In memoria e in oblio di S.T. – #TUS3

Continua la rassegna dei testi letti a Torino Una Sega 3. Come già anticipato la scorsa settimana, ricordiamo che buona parte dei racconti letti a TUS3 saranno pubblicati sul prossimo numero di Riot Van in uscita a novembre, e a cui seguirà poi un’antologia completa in ebook. Sia la rivista che la raccolta digitale saranno in distribuzione gratuita.
Adesso spazio al racconto In memoria e in oblio di S.T. del subcomandante Gianluca Liguori, che ha portato come testo altrui un estratto da Lettera al padre di Kafka.

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pallescassate

Le scarse notizie che abbiamo sulla vita di Simone T. emergono dalla prefazione che l’autore stesso ha scritto per la sua unica pubblicazione, Palle scassate. Il libro è il primo titolo della misconosciuta e pirata casa editrice Bacheca Bianca che, a quanto risulta, non è stata mai registrata alla Camera di Commercio né iscritta alla Siae. Digitando su Google “bacheca bianca edizioni” o “casa editrice bacheca bianca” o ancora “pubblicazioni bacheca bianca”, si ottengono appena due risultati. Il primo rimanda all’articolo Teoria e tecnica di un tentativo fallito di rivoluzione, pubblicato il 15 agosto 2005 su manislavate.com, blog del giornalista palermitano, collaboratore della Nuova Sicilia e di Panorama, Saverio Rizzo. L’articolo, raggiungibile grazie alla tag “bacheca bianca”, si apre con l’epigrafe, dall’opera di Simone T.: «Se l’umanità acquisisse consapevolezza di essere soltanto di rado nel giusto, il peso dell’esistenza sulla Terra sarebbe sopportabile per ciascuno di noi.»
Il pezzo, che analizza il rapporto tra intellettuali e movimenti in seguito ai fatti del G8 di Genova, si chiude con un inconsueto post scriptum: «Ho dovuto chiudere i commenti a causa di due, permettete il francesismo, coglioni, che, un minuto dopo aver postato l’articolo, hanno approfittato di questo spazio democratico per offendere, calunniare e insultare la memoria di una persona a me cara, di grande spirito e coraggio, che purtroppo se ne è andata troppo presto. Sono certo che comprenderete i motivi di questa mia scelta.»
C’è ragione di credere che Rizzo si riferisca per l’appunto al nostro autore dalla misteriosa biografia.
La chiusura dei commenti è infatti citata, pur senza link, anche nel secondo collegamento indicato da Google: un post pubblicato il 12 marzo 2006 su lecittàinvivibili.blogtown.com e firmato dal nom de plume Natalino Calvino. I figli spirituali di Italo, nell’articolo Resistenza a mente armata, definiscono Simone T. un esempio puro e incontaminato di letterato militante. Vedono in lui un Leggi il resto dell’articolo

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Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 4

Ogni volta che accendi una sigaretta su una candela muore un marinaio. Non ricordo neanche più chi me lo disse, è un ricordo di anni fa, dieci, forse più. Sto scrivendo a lume di candela, è quasi sera, fuori imbrunisce nel silenzio colorato di cinguettìi di uccelli che non riconosco. Ogni tanto irrompe un frinire di grilli o un ronzìo di mosca. La pineta suona, silenziosa. Sabato scorso Leggi il resto dell’articolo

Amorte

Un esercizio interessante potrebbe essere quello di prendere quattro autori che apparentemente non hanno nulla in comune fra loro, se non a malapena una compresenza temporale al mondo, e cercare di metterli in relazione, magari esplorando percorsi inusitati o semplicemente erbosi e sterrati.

Supponiamo quindi di prendere Oscar Wilde e Franz Kafka e domandiamoci cosa possono avere in comune, possibilmente a partire dalle loro opere meno compatibili: le fiabe per l’uno e La metamorfosi per l’altro.

Le fiabe più famose sono forse quelle del principe felice o del gigante egoista, meste almeno quanto quella dell’usignolo e la rosa. Tutte fiabe contrassegnate da una tristezza che non si addice a letture per bambini, che sembrano piuttosto rivolgersi a un lettore disposto a sobbarcarsi della loro bellezza e della loro decadenza. Ciò c’introduce a una distinzione fondamentale fra la favola (con una morale e animali o piante antropomorfizzati) e la fiaba (senza una vera e propria morale, con personaggi fantastici, appunto quelli delle “fairy tales”, da ascoltare nel corso delle comuni attività di lavoro: ossia per intrattenere gli adulti mentre svolgevano le loro opere quotidiane). Wilde sembra riprendere schema e utilizzo della fiaba, le ibrida con elementi della favola e la destina a un pubblico di adulti, ma stavolta non si tratta del suo consueto pubblico: le sue fiabe sono per un ristretto pubblico di veri consimili. Sia quelle del primo sentimentalistico gruppo, che del secondo umoristico gruppo

Kafka nasce cinque anni prima che Wilde pubblichi il suo libro di fiabe, nel 1883, quindi magari glielo hanno pure regalato per qualche compleanno, e La metamorfosi vede la luce ventiquattro anni dopo The Happy Prince and Other Tales, nel 1912. Gregor Samsa è un personaggio di una tristezza imbarazzante, triste almeno quanto il principe felice o l’usignolo di Wilde. È un personaggio votato alla disfatta, ma senza il riscatto dell’estetica, della bella morte. Muore tra la sporcizia e i suoi rifiuti, con una mela conficcata nella schiena. Per la capacità che Kafka ha di rendere questo tipo orrore lo paragonerei al Cronenberg di Videodrome. Perché, però, Samsa non ha diritto al riscatto? La questione, anche se fuori tempo massimo, è squisitamente romantica, ma la vedremo dopo.

Ora prendiamo altri due autori che fra loro non c’entrano molto a prima vista: il Poe dei racconti e l’Ibsen di Casa di bambola.

Poe, che scrisse anche un dotto saggio di cosmogonia intitolato Eureka: a prose poem rielaborando il testo di una conferenza che tenne alla Society Library di New York il 3 febbraio del 1848, è universalmente conosciuto come autore di racconti dell’orrore, dell’arabesco e del mistero. È il creatore del moderno poliziesco, fine cesellatore della follia, maestro della vendetta e della deduzione. Una delle principali caratteristiche che distinguono nettamente questo autore da Lovecraft è la capacità meravigliosa che possiede nel mostrare il percorso che conduce un essere umano alla follia: il suo genio della perversità, come lo tradusse Giorgio Manganelli. Mentre in Lovecraft l’orrore è universale, vi siamo immersi e lo respiriamo, ma sempre male esterno all’uomo rimane, quello di Poe è un male intrinseco. Non un male con un colore strano o con la faccia mostruosa o narrato da un arabo pazzo: è un male civile, comune, acquattato nel cervello di ognuno di noi. È il gatto nel cervello, direbbe Fulci, mentre Carpenter parlerebbe di seme della follia. Il cuore rivelatore o Il gatto nero ne sono i manifesti.

Ibsen, un tetro norvegese di cui si racconta che la claustrofobicità dello studio potesse far impazzire chiunque, pensò bene di parlare della famiglia e di farlo con pressoché identici presupposti dello svedese Strindberg. Nora, moglie perfetta di una famiglia borghese, a un certo punto della propria esistenza si rende conto di non essere per il marito altro che una bambola. Viceversa lei è una donna forte, disposta a sacrificarsi per il proprio marito, che invece non la capisce, che non è forse nemmeno lontanamente in grado di cogliere la sua forza e la sua intelligenza, l’abnegazione del suo amore. Dramma comune a molte donne.

Così come Wilde (1888) e Kafka (1912) hanno in comune la sconfitta, Poe (1840-1845) e Ibsen (1879) hanno in comune la follia. Per Nora, la follia consiste nella decisione repentina di abbandonare il tetto coniugale: il procedimento che in Poe conduce alla violenza, in Ibsen sgretola la famiglia in nome della consapevolezza.

Tutti e quattro questi autori (un irlandese, un norvegese, un americano e un praghese) sono figli di varie istanze, che vanno dal suicidio ossianico di Werther all’indagine sul bello e sul sublime di Burke, all’idea stessa di sublime spaventoso di Kant (per non dire dei retaggi winkelmaniani).

Ma perché tutti e quattro ricorrono al patetico?

Per i romantici l’idea del sublime era collegata all’essenza stessa dell’arte divinificata. Ma era un sublime solo in parte somigliante a quello dello pseudo-Longino. Per i romantici era sì un istante, un momento, una congiunzione beata: ma, nell’uso comune, si consolidò nell’orrido. Perché, se com’era diffusa opinione kantianamente spremuta, il sublime scaturisce dai sentimenti al cubo, allora il cubo del sentimento è la paura – ancestrale, arcana. Quindi il cubo del cubo è il sublime. Il sublime si ottiene più facilmente con la paura. E qui Stendhal direbbe che non c’è storia nel bene, nel rassicurante.

Non è curioso, però, constatare come sia stato un uomo ligio alla legge come Kant a inventarsi un dispositivo come questo? I romantici si divertirono a privilegiare il sublime dinamico (forse pensando che i greci fossero insuperabili in quello matematico), a saggiare lo stratagemma emotivo per lo sperdimento nell’oltre-razionale. Ovviamente, come abbiamo detto, con la paura è più facile.

Sarà Schopenauer a cogliere ed esplicitare meglio queste implicazioni parlando della forza distruttrice della natura: l’uomo agisce sull’ambiente (dunque creando, ma non dal nulla) sostanzialmente modificandolo a colpi di forbice, quindi una natura che dovesse abbattere una città con un’ondata sarebbe il non plus ultra delle capacità creatrici esistenti sulla terra (specie perché crea dal nulla).

A questo punto la domanda che si pone è: cosa volevano distruggere i nostri quattro autori?

Ce lo dicono le loro storie: tutti e quattro sono degli irregolari e tutti e quattro hanno rapporti molto travagliati con la loro famiglia, da cui desumono la loro sfiducia nelle istituzioni borghesi.

E proprio in questo si precisa la loro assoluta comunione: nel contrasto fra Kultur e individualità, fra precetto e desiderio. A questo punto possiamo intravedere il motivo per cui Samsa è senza riscatto: se per Wilde c’è ancora un barlume di bellezza nella disfatta in nome dell’amore, Samsa non conoscerà mai l’amore. E la sua famiglia, scoperta la sua morte, non esiterà a distrarsi con una gita.

Kafka, come Ibsen, decreta la morte dell’amore: alla borghesia l’amore è precluso per via del denaro. Il borghese crede nel matrimonio indissolubile e nella fedeltà muliebre perché la moglie è il mezzo di produzione di una merce pregiata: la prole, che poi eredita cognome, sostanze e bada ai genitori invecchiati. Non si presta a nessuno la propria fabbrica per produrci la propria prole.

Sono cose a cui né Poe né Wilde pensano troppo, l’uno perché parte dal presupposto che l’arte americana stia nella forma breve del racconto trasportato a spalla dalla penny press (Poe, per di più, vive inginocchiato davanti alla ragione e legge senza sosta i romantici, Byron in testa, quindi non può che associare irrimediabilmente l’amore alla morte: è il disfacimento stesso una forma d’amore. Spruzzando il tutto di deduzione non si può che avere la lucida visione del nostro destino, votato alla disperazione e all’orrore, in agguato dentro ognuno) e l’altro perché si diverte troppo a ridere dei ricchi, ma è altrettanto vero che l’uno cercherà sempre di crearsi una famiglia e l’altro – come rileva Joyce – si rivolgerà al Cristo della tradizione gnostica.

Dunque, se è vero che ognuno per la sua via ha tentato di analizzare il dissidio fra società borghese e individuo, piegando il disfacimento a proprio comodo, non è forse più esatto dire che l’unico vero sublime che ci è stato dato di vedere sia un “sublime borghese”?

Verosimilmente, il concetto di sublime e la borghesia come classe sociale dominante si affermano nello stesso periodo. È pur vero, però, che la borghesia aveva elaborato fin dal ‘600 (pensiamo all’Olanda) una propria arte, tendenzialmente encomiastica e “fotografica”, e che il sublime è degli antichi greci. Ma nel primo caso era meramente strumentale (il borghese, con la macchina fotografica, manderà in malora il pittore et similia), nel secondo il Longino-patacca sta facendo una difesa: i greci non erano d’accordo col suo concetto di sublime, lo saranno i romantici.

Ed ecco finalmente chiaro il narcisimo: se la borghesia era la cosa da distruggere, in quale ruolo s’identifica l’artista se non in quello della maestosa onda anomala, strumento divino del sublime borghese?

La scomparsa dell’amore nella morte condanna al disfacimento e al narcisismo il sublime.

 

Antonio Romano

Il tempo materiale

Il tempo materiale (Minimum Fax, 2008)

di Giorgio Vasta

Perché il linguaggio, quello di prima, quello in cui c’era tutto, era troppo. (p.193)

 

Non è per niente un libro facile, quello di Giorgio Vasta. È ostico e spinoso, proprio come quel pezzo arrugginito di filo spinato che il protagonista si porta continuamente appresso. E dà pure fastidio questo “tempo materiale”.

Ci ho pensato molto, soprattutto all’inizio, quando non riuscivo a digerirlo. Cos’è che m’infastidisce tanto?, mi chiedevo. Senz’altro l’insistenza sul contagio, sull’infezione, sull’abbandono: lo sguardo insistito sulle piaghe del dolore, la volontà inossidabile dei protagonisti di piegare il corpo alle posture del linguaggio; una volontà che con il passare delle pagine corrode la materia stessa dell’universo, che riconduce il tutto alla “materia stellare frantumata” – una volontà che è resa chiara sin dall’inizio dall’ossessione della scrittura di penetrare le pieghe del mondo, d’infiltrarsi nei più piccoli pertugi e interstizi.

Ma il merito della scrittura di Vasta, la sua grandezza, sta proprio in questo: nella sua capacità di disfare e rifare continuamente la struttura del linguaggio, nel forzarlo e piegarlo incessantemente, nel metterne a dura prova le capacità di tenuta – come se il linguaggio fosse un metallo, e più precisamente il ferro, di cui rimane in bocca il sapore per tutto il tempo della lettura.

Prendiamo gli animali, ad esempio, che sbucano ovunque nel libro: animali (cani, gatti, piccioni) che sono perlopiù randagi, e che della loro condizione portano impressi i segni sul corpo. Attraverso la scrittura l’autore diviene-animale (sono proprio gli animali gli unici veri interlocutori del protagonista), e noi con lui. Non a caso Deleuze e Guattari parlavano del divenire-animale per uno scrittore come Kafka; e difatti c’è qualcosa di kafkiano in questo libro, in questa macchina linguistica che apre buchi un po’ da tutte le parti – sono soprattutto i buchi del linguaggio, le afasie su cui fondare quello che i tre protagonisti definiscono l’alfamuto: come l’incedere barcollante del gatto storpio e del piccione preistorico; o il mutismo stupito della bambina creola; e il dondolio del capo del piccolo Morana, che con la sua sporcizia e il suo rifiuto del linguaggio è al tempo stesso l’infezione e la promessa di una nuova purezza. Poi ci sono i buchi veri e propri, cavità nelle quali vita e morte si mescolano continuamente e dalle quali si estrae sempre qualcosa per azzardo: il ventre dello Spago, che produce un aborto spontaneo; la “radura del porno”, che custodisce il desiderio di sesso, ma anche il suo dissipamento, lo spargersi improduttivo del seme; le crepe delle strade e dei marciapiedi di Palermo; e ancora: le bocche dei palermitani, che masticano i suoni incomprensibili del loro dialetto; infine (ma ce ne sarebbero altri), le cavità in cui si trovano gli alveari, lo sciame delle api che muoiono iniettando il proprio veleno, ma che con le loro evoluzioni rifondano incessantemente la vita, il suo linguaggio.

Deleuze e Guattari definiscono una letteratura minore o rivoluzionaria quella che “comincia coll’enunciare, e vede e concepisce solo dopo”*: come non vedere nell’atteggiamento del protagonista, nel suo immergersi nel nimbo del linguaggio, qualcosa di simile? “Il divenire-animale”, continuano Deleuze e Guattari, “è un viaggio immobile e statico, che può essere vissuto o compreso solo in intensità”**, ed è proprio l’intensità della scrittura di Vasta a costringerci alla lettura, nonostante essa forzi il nostro grado di sopportazione, la nostra resistenza nei confronti di un linguaggio che richiede una rigida disciplina, una forma di militanza che sembra voler escludere qualsiasi forma di compassione o di identificazione.

Simone Ghelli

*Gilles Deleuze e Felix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 45.

**Ibidem, p. 57.