Guerra: una raffinata forma di masochismo

Le sole persone di buon senso che incontriamo

sono quelle che condividono le nostre opinioni.

La Rochefoucauld

 

Mi riesce un po’ difficile convincermi che tutti

possano aderire al mio punto di vista, che si

trovino tutti sulla mia lunghezza d’onda, con

tanta compattezza, senza che qualcuno dissenta.

Fabrizio De André

 

Solo in due casi penso che una persona sia

cretina: quando non mi capisce o quando

mi capisce perfettamente. Io, ormai, non

cerco neanche più di capirmi.

Antonio Romano


Il concetto del doppio ha sempre affascinato l’umanità. Il doppio è la chance, l’ipotesi, l’alternativa (per Rank sei frocio, ma questo è un’altra questione): bianco o nero, alto o basso, vero o falso. Questi – che a prima vista possono sembrare degli opposti – sono dei clamorosi doppi. Il fatto che se non è bianco è nero, implica che l’oggetto in questione abbia la potenzialità intrinseca d’essere sia bianco che nero, cioè di poter modificare la propria colorazione senza cambiare la propria identità. Questa è doppiezza.

Il fatto che i miei calzini siano neri anziché bianchi non esclude che possano essere bianchi anziché neri, ma sempre calzini restano. Questa è doppiezza. Il fatto che un uomo dica una verità anziché una menzogna non esclude che possa dire una menzogna anziché una verità, ma sempre lo stesso uomo è. Questa è doppiezza. O meglio è la scelta, o la chance o l’ipotesi o l’alternativa che ci permette di mentire o di dire la verità oppure di cambiare calzini a seconda dei pantaloni.

Il concetto del doppio si è espresso per secoli anche sotto forme impensabili. Per esempio, una forma del doppio è l’antinomia. Il fatto che una frase possa contraddire se stessa è l’espressione della doppiezza del discorso. Il discorso dovrebbe servire a comunicare, ma, se finge di comunicare, la comunicazione va a farsi benedire. Se una frase si contraddice – e si dimostra non vera – diventa inutile. Una celebre antinomia della scuola megarica è la semplicissima frase: «Sto mentendo». Un attimo! Che vuol dire «Sto mentendo»? Evidentemente che sto mentendo sul mentire. Allora dico il vero? No, se ho detto che sto mentendo.

È interessante questa antinomia visto che, sotto le mentite spoglie della comunicazione, nasconde l’incomunicabilità (dovrei forse rammentare Lacan, che spiega il dramma del disavanzo fra desiderio e parola: ma non mi va di alzarmi a cercare in libreria). Questa frase non porta a termine il suo compito – la comunicazione – perché non serve a comunicare alcunché; ha lo stesso valore della domanda «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?»: il vero significato, l’essenza e la funzione della domanda vengono annullate e vanificate in quanto la domanda si risponde da sola. È incomunicativa, inutile. E anche in questo c’è doppiezza: in una domanda che è contemporaneamente risposta.

Un’altra antinomia, stavolta dei logici medievali, è: «Socrate dice: “Platone dice sempre il falso”, Platone dice: “Socrate dice sempre il vero”. Chi mente dei due?». Anche qui c’è doppiezza, visto che sia Socrate che Platone sono contemporaneamente bugiardi e sinceri.

Un caso interessante – e forse illuminante a proposito di questa tematica – ce lo dona il popolo dei Maya. Questo popolo straordinario, su cui ancora molto deve essere scoperto e detto, riuscì a sincronizzare il calendario solare con quello lunare creando un nuovo calendario di 364 giorni (il 365° avanzante fu dedicato alla Festa del Tempo: momento in cui i Maya si divertivano sfrenatamente. Tale giorno non veniva neanche computato, come se non fosse mai esistito… tipo Una notte da leoni); questa sincronizzazione potrebbe essere facilmente interpretata come il sintomo d’un’ossessione (non per nulla i Maya sono anche chiamati “Maniaci del Tempo”) oppure, meno facilmente e più costruttivamente, come il desiderio profondo d’annientare la doppiezza; scandire il tempo secondo il sole o secondo la luna è un caso eclatante di doppiezza. I Maya avranno così voluto cancellarlo. Sempre i Maya, in questo campo, offrono un secondo spunto di riflessione. Quando si salutavano usavano una formula che recitava: «In lak’ech», io sono un altro te stesso. Questo popolo doveva aver intuito che l’umanità soffre di doppiezza nei termini di “io” e di “altri”; teoricamente si potrebbe azzardare che avessero anticipato ideologie politiche come il comunismo prevedendo un abbattimento dei ruoli psico-antropologici; sempre teoricamente si potrebbe azzardare che abbiano abbattuto i presupposti per la lotta sociale, per le faide, per la rivalità e per l’invidia (difficile pensare che per un Maya sarebbero valsi gli ultimi due gradi della gerarchia dei bisogni di Maslow): anche in questo caso sembra quasi che abbiano voluto eliminare la doppiezza della società, le differenze fra “io” e gli “altri”. Però, cosa avrebbe risposto un Maya alla domanda: «Preferisci te o me?». Probabilmente non avrebbe saputo rispondere, se è vero che “io sono un altro te stesso” (si pensi alla coincidenza nell’etimo della parola “persona”). Fortunatamente a queste antinomiche doppiezze linguistiche pose una regola (dunque un limite) Russell, stabilendo che le proposizioni non devono essere autoreferenziali. Intendiamoci: Russell non ha eliminato le doppiezze del discorso, le ha solo arginate. Le doppiezze, cioè gli opposti all’interno di uno stesso soggetto o oggetto, implicano l’armonia; gli opposti che convivono sono, a loro modo, armonici. Ma l’armonia non è sempre positiva. Armonia, che ha la stessa radice di arma, comporta appiattimenti, e tutti gli appiattimenti comportano repressione (non soluzione) delle differenze e dei problemi. L’armonia è solo il paravento dietro cui combattono gli opposti. Tale “guerra” (bisogna giustamente intendere questa parola, senza vizi d’interpretazione) per Eraclito è il fulcro stesso dell’esistenza. Dico che bisogna giustamente interpretarla perché, attraverso i millenni, certe parole hanno perso via via il loro autentico significato e si sono dovute avvalere di vari aggettivi (guerra d’offesa, guerra di difesa, guerra preventiva, guerra intelligente, guerra espansionistica, guerriglia).

Biante di Priene, uno dei Sette Savi, diceva che il più pericoloso degli animali selvatici era il tiranno e di quelli domestici l’adulatore. Hobbes, invece, disse: «Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode». Il tiranno e l’adulatore, che per Biante erano animali pericolosi, si sono trasformati nelle due virtù cardinali della guerra per Hobbes: la forza e la frode.

Hobbes, si sa, non era un campione di pacifismo (non per nulla è sua la teoria del «Homo homini lupus». L’espressione, in realtà, è da far risalire alla seconda parte – verso 495 – dell’Asinaria di Plauto, in cui è possibile leggere «lupus est homo homini». Altre possibili fonti potrebbero essere ricercate nel settimo capitolo, paragrafo primo, dell’Historia naturalis di Plinio e nel primo paragrafo della centotreesima delle Epistule di Seneca), ma questo la dice lunga su almeno un dato: la guerra è la parte sporca della nostra coscienza, quella che vuole prevalere sull’altro.

Igiene del mondo una sega! Se Marinetti avesse perso qualche arto in battaglia o fosse stato costretto in un letto per tutta la sua esistenza (o sulla sedia a rotelle come Evola) non avrebbe detto cose del genere. All’inizio uno dei Savi disse che la forza (ovviamente la forza “cattiva”, impersonata dal tiranno) e la frode (impersonata dall’adulatore) erano pericolose, in seguito l’empirista del ‘600 le fece diventare le virtù cardinali della guerra e, infine, il futurista tramutò la guerra in una cosa necessaria e giusta. Non vi pare che ci sia una logica ferrea in questa follia? In ogni caso la guerra non è giusta, a prescindere dagli aggettivi con cui la si voglia accoppiare.

La cosa più folle, però, è che non sono sempre gli opposti a fare guerra. Spesso e volentieri sono proprio gli omologhi a combattere fra loro. Francia, Germania e Inghilterra non hanno fatto altro per secoli e non perché diverse, ma perché troppo simili. Questo dovrebbe far riflettere: se attacchiamo una persona che ci somiglia troppo (almeno quanto si somigliano Francia, Germania e Inghilterra) significa che abbiamo gravissimi problemi con noi stessi.

 

Antonio Romano

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Trilogia sull’operaio – Il minidotato

All’inizio di questa storia ci sono io, sospeso a venti metri da terra. Guardo le macchine sotto, le donne che calcano il marciapiede. Sono sguardi che lancio veloci , prima di ricominciare.

Lavorare in un cantiere ed essere, nello stesso tempo, osservatori curiosi. Sembrerebbe strano ma questo sono io. Vedo scorrere il tempo qui abbastanza velocemente. Questo solo grazie al modo di distrarre la mente che ho mentre svolgo i miei doveri.

Posso dirlo ormai con certezza, dopo questi giorni passati qui: ristrutturare la facciata di un palazzo è parecchio faticoso e quando riesco a eludere questa verità è il male dentro alle ossa che me lo ricorda.

Guardo le braccia degli altri muratori.

Le loro vene sono tronchi, radici di pino che si diramano sottopelle.

Li osservo mentre le loro braccia si tendono. I loro bicipiti si gonfiano sottosforzo, come se qualcuno stesse soffiando aria dalla valvola che tengono nascosta sotto al gomito.

Dopo questo guardo le mie , di braccia. Esili bianchicce ed affaticate nel far tutto.

Qualche vena, in realtà, la vedo uscire anch’io. Sembra quasi che voglia solo far notare il fatto di esserci. E’ troppo piccola. Troppo ancorata verso il basso.

In vene come quelle che invidiavo, immaginavo scorrere ad alta velocità, centimetri cubici di rosso fluido vitale.

Se il sangue è linfa e nutrimento, una circolazione come quella degli operai in questione era probabilmente sinonimo vero di energia e forza esplosiva .

Questa ipotesi si portava dietro dunque i motivi della mia fiacchezza e dei dolori.

A volte eravamo a lavorare uno di fianco all’altro. In quelle occasioni le vene che avevo, venivano prese da un reale senso di inferiorità.

Era l’immagine degli spogliatoi e delle docce, della scuola calcio da bambino. Quando si sentiva urlare tra le nuvole di vapore: “Carlo c’ha il cazzetto!!!” in faccia ad un ragazzino dal cazzo ancora piccolo.

E’ paradossale. A volte, si sta su un’impalcatura ghiacciata in inverno ed infuocata in estate, a venti metri dal suolo e si riesce ad essere disinvolti nel camminare, orientarsi e dirigere gli sguardi.

Alla fine di tutto, c’è il sibilo quasi impercettibile del mio precipitare su una vecchia signora con le buste della spesa nelle mani. L’altra anziana vicina a lei si interrogherà per molto, sulla casualità che non l’ha uccisa.

Porrà termine ai suoi ragionamenti frequentando sempre più assiduamente la parrocchia del quartiere, vivendo nella consapevolezza che non conviene affatto provocare un Dio a cui basta solamente premere un pulsante.

Luca Piccolino

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