L’onda sulla pellicola
gennaio 4, 2011 4 commenti
Riportiamo un estratto del romanzo L’onda sulla pellicola (Besa, 2004) di Michele Lupo, ambientato prevalentemente nel mondo delle scuole private, il cui protagonista è un insegnante precario, nonché erotomane incallito e aspirante cineasta.
Una specie molto gradita da Malerba era costituita da gente sistemata abbastanza da piazzarsi soltanto per prestazioni rapidissime. Ingegneri o avvocati che mai restavano nelle aule per più di dieci minuti di seguito, attaccati ai cellulari per rimediare appuntamenti di lavoro tra la rogna di una lezione e la farsa di un’interrogazione. Sei, sette ore settimanali mirate alle trecentomila in più a fine mese. Gente incline a non far domande che ponessero in discussione l’andazzo generale, immune da ogni preoccupazione concernente il senso o la qualità o i fini sociali di quel lavoro. Si informavano sulle condizioni di Nesta, sulle intenzioni di Zoff nella campagna acquisti.
E poi, ricordava Livio, qualche povero disgraziato di passaggio, ma soprattutto frustrati d’ogni risma disposti a tutto pur di farsi chiamare professore e professoressa piuttosto che capò alle bancarelle del mercato vendendo brache usate o i calendari di Frate Indovino. Gente che viveva con i genitori a quarant’anni suonati, che si lamentava di non potersi sposare, di non poter programmare un futuro, che la sera lavorava nei bar, nei call-center, o porta a porta. Che la mattina successiva sbandava nei gironi lutulenti del Provveditorato di via Pianciani, si torceva fra le sue spirali metalliche e ne usciva stritolata. Che votava Alleanza Nazionale o Rifondazione Comunista con la stessa identica disperazione. Che qualche volta si sparava.
Che si fossero sbagliati, lui e Fausto, quando avevano concluso che ormai fare l’insegnante, in Italia, equivaleva a un marchio d’infamia? neanche si fosse individuato il novello untore per sanzionarne la condanna in un ghetto? Perché al Centro Studi Malerba vedevi tizi disposti ad aspettare due mesi un assegnino postdatato che mai superava il mezzo milione di lire epperò si gongolavano nella soddisfazione di fare l’appello, di tenere un registro – quando c’era – di parlare da una cattedra. Certo, il tutto veniva poi emendato in audizione di amenità pronunciate dai ragazzi ad alta voce: meglio le corse di notte all’Eur o caricare una slava sulla Cristoforo Colombo e fare poi un lavoro pulito? meglio il tiro a segno con i gatti di PonteMammolo o farla finita con quel perbenismo del cazzo e dare finalmente una lezione a Galeazzi che lo sanno tutti che è della Lazio?
Talvolta erano indirizzate proprio a loro – agli insegnanti. E non proprio facezie, piuttosto consigli dritte suggerimenti. Perché erano sensibili, i ragazzi. Come, diecimila lire l’ora? Dodici, iva compresa. Be’ professo’, nessuno voleva andare, chessò, il sabato e la domenica nel ristorante del padre? Sensibili e svegli, a modo loro. Con quella cifra non si poteva persuadere nessuno ad ascoltare alcunché. Che aveva mai da dire di importante uno che guadagnava diecimila lire l’ora? C’era ancora chi si struggeva la sera davanti alla sua brava laurea con lode incorniciata in cameretta, ma Livio non conosceva quel tipo così diffuso di consolazione fondato sulla comparazione delle sofferenze. Che altri stessero peggio di lui, non modificava in nulla il suo stato. E forse neanche quello degli altri, chi più chi meno tutti pronti a produrre un armamentario social-professionale che supplisse alle carenze evidenti del lavorare lì dentro: menzionare altre occupazioni, ad esempio, più serie, con l’aria impostata alla bisogna – tono, falsetti e gridolini per lo più, e soprattutto studiatissima gestualità. Che poi venisse un pianto, era un dettaglio. Fare l’attore, un minimo devi esserci portato. E Livio rideva, come se fosse solo uno spettatore, persuaso che fosse questione di tempo, per lui; per gli altri, invece, sul proscenio, un modo malinconico di suscitare aspettative, il teatrino consueto di una città di provincia come la Roma di periferia in cui si recitavano arti e mestieri, sperando che le luci smorte del CSM facessero almeno intravedere una qualche ribalta futura…
– Una volta tanto sarò d’accordo con lei, professore – disse una mattina, scoglionatissimo. Ce l’aveva con Perduro. – Non solo ha stravinto, il capitale, ma ti ha ficcato il suo chiodo rovente nel cervello, ha ossidato le tue difese immunitarie e ti ha iniettato pure la vergogna di non averlo, un lavoro. Quella che chiamiamo filosofia della storia prende proprio delle cappellate, certe volte, non crede?
L’uomo sembrava impossibilitato a rispondere dalla coda di paglia su cui ogni parola di Livio sfregava come uno zolfanello – si sarebbe bruciato da solo, senza il tempo di replicare.
– Anche la sua, di vicenda, non me ne vorrà, è un po’ singolare, no? Un combattente dell’età di Cossutta, inorridito dalla svolta di Occhetto, pensionato più agiato dell’uno e l’altro messi insieme che svacca il tempo in un privato… Converrà che è un poco eccentrico, o mi sbaglio?
Quella che stava per diventare l’ennesima collisione fra i due insegnanti fu interrotta dall’arrivo di Malerba corsa subito in aiuto dell’ex preside. Prese Livio sottobraccio e se lo portò nel suo ufficio. Aveva dato un’occhiata ai programmi, disse.
– Pensa sia proprio necessario perdere tempo con questo Aretino, professore?
A domande del genere Livio era abituato. Da tempo, aveva ormai deciso che non doveva rispondere, ma limitarsi a guardare dritto verso di lei con un’ aria inespressiva, come di chi non pensa a niente in particolare e non sembra neanche accorgersene.
– Dicevo, Viola, un autore così minore…
Non da tonto, l’aria. Ma insomma.
– Mi ascolta? Deve mica farla per forza, la letteratura contemporanea.
Che non fosse una battuta era evidente, meno dalla sua insipienza nel caso lo fosse stata che dalla faccia serissima che ostentava. La sua di lui divenne di colpo quella di chi si ritrova l’ippogrifo in carne e ossa davanti agli occhi e tace estasiato.
– Senta professore, io ho molta stima di lei. Questo lo avrà capito. Ma non fosse che per gli anni che mi porto appresso, e mi scusi se scomodo il poeta, credo di esser degna di un po’ più di riverenza in vista.
– Non fa esattamente così, signora. Il verso, voglio dire.
– Viola, mi stia a sentire. Guardi che io non ho nulla contro la poesia, ci mancherebbe altro, anch’io sa, di tanto in tanto, prendo una penna e… e butto giù… Oh, lasciamo perdere.
– Peccato. L’ascolterei volentieri.
– Però, vede, io non sono il tipo che si caccia le mani in tasca per sentire poi le dita che ci girano a vuoto, mi segue? Se lei mi perde tutto questo tempo con autori sconosciuti i ragazzi mi volano via, mi volano. Poi ci lamentiamo del disinteresse.
Oh, il disinteresse. Se poco poco gli riusciva di catturare l’attenzione dei ragazzi, era in virtù di un prestigio usurpato, eteronomo alla sua funzione lì: erano le chiacchiere sui suoi trascorsi – in realtà insignificanti – a Cinecittà a propiziargli un po’ di attenzione, o forse solo di curiosità. E si trattava in ogni caso di momenti brevi e casuali, interruzioni fortuite della loro diffidenza, a suo modo giustificatissima. Perché poi non erano mica fessi: era ben strano che dal cinema fosse finito in quello zoo, a parlare di letteratura, ossia, per loro, dell’altro mondo. Dov’era, quest’altro mondo? e questo qui? cosa rimaneva di conosciuto fra cyberspazio e ombrelloni dove si continuava a giocare con i morti fra i piedi? erano tutti così bisognosi di invocarne uno ultimo e definitivo che fosse post-umano? erano o non erano proprio gli uomini i primi a non poterne più di se stessi?
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