Tre camici

di Benedetta Torchia Sonqua

Le mani puzzano ancora un po’ di solvente. Mi piace, è come l’odore della benzina: un po’ punge e un po’ inebria. Mi guardo le unghie che sono ormai abituata a tagliare di continuo per non bucare i guanti di lattice. Lo diceva mia madre che tra camice, cuffietta, mascherina e guanti non si trattava di un lavoro che avrebbe esaltato molto la mia femminilità. In realtà lei si preoccupava del fatto che la vita in laboratorio fosse poco adatta ad essere conciliata con la vita familiare con la professione, con tutti quegli aggiornamenti e permanenze estenuanti.
Comunque, al momento, non si presenta alcun problema di questo tipo. Da un paio di mesi lavoro tre ore al giorno in un laboratorio di analisi cliniche. La conciliazione riguarda ben altro.

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L’economia come scienza umanistica /5

Ultima parte – continua da qui.

 

SELF-MONITORING E ORGANIZZAZIONE : SPECIFICITÀ OPERATIVE.

Alla luce dei significati attribuiti nella definizione del dominio della variabile self-monitoring, è possibile allontanarsi da una dimensione puramente concettuale per sottolineare la valenza pratica, direi quotidiana, di una diffusa consapevolezza organizzativa delle implicazioni della presenza di individui self-monitors nei gruppi di lavoro.

Social networks e self-monitoring : implicazioni per la workplace performance

Numerosi sono gli studi in letteratura che indagano le relazioni tra posizioni e vantaggi strutturali, variabili di personalità e job performance. Una recente ricerca (Mehra, Kilduff, Brass, 2001) ha esaminato gli impatti dell’orientamento al self-monitoring e della posizione in una rete sociale sulla workplace performance. Leggi il resto dell’articolo

9 Aprile, Stati Generali della Precarietà, Sciopero Generale. Prendiamo parola.

Abbiamo di fronte a noi un mese che ha tutte le potenzialità per essere qualcosa di lontano dagli stanchi rituali della mobilitazione che da anni hanno perso la capacità di incidere sulle contraddizioni della realtà politica e sociale italiana. Le date che si inanellano dal 9 aprile al 6 maggio possono diventare l’occasione per mettere a punto una “direzione culturale comune” attraverso cui interpretare le condizioni di vita e di lavoro in Italia e pensarne quindi la successiva trasformazione. Ma non solo. Dovremmo far nostra l’ambizione di libertà che si respira nel Mediterraneo, ritrovando la forza di credere che la Storia non la fanno solo gli eserciti e i capi di Stato. La contingenza storica che stiamo attraversando ci invita a sollevarci dal soporifero letto di piaceri immaginari che narcotizza le nostre vite, farla finita con la raccolta di testimonianze, e piuttosto scegliere la parte di chi lascia solo testimoni attorno a sé; invece di emozionarci esclusivamente per le piccole storie, non potremmo riscoprire la passione inattuale per la Storia?

La mobilitazione nazionale del 9 aprile, “Il nostro tempo è adesso”, gli Stati Generali della Precarietà, il 1 maggio e la May Day, hanno in comune la volontà di ordinarsi, per necessità, nel paradigma della “condizione precaria”. Leggi il resto dell’articolo

Avere un lavoro o lavorare? Riflessioni filosofiche sul precariato a partire da Erich Fromm

In vista della manifestazione dei precari di sabato 9 aprile, rilanciamo questa interessante riflessione di Matteo Antonin.

 

In un suo celebre saggio del 1976, Avere o essere?, lo studioso (filosofo, sociologo, psicologo) Erich Fromm delinea chiaramente, all’interno della sua indagine sulla dialettica individuo-società, le due modalità che, a suo parere, orientano l’esistenza dell’Uomo: la modalità dell’avere e la modalità dell’essere. «Dicendo essere o avere», scrive Fromm, «mi riferisco a due fondamentali modalità di esistenza, a due diverse maniere di atteggiarsi nei propri confronti e in quelli del mondo, a due diversi tipi di struttura caratteriale, la rispettiva preminenza dei quali determina la totalità dei pensieri, sentimenti e azioni di una persona».

Erich Fromm (Francoforte sul Meno, 1900 – Locarno, 1980)

Nella modalità esistenziale dell’avere l’uomo ha verso il mondo, verso le cose e le persone, un rapporto di possesso: egli aspira a possedere.

Per prima cosa, ognuno crede di possedere se stesso (ed è su questo possesso che, in definitiva, si basa il concetto di identità); in secondo luogo ognuno desidera possedere le altre cose e gli altri. Nella modalità dell’avere il possedere le cose, ovvero la proprietà, è ciò che costituisce l’individuo. L’avere reifica le persone e i processi vitali, si riferisce a cose, e le cose sono fisse, improduttive, morte.

L’essere invece si riferisce non alle cose, bensì all’esperienza: un’esperienza che è costitutivamente libera, indipendente e critica, in quanto si basa sull’«uso produttivo dei nostri poteri umani».

Fromm correda il ragionamento di molti esempi tratti dalla vita quotidiana: l’apprendimento (nella modalità dell’avere un apprendimento passivo, nel quale gli studenti sono come recipienti vuoti che vengono colmati; nell’esperienza produttiva dell’essere un apprendimento vitale, attivo, produttivo), la lettura, la conversazione, la conoscenza (sottolineando la differenza tra avere conoscenza e conoscere), la fede (cieca fiducia in idee preconfezionate o fede nella vita, nell’uomo, che non si basa sulla sottomissione ad un’autorità costituita), l’amore (come possesso dell’altra persona o come processo vitale e produttivo).

Dal 1976 molte cose sono cambiate, ma l’assetto di una società basata sulla proprietà, sui consumi e sul possesso non è cambiato molto.

Ciò che però è mutata da allora è la condizione del lavoratore, e la sua nuova condizione di subordinazione e sottomissione legalizzata attraverso precarietà, mancanza di futuro e di sicurezza, realtà che ai tempi del libro di Fromm era sconosciuta (come lo erano i concetti che di questi mutamenti stanno alla base come fondamenti teorici: globalizzazione, flessibilità, delocalizzazione del lavoro…) .

Tuttavia, applicando il ragionamento di Fromm a questa nuova  condizione esistenziale del lavoratore odierno (la precarietà lavorativa ed esistenziale) si può notare come essa si possa comunque inserire in un’ottica funzionale al contrastare la modalità dell’essere e a perpetrare quella dell’avere.

La mancanza di continuità del rapporto di lavoro e conseguentemente di qualsiasi certezza sul futuro è il moderno meccanismo, teorizzato e messo in atto, per spronare l’Uomo a piegarsi alla passività, all’incapacità di sviluppare la propria funzione e il proprio essere attraverso l’abitudine ad avere un lavoro, senza mai  lavorare.

Nella modalità dell’essere lavorare dovrebbe essere uno sperimentare (e questo è possibile solo attraverso la sicurezza e la continuità del rapporto lavorativo) un’attività non alienata che consista non nell’avere un (momentaneo) posto di lavoro (e desiderare averlo soltanto per avere il guadagno che ne deriva), ma un’attività produttiva nella quale sviluppare le proprie potenzialità e  il proprio essere dinamico.

Un lavoro sicuro, a tempo indeterminato, non alienato, che rappresenti il nostro essere profondo, esprimendo le nostre capacità più proprie, che garantisca al lavoratore di poter fare dei progetti, deve essere evitato in quanto, usando le parole di Fromm, nella modalità esistenziale dell’ essere, «quando realizziamo  una crescita ottimale, siamo non soltanto (relativamente) liberi, forti, ragionevoli e lieti, ma anche mentalmente sani».

Quindi essenzialmente pericolosi.

La marcia dei libri contro la politica dell’evasione

C’è una cosa che colpisce più di tutte, della giornata del 14 dicembre: più della compravendita dei voti, delle strategie politiche, delle reciproche accuse.

Ciò che colpisce, a mio avviso, è l’inarrestabile fuga della politica nel mondo della finzione.

L’immagine, per la seconda volta in pochi giorni, dei luoghi istituzionali isolati dal resto della città, non può più essere definita semplicemente emblematica; è reale. Essa non rappresenta, bensì indica la distanza, la spaccatura che si è creata tra chi non fa che parlare (verbo da cui d’altronde deriva il termine parlamento) e chi il diritto alla parola deve invece conquistarselo giorno per giorno.

La cosa che più colpisce, che fa male, è questa indifferenza della politica nei confronti di una generazione (quella degli studenti) e di una condizione (della precarietà), alla quale questi stessi ragazzi non vogliono arrendersi.

Mentre la maggioranza dei deputati sventolava il tricolore con la foga del tifo da stadio, l’Italia, quella di domani, urlava la propria sfiducia per le strade. Faceva davvero uno strano effetto, vedere il passato che plaude a se stesso; sembrava di rivedere un film di Visconti, dove la Storia non è mai protagonista, eppure se ne sente la presenza, il suo rumore distruttivo che avanza.

Ciò che invece non colpisce più, è la solita trita abitudine a liquidare tutto con certe parole; a ridurre un fenomeno vasto e complesso come una manifestazione costituita da varie componenti, all’immagine di alcuni episodi di violenza.

Ciò che non colpisce più è l’incapacità della politica di dare risposte, di creare valide alternative; l’ipocrisia con cui ci si scandalizza davanti a questo spettacolo incivile (figurarsi, poi, a ridosso del Natale), quando a indignarsi sono gli stessi che non si risparmiano in risse televisive e parlamentari.

Ci lamentavamo, fino a ieri, dell’incapacità di questi “giovani” di creare un fronte comune, di rivendicare i propri diritti; li accusavamo di essersi adeguati in silenzio alle leggi della flessibilità.

E invece si sono schierati coi loro libri, dove trovano più risposte che nella politica. Certo, sarebbe stato bello vederci anche un Bertolt Brecht, scritto fra quegli scudi; al drammaturgo tedesco non sarebbe dispiaciuto affatto lo spettacolo di questo gesto sociale, del prolungamento della letteratura al di fuori della pagina scritta. La linea dei book bloc, il fare fronte comune dietro lo scudo dei libri, può essere infatti preso come atteggiamento di una società che non si riconosce più nel teatrino della politica; di una generazione che non vuol più partecipare alla messa in scena nei panni dello spettatore passivo. Quelle immagini più volte riviste, dell’avanzare dei titoli scritti a caratteri cubitali, costituiscono insomma l’esibirsi del processo stesso, di un percorso che attraverso la lettura ha portato alla presa di coscienza, allo smascheramento della grande finzione; il delinearsi talmente preciso di un atteggiamento da essere riproducibile in condizioni e situazioni diverse, da essere citabile nel senso in cui l’intendeva Walter Benjamin proprio rispetto al lavoro svolto da Brecht.

Ed è proprio questo che è successo: dall’Italia a l’Inghilterra, da Roma a Londra, uno stesso gesto contro i tagli alla cultura e all’impoverimento del futuro prossimo.

Simone Ghelli