ContraSens – I cani parigini

di Dan Lungu
Traduzione di Clara Mitola

Sono nato nel 1969 a Botoșani e ho scritto alcuni libri di letteratura. Per quel che riguarda il turista che è in me, le cose sono complicate. Se ci penso bene, in effetti, viaggiare non mi è mai piaciuto in modo speciale. Oltre a questo, i primi viaggi, in Romania o all’estero, mi hanno affascinato. La dislocazione dallo spazio abituale e la scoperta di un nuovo mondo mi hanno dato una sensazione di vitalità che, in base ai viaggi, si rafforza o va sfumando. Adesso, quando vedo troppi posti nuovi in una volta, divento come irritabile. E l’unico rimedio è la lettura. Leggo moltissimo quando viaggio, e delle volte mi prende così tanto che rimango in hotel, perdendomi un sacco di “obiettivi turistici”.

Ho compiuto 20 anni giusto nel 1989, e non avevo mai desiderato visitare l’Occidente. In effetti “avevo desiderato” non è l’espressione migliore – molto più veritiero sarebbe dire che una cosa del genere non mi era nemmeno mai passata per la testa. In particolare mi misuravo – in modo confuso, istintivo – con il desiderio di fuggire dal paese, come avevo sentito che succedeva, e non con quello razionale di fare un’escursione in un altro dei paesi del “lager socialista”, come sarebbe stato possibile. Alcuni amici che avevano viaggiato in Bulgaria, Polonia, Ungheria, Unione Sovietica o nella ex DDR, da dove portavano “adidași1”, gomma o mangianastri, avrei potuto desiderare una di queste mete, mentre Francia o Gran Bretagna, per non dire Stati Uniti, non esistevano nella mappa mentale delle possibilità della mia generazione.
Così la mia prima uscita “all’esterno” ha avuto luogo dopo il 1991. Ero uno studente di Sociologia ed ero stato selezionato per uno scambio di esperienze in Francia, insieme ad altri sette o otto colleghi, in un progetto di sociologia rurale. Bisognava andare da qualche parte nel sud-ovest dell’esagono e fare osservazioni in merito ai terreni di certi piccoli proprietari. Per raggiungere quella zona della Francia bisognava cambiare treno a Parigi. Leggi il resto dell’articolo

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La società dello spettacaaargh! – 8

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7]

Caro Jacopo,

grazie innanzi tutto per la precisazione sull’Illuminismo. Mi rendo conto che l’avevamo trattato da diverse prospettive, girando un po’ intorno a una sua definizione, solo sfiorata. Faccio presente, per sintetizzare le nostre posizioni e i nostri linguaggi (ma correggi pure se scorgi errori, mi raccomando) come nel breve scritto di Kant sia toccato un discorso da me posto:

Forse una rivoluzione potrà sì determinare l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione avida di guadagno e di potere, ma mai una vera riforma del modo di pensare.

Ossia che la riforma del modo di pensare non può prescindere dal percorso individuale: ci si può emancipare dall’oppressione in quanto istituzione sociale, ma questo non determina, di per sé, una liberazione individuale, in particolare per quanto riguarda le categorie di pensiero. Ciò ritorna anche nel discorso che fai, mi pare, sulla contiguità tra fascismo e berlusconismo (che condivido in particolare sull’elemento che individui, il «me ne frego»): ci siamo liberati di quella nefasta dittatura, ma ciò non ha coinciso, immediatamente e automaticamente, con l’emancipazione dal modo di pensare fascista. Leggi il resto dell’articolo

Guerra: una raffinata forma di masochismo

Le sole persone di buon senso che incontriamo

sono quelle che condividono le nostre opinioni.

La Rochefoucauld

 

Mi riesce un po’ difficile convincermi che tutti

possano aderire al mio punto di vista, che si

trovino tutti sulla mia lunghezza d’onda, con

tanta compattezza, senza che qualcuno dissenta.

Fabrizio De André

 

Solo in due casi penso che una persona sia

cretina: quando non mi capisce o quando

mi capisce perfettamente. Io, ormai, non

cerco neanche più di capirmi.

Antonio Romano


Il concetto del doppio ha sempre affascinato l’umanità. Il doppio è la chance, l’ipotesi, l’alternativa (per Rank sei frocio, ma questo è un’altra questione): bianco o nero, alto o basso, vero o falso. Questi – che a prima vista possono sembrare degli opposti – sono dei clamorosi doppi. Il fatto che se non è bianco è nero, implica che l’oggetto in questione abbia la potenzialità intrinseca d’essere sia bianco che nero, cioè di poter modificare la propria colorazione senza cambiare la propria identità. Questa è doppiezza.

Il fatto che i miei calzini siano neri anziché bianchi non esclude che possano essere bianchi anziché neri, ma sempre calzini restano. Questa è doppiezza. Il fatto che un uomo dica una verità anziché una menzogna non esclude che possa dire una menzogna anziché una verità, ma sempre lo stesso uomo è. Questa è doppiezza. O meglio è la scelta, o la chance o l’ipotesi o l’alternativa che ci permette di mentire o di dire la verità oppure di cambiare calzini a seconda dei pantaloni.

Il concetto del doppio si è espresso per secoli anche sotto forme impensabili. Per esempio, una forma del doppio è l’antinomia. Il fatto che una frase possa contraddire se stessa è l’espressione della doppiezza del discorso. Il discorso dovrebbe servire a comunicare, ma, se finge di comunicare, la comunicazione va a farsi benedire. Se una frase si contraddice – e si dimostra non vera – diventa inutile. Una celebre antinomia della scuola megarica è la semplicissima frase: «Sto mentendo». Un attimo! Che vuol dire «Sto mentendo»? Evidentemente che sto mentendo sul mentire. Allora dico il vero? No, se ho detto che sto mentendo.

È interessante questa antinomia visto che, sotto le mentite spoglie della comunicazione, nasconde l’incomunicabilità (dovrei forse rammentare Lacan, che spiega il dramma del disavanzo fra desiderio e parola: ma non mi va di alzarmi a cercare in libreria). Questa frase non porta a termine il suo compito – la comunicazione – perché non serve a comunicare alcunché; ha lo stesso valore della domanda «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?»: il vero significato, l’essenza e la funzione della domanda vengono annullate e vanificate in quanto la domanda si risponde da sola. È incomunicativa, inutile. E anche in questo c’è doppiezza: in una domanda che è contemporaneamente risposta.

Un’altra antinomia, stavolta dei logici medievali, è: «Socrate dice: “Platone dice sempre il falso”, Platone dice: “Socrate dice sempre il vero”. Chi mente dei due?». Anche qui c’è doppiezza, visto che sia Socrate che Platone sono contemporaneamente bugiardi e sinceri.

Un caso interessante – e forse illuminante a proposito di questa tematica – ce lo dona il popolo dei Maya. Questo popolo straordinario, su cui ancora molto deve essere scoperto e detto, riuscì a sincronizzare il calendario solare con quello lunare creando un nuovo calendario di 364 giorni (il 365° avanzante fu dedicato alla Festa del Tempo: momento in cui i Maya si divertivano sfrenatamente. Tale giorno non veniva neanche computato, come se non fosse mai esistito… tipo Una notte da leoni); questa sincronizzazione potrebbe essere facilmente interpretata come il sintomo d’un’ossessione (non per nulla i Maya sono anche chiamati “Maniaci del Tempo”) oppure, meno facilmente e più costruttivamente, come il desiderio profondo d’annientare la doppiezza; scandire il tempo secondo il sole o secondo la luna è un caso eclatante di doppiezza. I Maya avranno così voluto cancellarlo. Sempre i Maya, in questo campo, offrono un secondo spunto di riflessione. Quando si salutavano usavano una formula che recitava: «In lak’ech», io sono un altro te stesso. Questo popolo doveva aver intuito che l’umanità soffre di doppiezza nei termini di “io” e di “altri”; teoricamente si potrebbe azzardare che avessero anticipato ideologie politiche come il comunismo prevedendo un abbattimento dei ruoli psico-antropologici; sempre teoricamente si potrebbe azzardare che abbiano abbattuto i presupposti per la lotta sociale, per le faide, per la rivalità e per l’invidia (difficile pensare che per un Maya sarebbero valsi gli ultimi due gradi della gerarchia dei bisogni di Maslow): anche in questo caso sembra quasi che abbiano voluto eliminare la doppiezza della società, le differenze fra “io” e gli “altri”. Però, cosa avrebbe risposto un Maya alla domanda: «Preferisci te o me?». Probabilmente non avrebbe saputo rispondere, se è vero che “io sono un altro te stesso” (si pensi alla coincidenza nell’etimo della parola “persona”). Fortunatamente a queste antinomiche doppiezze linguistiche pose una regola (dunque un limite) Russell, stabilendo che le proposizioni non devono essere autoreferenziali. Intendiamoci: Russell non ha eliminato le doppiezze del discorso, le ha solo arginate. Le doppiezze, cioè gli opposti all’interno di uno stesso soggetto o oggetto, implicano l’armonia; gli opposti che convivono sono, a loro modo, armonici. Ma l’armonia non è sempre positiva. Armonia, che ha la stessa radice di arma, comporta appiattimenti, e tutti gli appiattimenti comportano repressione (non soluzione) delle differenze e dei problemi. L’armonia è solo il paravento dietro cui combattono gli opposti. Tale “guerra” (bisogna giustamente intendere questa parola, senza vizi d’interpretazione) per Eraclito è il fulcro stesso dell’esistenza. Dico che bisogna giustamente interpretarla perché, attraverso i millenni, certe parole hanno perso via via il loro autentico significato e si sono dovute avvalere di vari aggettivi (guerra d’offesa, guerra di difesa, guerra preventiva, guerra intelligente, guerra espansionistica, guerriglia).

Biante di Priene, uno dei Sette Savi, diceva che il più pericoloso degli animali selvatici era il tiranno e di quelli domestici l’adulatore. Hobbes, invece, disse: «Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode». Il tiranno e l’adulatore, che per Biante erano animali pericolosi, si sono trasformati nelle due virtù cardinali della guerra per Hobbes: la forza e la frode.

Hobbes, si sa, non era un campione di pacifismo (non per nulla è sua la teoria del «Homo homini lupus». L’espressione, in realtà, è da far risalire alla seconda parte – verso 495 – dell’Asinaria di Plauto, in cui è possibile leggere «lupus est homo homini». Altre possibili fonti potrebbero essere ricercate nel settimo capitolo, paragrafo primo, dell’Historia naturalis di Plinio e nel primo paragrafo della centotreesima delle Epistule di Seneca), ma questo la dice lunga su almeno un dato: la guerra è la parte sporca della nostra coscienza, quella che vuole prevalere sull’altro.

Igiene del mondo una sega! Se Marinetti avesse perso qualche arto in battaglia o fosse stato costretto in un letto per tutta la sua esistenza (o sulla sedia a rotelle come Evola) non avrebbe detto cose del genere. All’inizio uno dei Savi disse che la forza (ovviamente la forza “cattiva”, impersonata dal tiranno) e la frode (impersonata dall’adulatore) erano pericolose, in seguito l’empirista del ‘600 le fece diventare le virtù cardinali della guerra e, infine, il futurista tramutò la guerra in una cosa necessaria e giusta. Non vi pare che ci sia una logica ferrea in questa follia? In ogni caso la guerra non è giusta, a prescindere dagli aggettivi con cui la si voglia accoppiare.

La cosa più folle, però, è che non sono sempre gli opposti a fare guerra. Spesso e volentieri sono proprio gli omologhi a combattere fra loro. Francia, Germania e Inghilterra non hanno fatto altro per secoli e non perché diverse, ma perché troppo simili. Questo dovrebbe far riflettere: se attacchiamo una persona che ci somiglia troppo (almeno quanto si somigliano Francia, Germania e Inghilterra) significa che abbiamo gravissimi problemi con noi stessi.

 

Antonio Romano

Il mondiale dei palloni gonfiati, giusto, scrivo quel che voglio? – II

Seconda parte

[continua da qui]

-Francia ‘98

Da Baggio a Baggio, in quattro anni appena.
Ecco: in quei quattro anni si era ribaltato il mondo, per noi tifosi del Bologna. Nel ’94 il nostro fantasista era Alvise Zago, nel ’98 era Roberto Baggio. Non proprio la stessa cosa.
In quattro anni eravamo passati di filata dalla serie C1 alla qualificazione per l’Intertoto, l’anticamera della coppa Uefa, con Uliveri allenatore. Lo sapevamo tutti che Baggio era venuto a Bologna solo per giocare titolare e conquistarsi i mondiali, d’accordo, era stata una cosa un po’ utilitaristica, ma ci aveva regalato ventidue gol, intanto, noi gli avevamo tributato incondizionato affetto, ecco, speravamo che Baggio, commosso da quell’incondizionato affetto, decidesse di rimanere a Bologna un altro anno. Giocare la coppa Uefa con noi, magari.
Invece aveva preferito andare all’Inter, a litigare con Lippi. Cioè, questo non lo sapeva, immagino, che avrebbe litigato con Lippi e sarebbe stato impiegato col contagocce, ma era andata così e peggio per lui.
Per questo avevo seguito l’Italia in preda a sentimenti misti. Il nostro amatissimo Baggio declassato a stimatissimo Baggio, che regalava assist a Vieri e segnava rigori col Cile, quel Cesare Maldini in panchina che, insomma, non mi trasmetteva proprio tutto questo sentimento di esaltazione.
C’era stata la partita con la Francia, ai quarti di finale. A un certo punto, ai supplementari, Baggio aveva avuto la palla della vittoria. Un tiro al volo, di destro. Sarebbe stato un gran gol.
Aveva fatto dei gran gol per tutto quell’anno, con la maglia sacra del Bologna. Gli faceva bene, avere addosso la maglia del Bologna. Anche litigare con Ulivieri, si vede, gli faceva bene. Fosse stato ancora del Bologna, quel gran destro al volo sarebbe finito con la rete gonfia e la Francia sarebbe andata a casa.
Invece aveva già addosso la maglia dell’Inter, e le litigate con Lippi si sarebbero rivelate meno stimolanti di quelle con Ulivieri. Il tiro al volo era finito fuori di un centimetro. Di un niente.
Poi Di Biagio aveva tirato un rigore sulla traversa. Mondiali finiti ancora una volta.
Doveva restare a Bologna, Baggio, lo ripeto. Gli avrebbe fatto bene.

-Giappone-Corea 2002

I mondiali del 2002? Qualcuno si ricorda i mondiali del 2002? Quella squadraccia orrenda? Che, sì, va bene l’arbitro Moreno, ma Vieri che sbaglia un gol da un metro e Maldini che si fa scavalcare da un nano, ne vogliamo parlare?
Io no, quella squadraccia non me la ricordo se non vagamente, non ho sofferto per la Corea, non ho inveito più di tanto contro Moreno.
Io ero in uno stato placido, da un lato. In uno stato esplosivo, da un altro lato.
Stavo placidamente con Martina. Stavo placidamente in serie A, a godermi i gol di Signori e qualche avventura in Europa senza grossi scossoni.
E avevo finalmente esordito. Nove mesi prima di quel mondiale, era uscito il mio romanzo d’esordio: Despero, la storia del peggior chitarrista del mondo.
Insomma, quando Ahn aveva mangiato in testa a Paolo Maldini e la Corea aveva mandato a casa l’Italia di Trapattoni, io avevo accolto la cosa con suprema indifferenza.
Diversa dall’aperta ostilità di quattro anni dopo.

-Germania ‘06

Quattro anni dopo mi ero ritrovato a sperare che l’Italia uscisse al primo turno, che andassero tutti a casa bastonati e umiliati e vilipesi. Tutti, senza pietà.
Il Bologna che era finito in B grazie a Calciopoli, il Bologna aveva perso uno spareggio col Parma che mai dovuto giocare, grazie alle alte manovre che ci avevano affondati.
E io, di conseguenza, odiavo tutti. In ambito calcistico, eh?
Incattivito da Calciopoli, mi ero dedicato a un totale e orgoglioso disprezzo per la squadra di Lippi, di Cannavaro, di Camoranesi, per la nazionale in generale, in verità, che tanto lo sapevo, lo so com’è fatto questo paese: c’era sdegno in quel momento, sì, tutti erano per la mano pesante, si parlava della Juve nel dilettanti, del Milan in B, della Fiorentina penalizzata di venti punti, ma se l’Italia avesse vinto i mondiali, cosa sarebbe sucesso? Tarallucci e vino, volemose bene, le solite cose di casa nostra, e poi, di lì a qualche anno, si sarebbe parlato di un complotto dei giudici, di ingiustizie, del povero Moggi capro espiatorio, cose così, già viste in altri ambiti.
E io che invece volevo il sangue, niente di meno, in quanto parte lesa, mandato da Calciopoli a giocare a Crotone e a Terni, mi ero dato al tifo contro. Cioè, la metà delle partite neppure le avevo guardate. Il giorno del rigore di Totti all’ultimo minuto con l’Australia, per dire, ero su un treno per Lucca.
Se le avevo guardate, lo avevo fatto sibilando disprezzo e disgusto verso i nemici della mia povera e vessata squadra rossoblu. Io che andavo in giro a dire che quella canzoncina che cantavano tutti si chiamava Seven Nation Army, mica po-poppòpoppoppò-po, era dei White Stripes, lo dicevo a tutti, in quei giorni in cui ero particolarmente insopportabile per me stesso e per il mondo.

Il gol di Grosso con la Germania, quello l’avevo accolto con sentimenti misti.
Dopotutto Grosso era il meno colpevole di tutti. Non ci aveva fatto niente, lui. Era il classico normalissimo giocatore baciato dall’energia cosmica che ogni tanto, per un mese, durante i mondiali, trasforma un qualunque Schillaci in un bomber implacabile.
Al raddoppio di Del Piero invece, avevo pensato Ecco, il solito juventino inutile che si prende la gloria quando il lavoro importante l’ha già fatto un altro.
Comunque, l’Italia era approdata in finale. Contro la Francia.

Avevo preso una decisione difficile. Considerando l’antipatia per il ct della Francia –non che mi fosse simpatico Lippi, ma con Domenech si trascendeva a un livello superiore-, considerando il momento, come dire, storico, l’idea di veder vincere un mondiale, vabbè, avrei seppellito per una sera la mia personale ascia di guerra, e tifato Italia. Però, in caso di vittoria, niente festeggiamenti e niente caroselli d’auto. A casa, subito. A pensare al mercato del Bologna.
Con quella lontana finale dell’82 c’erano stati dei curiosi parallelismi.
Intanto, la partita l’avevo vista di nuovo in Riviera. Allo stabilimento Hana-Bi di Marina di Ravenna, qualche decina di chilometri a nord di Igea Marina. Poi, come quando avevo esultato per il gol di Antognoni annullato col Brasile, di quel che era accaduto sul campo non avevo capito niente.
C’era stato il rigore di Zidane che aveva colpito la traversa, ed io mi ero prodotto in un sentito gesto dell’ombrello. Io che negli anni, di tiri dagli undici metri, ne avevo visti cinquemila.
Poi mi ero chiesto Ma perché quel deficiente di Zidane sta esultando?

Poi Toni era scattato in avanti su una punizione, colpo di testa, gol. Avevo esultato –con moderazione- sulla spiaggia, poi mi ero girato, avevo visto che Toni non stava esultando affatto, neppure con moderazione. Fuorigioco. Annullato.
Con tutte le partite di calcio che avevo visto in vita mia, ero ritornato al grado zero della comprensione.

Cos’avevo pensato quando Grosso aveva preso la rincorsa per l’ultimo rigore?
Avevo pensato: adesso, in qualche modo, entriamo nella storia.
Avevo pensato: domani assolvono metà degli imputati di Calciopoli.
Avevo pensato: bello vincere un mondiale.
Avevo pensato: Grosso non sbaglia, non può sbagliare, non sarà un gran giocatore ma ha la luccicanza addosso, quel superpotere che non ti abbandona per tutta la durata di un mondiale e poi ti fa tornare il giocatore mediocre che eri, ma con anni e anni di ingaggi futuri garantiti.
Avevo pensato: adesso festeggio un po’, sbevazzo nella calca festante, mi tappo le orecchie per non sentire quell’insopportabile po-popopoppò-po, e poi corro alla macchina, che ho collocato in posizione di fuga strategica, torno a Bologna seguendo strade secondarie che solo io conosco, mentre tutti quanti si ammasseranno sul lungomare a clacsonare.

Due ore dopo, con la testa ancora rintronata da Seven nation army udita settecento volte per tutta la lunghezza della pineta di Marina di Ravenna, ero arrivato finalmente a casa. Avevo cercato su internet le ultime di calciomercato.
Il Bologna aveva quasi concluso l’acquisto di Emanuele Filippini, ex Brescia, Parma, Lazio, Palermo e Treviso.
Ed io, già mentalmente lontanissimo da Grosso e Materazzi e Luca Toni, avevo sorriso soddisfatto.

-Sudafrica 2010

Chi sta trattando il Bologna? Meggiorini?
Chi è, quello del Bari? E con Diego Perez, poi, come siamo d’accordo?

Gianluca Morozzi

Non c’è pietà

Il Policlinico non è un buon posto in questa stagione. Fa caldo e l’aria condizionata dove c’è non funziona. Nelle camere si sta in sei, otto pazienti.

Il vecchio al mio fianco l’hanno ricoverato un paio di giorni prima di me, per via di un’ ulcera perforata che, a quanto pare, gli ha fatto passare un bruttissimo quarto d’ora.

Oggi è il mio giorno. Finalmente mi operano.

Il mio ventre è fatto male, così ha detto il medico. Una malformazione congenita mi porta a possedere la parte superiore dello stomaco al di sopra del diaframma anziché sotto, dove dovrebbe invece essere.

Basta con la pancia che brucia come un tizzone. Basta con i reflussi gastrici in piena notte e con i farmaci da prendere ogni giorno. Basta. Ma serve operarsi. Un bel taglio e due, tre ore di qualcosa che l’anestesia non mi farà vedere.

Oggi cominciano i mondiali di calcio. Durante la partita inaugurale, Sud Africa-Messico sarò ancora sotto ai ferri. Probabilmente sarò già abbastanza in sentimenti alla sera, per Francia-Uruguay.

Questa storia dei mondiali è proprio una botta di culo. Sai che palle, in questa corsia di ospedale a sentire le lamentele di anziani che stanno tutto il giorno a vedere Forum e altre insopportabili trasmissioni, sembrano non sentire il caldo e si ostinano a chiudere le finestre. Sono qui da due giorni e già non ne posso più.

Tre partite al giorno fanno in tutto sei ore di pura e onesta evasione sportiva. L’unico punto di contatto che possa trovarsi tra me e la geriatria che abita la mia stanza.

L’anestesista mi dice di contare fino a dieci, dopo avermi fatto un’iniezione al braccio. Arrivo a quattro e cado in un sonno senza sogni. Buio.

Luce. Mia madre, mio padre, mio fratello e Vanessa che mi guardano e mi chiamano. Capisco che mi stanno chiamando ma ci vuole un po’ prima che io riesca a rispondere. Dicono di aver parlato col chirurgo. E’ andato tutto bene, una settimana di ospedale e poi sono fuori. Mio padre dice di non preoccuparsi. Che una settimana passa in fretta e che ci sono i mondiali in televisione per distrarsi. Ha proprio ragione. Mondiali. Partite e trasmissioni sui mondiali. Moviole, commenti, pronostici. Una vera pacchia.

Sono le sei quando i miei se ne vanno. Alle sette passa la cena. Non per me. Io ho le flebo attaccate fino a domani mattina. Per fortuna non sento un gran male. Sono ancora rabbonito dall’anestesia ma ben cosciente.

Alle otto e un quarto Mauro, l’infermiere di turno, viene a cambiarmi la flebo.

Il vecchio al mio fianco gli si rivolge col fare di un nonno col nipote: “Su che canale la danno la partita della Francia? Su Raiuno?”

Mauro si fa supponente mentre maneggia con le boccette della flebo: “A sor Alvà ma che cazzo state a di’? Ma non lo sapete che la Rai trasmette solo una partita al giorno? Oggi hanno mandato quella del Sud Africa no? Le altre stanno su Sky. Se so comprati i diritti.”

La delusione serpeggia senza neanche stare troppo a nascondersi. Mauro se ne va.

Il sor Alvaro si è seduto sul letto. Scuote la testa: “Mortacci loro. Manco le partite del mondiale se possono più guardà in grazia de Dio. E’ uno schifo. Dappertutto è uno schifo.”

Bestemmia il Cristo in croce e poi continua: “Non c’è pietà. Nemmeno per chi soffre, per chi sta ricoverato. Per nessuno. Non c’è pietà!”

Il vecchio addetto al telecomando fa zapping per qualche istante. Poi si ferma su un programma dove una grassona rincontra sua figlia dopo vent’anni.

La settimana, come per magia mi si prospetta d’un tratto più lunga di prima. Molto più lunga e maledettamente noiosa. Una sofferenza nella sofferenza per cui occorrerebbe molto più che pietà.

Luca Piccolino



Lo stereotipato mondo delle tifose dei mondiali

Questo racconto è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone è puuuuuramente casuale.

“Che ne diresti di scrivere qualcosa sui Mondiali?”. Argh, i Mondiali, me ne ero dimenticata. Googlizzo furiosamente “Mondiali 2010” e mi aggiorno su date, orari delle partite e più o meno chi giocherà con la maglia azzurra. Doppio Argh, la prima partita è proprio stasera.

Oui, lo stereotipo delle donne che guardano i mondiali, c’est moi. Di quelle che durante il campionato oltre a non interessarsi di calcio tentano di evitarlo, senza riuscirci. Di quelle che guardano con curiosità antropologica gli interminabili pomeriggi di calcio su Seven Gold, svegliandosi di soprassalto dalla pennichella domenicale con gli urli di Corno. Di quelle che però inevitabilmente si trasformano in sfegatate tifose di Europei e Mondiali, quando cioè gioca la Nazionale.

Che poi non è che si abbia questo patriottismo senza confini, e anzi, essere felici perché almeno ci sono i Mondiali mi fa a lungo riflettere su quell’”almeno”. Ma è così che è andata l’ultima volta.

Nel 2006 ero appena rientrata in Italia dopo il mio lungo anno parigino ed ero ancora piuttosto stordita. Io e le mie amiche ci eravamo conquistate un lussuoso ghetto femminile dove poter sfogare la nostra fede calcistica improvvisata e a tempo determinato come meglio ci piaceva, un po’ per nostra scelta e un po’ perché eravamo state bandite da morosi e amici. “Non vogliamo donne con noi, vogliamo il rutto libero e poterci sfogare come meglio ci pare. Mentre con le femmine fra i piedi non ci si riesce”. Una serie di donzelle in abiti rosa, di pizzi e organza, sedute composte sul divano con le gambe accavallate, con una bandierina italiana in mano che si dicono “cara, quei gentiluomini hanno forse segnato?” a un tono di voce lieve, quasi impercettibile. Ecco l’immagine che gli uomini che conoscevamo sembravano avere di un gruppo di donne che guardano i mondiali. Ma dico, di donne come noi!

Suonai il campanello dell’appartamento-ghetto e mi trovai di fronte alla realtà. Simildonne in mutande e canottiere da camionista stavano aggrappate a birrone da 66 cl. Qualcuna ruggì un rutto da competizione, poi scoppiò un coro improvviso e spaventoso: “Minchia di Toni, vogliam la minchia di Toni, minchia di Toniii, vogliam la minchia di Toni!”. Erano terribili. Annuii convinta, ero tra le mie simili.

Durante la partita tutte sfoggiavano le loro vere o presunte conoscenze calcistiche, e io urlavo contro la televisione, seguendo a naso i “Nooooo” e i “Sìììììì!!!!” delle altre pulzelle indifese. Che poi non ho mai capito bene la regola del fuorigioco, ma non l’ho mai sottolineato.

Mentre seguivo le complesse vicissitudini di quella finale pensavo ai personaggi che avevo incontrato nei giorni precedenti e che volevano in qualche modo ostacolare il mio connubio con il calcio una tantum: L’Intellettuale: “Non trovi che tifare per i mondiali sia una mera sovrastruttura vuota di senso che serve solo a costruire l’illusione di un’unità nazionale?”. Il Fidanzato: “Non capisco quelle donne, come te, che si interessano del calcio solo quando ci sono i Mondiali. Se vuoi ti faccio io un riassunto”. Lo Scaramantico: “Visto che eri in Francia durante le altre partite saresti così cortese da prendere un volo prima della finale e tornartene là?”.

No, no e no. Io avevo solo una ragione per seguire i Mondiali: mi piaceva. Mi piacevano l’euforia leggera della folla, i colori, i sudori, quell’essere-insieme energico. Mi sembravano motivazioni più che sufficienti.

Alla fine quell’anno abbiamo vinto anche la finale, Campioni del Mondo. Noi ci siamo abbracciate, abbiamo bevuto, gridato, gioito, e ci piaceva un sacco. Mi piaceva quell’euforia, quell’effervescenza collettiva. E per me, in bilico tra la Francia e l’Italia, tra un mondo e l’altro, tra un periodo della vita e un altro, per me che non ero più e non ero ancora, quell’euforia diventava qualcos’altro, colmava gli interstizi della mia immaginazione e scatenava la mia fantasia. Tanto da volerci scrivere un libro.

Sofia Assirelli

FRANCIA-URUGUAY: IO C’ERO! (purtroppo)

Ho appena finito di vedere Francia-Uruguay zero a zero, ovvero: del perché certe volte un uomo sano di mente guardi certe partite. Non è successo granché: qualche bel primo piano di Forlan (uomo rude), qualche altro a Ribery (nella foto, che sembra uscito da un romanzo di Izzo giusto stamattina, o arrivato in aereo tre ore fa dal set del nuovo Besson).
Un’espulsione ai danni di un cretino dell’Uruguay, entrato per farsi ammonire ed espellere nel giro di venti minuti, minuti durante i quali non sopportava l’idea che nessuno parlasse di lui. Aveva un cellulare e ogni tanto chiamava mamma a casa: «Mi inquadrano?» chiedeva. Alla risposta negativa della povera donna, lui s’incazzava abbestia, e perciò sapientemente comandava la regia con fallazzi e invettive in uruguagio strettissimo, ché a Montevideo i bambini si sbellicavano dalle risate.
L’arbitro ci aveva il giacchino rosso dell’esercito britannico del XIX secolo, solo che era cinese e maoista, anziché la mano a taglio chiamava il fallo col pugno chiuso.
L’Uruguay fin dal primo minuto ha messo su uno di quei catenacci che al confronto il Padova di Nereo Rocco ci aveva i mattoncini Lego. Se uno degli uruguagi superava la metà campo palla al piede, i suoi compagni gli regalavano un cappotto di cammello e una sciarpa, casomai così lontano sentisse freddo.
Da par loro i galletti tenevano palla ma non sapevano che farci, ogni tanto Govou vedeva arrivare questa sfera all’altezza dei piedi e si grattava il cocuzzolo, domandandosi cosa fosse e se almeno si trattasse di roba commestibile. Sulla schiena teneva il 10 che un mondiale fa e due mondiali fa e tre mondiali fa indossava Zizou, infatti Domenech gliel’ha dato perché almeno faceva rima, hai visto mai.
Nel frattempo, Evra e Gallas, che di attaccanti avversari non individuavano manco l’ombra, si sono messi a cercar cicorie e a giocare ad acchiapparella, mentre il portiere Lloris ha trovato quattro pratoline e le ha regalate al guardalinee, che ha gradito promettendogli in cambio di fare lui l’accosciato al gioco della saponetta più tardi sotto la doccia.
Tabarez, CT dei sudamericani ed ex vate del calcio dinamico, s’aggiustava il nodo della cravatta in panchina e ancora se la rideva perché una volta ha sottratto soldi a Berlusconi, e senza bombe come Mangano, ma semplicemente allenandogli malissimo il Milan.
Al fischio finale, Henry si è accorto con disappunto di essere in campo.

Christian Frascella



Il molosso. La leggenda del cane

IL MOLOSSO. LA LEGGENDA DEL CANE *

Siamo ripartiti e bisogna stare attenti perché tra lance, rostri, frecce e spade è come camminare in una grande bocca piena di zanne anche nel palato e sulla lingua, una bocca che avanza e si agita di continuo e se sbagli direzione o inciampi vieni sventrato e fatto a pezzi. Ci sono lame e becchi appuntiti dappertutto.

Alcuni, quelli che ce la fanno, marciano con scarpe di ferro tagliente.

Io sto nella terza fila e reggo una lancia di sette metri. Possiamo avanzare su ogni tipo di terreno. Qualsiasi cosa accada, la falange non si rompe, si riassesta, è capace di qualsiasi movimento. Sfonda qualsiasi schieramento.

«Levati», mi urla il bambino.

Mi scanso. Ero finito troppo vicino a un cane da combattimento con due torce ritte sulla schiena. Sui fianchi ha i serbatoi di resina che alimentano la fiamma. Porta un collare pieno di punte affilate. Ha il pelo arruffato e lungo, perché viene dalle piogge e dalle tempeste. È bianco, irsuto, come un cane da pastore, forse un tempo lo è stato. Noi per lui siamo il gregge. Gli altri i lupi.

Sono ancora forte, ma senza il bambino sarei già finito. Ripenso a quando l’abbiamo preso, suo padre e sua madre non volevano, non capivano il nostro destino di gloria e di conquista, erano uno dietro l’altro, furono trapassati dalla stessa lancia. Lui non può ricordarlo.

«Stai andando bravo», mi urla.

Quasi non ci vedo, per il bagliore bellissimo delle armature e degli scudi.

Enzo Fileno Carabba

* Estratto da Il molosso. La leggenda del cane (Zona, NOVEVOLT, 2010): un intrico di storie fantareali, attorno alla figura leggendaria del molosso: un cane da combattimento e da caccia, una feroce arma vivente, un progenitore sceso dal Tibet, un fedele compagno dai poteri telecinetici, una bestia mitica proveniente dalla culla martoriata della civiltà. Carabba ci accompagna con la sua immaginazione vertiginosa in una Italia distopica, abitata da pastori e solcata dagli F16, mostrandoci visioni alternative del nostro futuro. Enzo Fileno Carabba ha scritto, tra gli altri, Jakob Pesciolini, vincitore del Premio Calvino, La regola del silenzio, La foresta finale (tutti pubblicati da Einaudi), Pessimi segnali (Marsilio, 2004) e Le colline oscure (Barbera, 2008). È stato tradotto da Gallimard in Francia.

Inoltre Scrittori precari segnala giovedì 1 aprile 2010, alle ore 18.00, presso la Feltrinelli international, in via Cavour 12r presentazione dei primi libri della collana NOVEVOLT, Il molosso. La leggenda del cane di Enzo Fileno Carabba e Un viaggio con Francis Bacon di Franz Krauspenhaar. Saranno presenti, oltre agli autori: Vanni Santoni, Jacopo Nacci, il curatore della collana Alessandro Raveggi e l’editore Piero Cademartori. Reading a fine presentazione.