio Gabrielli. Insomma, questo panegirico per comunicare che, finito il campionato, da oggi Fabrizio ci saluta, che il giorno odiato da Vasco qui su SP non ci saranno più le Sforbiciate, quelle che parlavano del giuoco del calcio e di tutto quel fracco di altre ròbe che rotola attorno alla sfera di cuoio più bastarda della storia umana. Lo so, vi mancherà, a me già manca la mail infrasettimanale con l’anteprima. Fidbeccami, scriveva sempre Fabbrì, come lo chiama Simonerò. E io fidbeccavo, segnalavo i refusi, le sviste e quelle cose che si fanno prima di pubblicare, ma non fatemici pensare altrimenti mi viene il magone e slacrimuzzo pure io.

Ciao Fabbrì, lo sai che quando vuoi, se scrivi nuove Sfò, me le giri, le fidbecco e le pubblichiamo, mica ci son problemi, che ci frega, facciamo come ci pare, lo spazio si trova, non sarà di lunedì, le pubblicheremo in un giorno pari o il venerdì, ma hai capito, dài, facciamo che poi, senza impegno, ogni tanto fai qualche incursione e insacchi una Sfò, i lettori ti aspettano e lo sai che i lettori non si deve mica deluderli, ti aspettiamo, la mia mail ce l’hai oppure ci sentiamo su feisbùc. Ah, dimenticavo: grazie Fabbrì, le Sfò ci mancheranno. Ci son piaciute, le Sfò, e pure tanto. E visto che siamo in un momento di ringraziamenti, non me ne vorrai se colgo l’occasione per ringraziare, a nome del collettivo, i tantissimi, sempre più, lettori che ogni giorno passano dal nostro blog, triplicati negli ultimi mesi, tanto da raggiungere, nelle ultime due settimane, addirittura una media di mille lettori. E allora grazie, mille grazie, e quale modo migliore, per ripagare la fiducia, l’affetto e il tempo dedicato a noi e agli autori che hanno collaborato e collaborano per far vivere questo spazio, che dare la notizia che è in arrivo, in esclusiva su SP, una bellissima sorpresa? Il prossimo lunedì i barbieri saran chiusi, il campionato è finito, le coppe pure, ma su queste pagine troverete una nuova rubrica che son certo ci offrirà importanti spunti di riflessione. La rubrica sarà curata da due autori che già in passato hanno trovato spazio qui: Jacopo Nacci e Matteo Pascoletti. L’idea di offrire loro una rubrica m’è venuta perché, spesso, leggendo o partecipando a discussioni su piazza Facebook, mi ritrovavo ad apprezzare, tra i commentatori più attivi, proprio Jacopo e Matteo. E allora, mi son chiesto, perché non chieder loro di scrivere qualcosa per noi? Dopo aver consultato gli altri, ho scritto loro, dicendo la mia idea, di questa specie di conversazione, di botta e risposta a settimane alterne. Per mia grande gioia, i due hanno accettato con entusiasmo la nostra proposta. Proviamo, s’è detto. Si comincia subito. Sul nome e sui primi argomenti che si toccheranno, per adesso, manteniamo massimo riserbo. Vi possiamo dire che si parlerà di libri e letteratura, politica e attualità, filosofia e tanto altro. Non mancate il prossimo lunedì, su Scrittori precari comincia la nuova rubrica di Jacopo Nacci & Matteo Pascoletti! Leggi il resto dell’articolo

GNAP! – la tecnica dello schiacciapatate

Riportiamo l’intervento di Jacopo Nacci comparso su Yattaran

Prima o poi mi deciderò a compilare e pubblicare un elenco delle fallacie e delle mosse retoriche subdole che si stanno propagando in Italia in questi anni in modo massiccio e preoccupante: basti pensare all’uso diffusissimo e spensierato dell’argomento a uomo o del processo alle intenzioni. Temo abbiamo a che fare con la prole deforme nata dalle Nozze di Relativismo e Televisione: si tratta di fallacie e mosse che il loro stesso substrato ideologico incorona come uniche forme retoriche moralmente legittime; il medesimo substrato ideologico, intanto, rovescia senza pietà argomenti e dimostrazioni nel cestino delle dialettiche immorali; tutto ciò sta trasformando una parte della popolazione in troll (nel senso internautico) e l’altra parte in soggetti schizofrenici costretti a interrogarsi e rispondersi da soli; se gli schizofrenici che si interrogano e si rispondono da soli mi fanno venire in mente Socrate in Gorgia 506c-507c, i troll mi fanno venire in mente – più che sofisti come Gorgia, Callicle o Polo – i puffi neri, o i film di zombie dove i virus si impossessano dei cadaveri; e credo sia significativo che, nella filmografia sugli zombie, gli zombie si siano fatti via via sempre più rapidi e aggressivi. Leggi il resto dell’articolo

L’inutilità del genio post-moderno /3

Dati i presupposti, non possiamo dimenticare l’importante affermazione che Giorgio Colli fa in La nascita della filosofia («La follia è la matrice della sapienza») e il fatto che i più straordinari documenti dell’antichità, oltre agli illusori testi filosofici (compromessi interamente con l’intangibile se non col folle) e ai reiterativi saggetti (che ruotavano sempre attorno alle stesse cose e sempre negli stessi termini), sono opere teatrali con personaggi che – per i motivi disparati – commettono quelle che oggi (come ieri, spesso) definiremmo “pazzie”: Edipo, Medea, Antigone, Elettra…

Perché il “gesto insano”, conducendo alla catarsi, è tramite per la divinità: come l’idiozia dostoevskijana, che è insania e vocazione mistica.

Tiriamo di nuovo le fila, altrimenti in questa selva di deduzioni e supposizioni potremmo sperderci, e vediamo cosa abbiamo in mano: unità spazio-temporali in dissolvenza, illusione, irrealtà, morbosità, follia, divinità.

Improvvisamente si crea un nesso, anzi, un’equazione:

letteratura : illusione = follia : divinità

ed ecco che nello sputtanatissimo legame fra letteratura e divinità si evidenzia un percorso che passa per la finzione (la nota “finzione letteraria”) e la follia (la “theia mania” platonica del Fedro). Tutti elementi abbastanza risaputi, ma raramente o mai esaminati nella loro sequenza.

Un nuovo quesito movimenta questo dipanarsi: visto che la letteratura è citazione (dovremmo dire “metafora”) della follia e perciò della divinità, data la letteratura corrente, a cosa s’è ridotta la divinità?

Ci sono dei legami nelle opere di autori lontanissimi e nelle opere – ovviamente – del medesimo autore.

E così: fra il Conte Ugolino e i due poveri amanti Paolo e Francesca c’è il legame del racconto in pianto; fra l’Ofelia di Rimbaud e la Marinella di De André c’è il fiume e l’amore di mezzo con stelle e fiordalisi di contorno; Jonson, il poeta del «Lascia un bacio dentro la coppa e io non ti chiederò vino», s’assomiglia nei modi e in alcuni tratti biografici al Catullo di «Odi et amo»; Zorba e l’Inglese di Kazantzakis altri non sono se non il Dionisio e l’Apollo di Nietzsche.

Lo strutturalismo, se vuol fissare delle Gestalt che si meritino questo nome, deve fare a meno di limiti e compartimenti stagni: la struttura del materiale culturale con cui opera dev’essere leggera e interscambiabile, levigata e pronta a combaciare con ogni cosa.

Quindi, la divinità sottesa (anche se involontariamente… involontariamente per gli autori medesimi, ovviamente) alla letteratura contemporanea non deve avere troppi legami e deve potersi accostare a tutto – esattamente come i personaggi e le situazioni di cui abbiamo parlato qualche riga fa.

I principi e i valori devono farsi trasparenti e volatili. Leggerezza, raccomandava Calvino nelle Lezioni americane.

Ma i principi sono anche la trama: sono spinte su cui si muovono i personaggi. Principi volatili danno personaggi inesistenti e plot cadenti.

Rispondiamo alla nostra domanda: la divinità – motore sotteso e originario delle letteratura – è svanita, o meglio s’è ridotta alla sua effige: la follia.

Ambiguità e ironia

Humbert Humbert, l’Abate Faria, Hannibal Lecter, il Vecchio della Montagna, Eraclito, Omero, Tiresia, Edipo, Buddha, il Mago di Oz, Nero Wolfe, perfino Babbo Natale: tutti questi personaggi (e molti altri affini) recano in sé delle tracce mai soppresse e sempre presenti in certe figure letterarie.

L’Oracolo in Matrix o la figura del profeta nei Libri Sacri o Sherlock Holmes: questi tre i grumi in cui, più che in altri personaggi, si sono mostrate le tendenze della letteratura occidentale.

Onniscienza. Ombra. Onnipotenza.

Tutti i personaggi che ho elencato poco fa hanno tre caratteristiche che manifestano singolarmente o accoppiate o nel complesso: vivono nell’ombra, intesa in senso lato (Holmes, per esempio, si traveste e vive immerso nel fumo o nella nebbia); sono, o sembrano, onniscienti; giocano con la vita e la morte perché sono immortali o perché si sentono tali oltre che onnipotenti.

Lo scrittore non s’è mai liberato di queste tre fascinazioni: il sapere, il vedere e il potere. Perché il sapere è anche potere, ma questa capacità di conoscenza (e dunque di dominio) si esplica meglio laddove gli altri non vedono: lo scrittore, così addentro alle parole, sente anche di poter manipolare come vuole i concetti, quindi la verità medesima, quindi – in ultima istanza – la vita degli altri. Perché gli altri sono ignoranti, perché non vedono, e dunque niente possono più di chi mette loro in bocca le parole di cui si servono come sonnambuli. Questa malattia degli scrittori, io la chiamo “sindrome di Polo”, dal nome del personaggio del Gorgia di Platone: consiste nell’immaginare di controllare tutto e di vivere in una trama solo perché si controlla il linguaggio, e lo spirito degli altri attraverso il controllo sul linguaggio.

Questa tendenza s’è estrinsecata, quantomeno in me, nel patologico citazionismo de Il volo interrotto, nel suo amore per l’ambiguità del dubbio dell’indeterminazione e dell’ombra, nel suo raffigurare omicidi che somigliano più a gesti quotidiani che ad attentati contro tutto ciò a cui siamo stati educati.

Ed è in fondo questo il principio di tutti i libri che si propongono oggi di essere “creativi”: l’omicidio, la conoscenza, l’ambiguità.

La generazione pulp sbandierava e sbandiera la violenza, i moderni giallisti la conoscenza, e tutti gli autori, nessuno escluso, l’ambiguità (che, per loro pochezza, s’è ridotta quasi esclusivamente ad ambiguità sessuale e non è molto di più della parodia di se stessa).

L’ambiguità siede allo stesso tavolo dell’ironia: dov’è finita l’ironia? Nei libri di oggi non ce n’è traccia.

Spostiamo allora la nostra attenzione su questi due ambiti: ambiguità e ironia.

Antonio Romano

Le strade della filosofia

C’è un posto, a Roma, dove a perdersi s’impara un bel pezzo di storia della filosofia.

La cronologia è arbitraria, a tratti casuale, zeppa di caselle vuote.

C’è una sola via maestra in questa storia, tracciata da Kant, che qua chiamano Kent, per dimostrare d’aver speso bene i soldi in ripetizioni d’inglese.

L’altra grande arteria è dedicata all’inventore del comunismo. Pensate: viale Marx è la strada delle attività commerciali, in comproprietà con piazzale Hegel; un vero schiaffo morale ai principi del pensiero razionale.

A Diderot hanno invece dedicato un budello di strada, troppo corta anche a farla a piedi. Sembra che gli abbiano applicato la legge del contrappasso, come punizione per la mania delle enciclopedie.

Nel piazzale adiacente a via Comte ci fanno invece il mercato del mercoledì, ché per i sociologi è un ottimo campione da intervistare.

Da quando ci lavoro, poi, parcheggio a colpo sicuro in via Locke, in ottemperanza agli insegnamenti del filosofo inglese: «Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro». E infatti, i colleghi mi consigliano sempre di cercare più in là, in Largo Russel, a me che di logica non c’ho mai capito nulla. E perché non in via Jaspers, vi chiedo, ché almeno troverei una risposta alle mie paranoie.

La prima volta che mi ci persi, di notte, non riuscivo a venire a capo di questo girotondo di strade che si prendevano gioco del mio pensiero. Alla terza volta che incontrai il nome di Schopenauer, cominciò il vero tormento, alimentato da una sua famosa citazione: «La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia».

Mi venne davvero la paura di non uscirne più fuori, d’esser costretto a convivere col buio della mente, ancor più nero per via del diluvio che prese a scendere dal cielo. Che fine avevano fatto gli illuministi, quel Rousseau e quel Voltaire che la mia mappa indicava chiaramente?!

In questo stato, continuai a guidare la mia auto senza incontrare anima viva, e a mie spese scoprii quanto incerto e solitario possa essere il cammino del filosofo.

Mi sentivo a tutti gli effetti una monade, soprattutto quando raggiunsi via Leibniz senza neanche sapere come. Qui fu Lessing a venirmi in aiuto, per quanto anch’egli fosse stato tributato d’un tratto di strada assai risicato: «Un uomo che non perde la ragione per certe cose, non ha una ragione da perdere».

Di lì presi in Largo Bacone, poiché se è vero che «il dominio dell’uomo consiste solo nella conoscenza», non potevo che arrendermi alla massima seguente: «Nessuna forza può spezzare la catena delle cause naturali; la natura infatti non si vince se non ubbidendole».

E così m’infilai in una sorta di giostra, chiaramente frutto dell’ingegno dell’uomo, che prende il nome di via Cartesio; una strada che fa come un cerchio, ma interrotto da entrambe le parti. E di lì ripresi per l’inverso, e ancora e ancora, ripercorrendo non so quante volte gli stessi nomi, gli stessi concetti. Strano che non vi fosse traccia di Nietzsche, pensai tra me e me: adesso passerò l’intera mia vita a girare tra queste stesse idee; finché all’ennesima svolta non incontrai per caso un nuovo concetto, ubicato in via Spinoza, che è poi il solo modo di «attraversare la vita non con paura e pianto, ma in serenità, letizia e ilarità».

In fondo a quella strada intravidi una luce, che non era certo quella di Dio, bensì dei lampioni di viale Kant; ma per me, anima in pena, lo stesso una salvezza.

Adesso che ci lavoro, poi, in quella zona, ho pure pensato che la filosofia allora a qualcosa serve; ma per carità, non vorrei ritrovarmici ancora di notte. Per non spaventarvi oltre il lecito, non v’ho infatti raccontato delle bizzarrie cui andai incontro in piazzale Montesquieu… cose che a parlarne oggi, c’è davvero da non crederci…

Simone Ghelli

Face to Face! – Percival Everett (2)

Inseguire Everett. Questo ormai faccio da un po’ di tempo, da quando mi sono appassionato a questo straordinario scrittore americano pubblicato in Italia dalla Nutrimenti. Nel 2009 è arrivato negli Stati Uniti al suo venticinquesimo libro. Da noi è al suo quarto romanzo. Musicista, pittore, insegnante, ha tutte le caratteristiche di un uomo difficile da digerire eppure incontrarlo smentisce ogni presentimento negativo. Unico ostacolo, per ora insormontabile, le sue lapidarie risposte. Deserto americano è il nuovo lavoro per l’Italia.

Come nasce Deserto americano?

Non lo so, davvero. Per me è sempre difficile dire cosa ha scatenato un romanzo. I romanzi vengono fuori e basta. Qui per la verità ci sono di mezzo quei continui mal di testa che spesso mi rovinano le giornate. Sono così fastidiosi che ogni volta vorrei tagliarmi la testa. Non è un’idea così peregrina, in fondo.

Da quali stimoli interni o esterni ha preso spunto per il personaggio di Ted Everett?

Ted è di sicuro una miscellanea di persone che ho conosciuto e con cui ho avuto a che fare. Tra queste ci sono di mezzo anch’io. Per quanto ci provi non riesco ad alienarmi dai miei personaggi.

Lei ha un rapporto molto particolare nei suoi romanzi con gli animali, che tornano sempre anche solo come comparse a cosa è dovuto?

Ho imparato moltissimo dagli animali in quattordici anni di addestramento di cavalli, soprattutto che un cavallo non mi ha mai tradito oppure che un cane non mi ha mai mentito, al massimo qualche cornacchia mi ha rubato qualcosa.

Un romanzo diverso questo. Anche nella forma narrativa. Una volta messo il punto cosa ha fatto?

Sono sempre i romanzi a dettare e a imporre la forma. In più, io sono uno che si annoia facilmente. E proprio per questo lavoro molto sulla struttura e la forma in modo che ne venga fuori qualcosa di divertente per me che sto scrivendo. La forma è il modo più profondo per indagare la realtà.

In Glifo c’era il gioco letterario, in Ferito un linguaggio lirico- paesaggistico e ora qualcosa di più “pop” in un certo senso. Cos’è lo stile per lei?

Uno strumento al servizio di ciascun libro, a disposizione di ciascuna storia.

Cos’è la metafora?

Evito di cadere nel giogo della metafora perché so che mi fermerei a rielaborarla all’infinito, mentre invece tutta la mia propensione è verso la storia e la sua vita. Io creo delle storie e non veicolo messaggi personali in queste. La mia attenzione è tutta rivolta sul processo di creazione.

Morire e resuscitare, due verbi che si avvicinano più facilmente a Cristo. Lei è religioso? Crede nella resurrezione?

Non sono religioso. Per niente. Non lo sono mai stato e non lo sarò mai. Però morirei sarei disposto a bruciare sul rogo sapendo che il papa sull’aereo sta leggendo il mio romanzo

Essere morto e comunque vivere, come nel suo romanzo non è simile ad essere un fantasma? L’uomo secondo lei accetterebbe una condizione di questo tipo?

No, Ted non è un fantasma. Ted è vivo e morto. E da morto più vivo di quando era vivo. I lettori poi si faranno un’idea tutta loro sul suo stato. Per qualcuno sarà un morto vivente, per altri un fantasma per altri ancora semplicemente un uomo che non sa più se vuole essere vivo o morto.

Come definisce Ted? E cosa c’è di lei?

Direi che Ted è al 13 % Percival Everett. Il resto della composizione non è facile da analizzare. C’è un po’ di tutto, compresi alcuni scheletri nell’armadio.

Il protagonista nella prime pagine cerca la morte per cancellare le sue debolezze umane. La morte davvero cancella i debiti con la vita?

La morte cancella qualunque cosa ma non conferisce l’assoluzione. Direi che alla fine i conti non tornano.

Perché il cambio del titolo da Making Jesus a Deserto americano? Cosa ha pensato quando le è stato proposto?

Il mio editore americano è stato un codardo. All’inizio ho pensato Fuck You! E ho cercato di averla vinta. La seconda fase invece è stata più riflessiva e ragionandoci bene, ma da solo, ho creduto che il titolo avrebbe posto l’attenzione soltanto su un aspetto del romanzo.

Un aspetto interessante (e oramai anche troppo ovvio visto la nostra società) è l’accanimento mediatico: si può avere l’esclusiva sulla morte, sulla vita e lei pensa anche sulla risurrezione?

Sicuramente. È il loro mestiere. E forse siamo proprio noi a volere che sia così, ad agognare un tale grado di penetrazione nelle nostre vite. Un sistema di informazione di tale natura implica un analogo e compiacente sistema di ricezione.

Farebbero un reality per uno come Ted?

Strano che non ci abbiano già pensato. Che tristezza…

Cos’è per lei la privacy?

A questa domanda preferisco non rispondere.

Cos’è la normalità per lei?

Tutto.

Quanto è importante l’ironia nella sua vita? Che ruolo svolge?

Se c’è ironia in quello che dico o scrivo non me ne accorgo neppure. Senz’altro mi piacciono coloro che non si prendono troppo sul serio quando scrivono.

Se perdesse la testa e se la ritrovasse ricucita al suo funerale, quale sarebbe la prima cosa a cui penserebbe?

Morirei per la paura.

La morte fa ancora paura?

Veramente?!

Chi è il suo personaggio tipo?

Direi grasso, belloccio, sempre indaffarato e attratto dal gentil sesso. Oppure magrolino, ma sempre belloccio. Non so perché, è più forte di me.

Cosa legge?

Storia, filosofia, matematica e tutta la narrativa dei miei studenti, talmente tanta che evito di leggere quella contemporanea.

Come è stato il suo tour in Italia. Che rapporto ha con la nostra gente?

Voi italiani siete così vivi e pieni di energia. Siete animati da una curiosità sorprendente, genuina. Rimango stupefatto dalla vostra voglia di approfondire, sapere sempre di più e di immaginare nuovi sviluppi ed evoluzioni per qualsiasi cosa.

Perché dà risposte così brevi alle interviste?

Perché è così (ride).

Alex Pietrogiacomi