FRAMMENTO CASUALE DI UN ROMANZO IPOTETICO

Ho trentadue anni e studio cose inerenti al cinema – la nozione di piano-sequenza, il surrealismo, la filmografia di Truffaut, eccetera – e so bene che nessun datore di lavoro mi pagherà mai per questo tipo di conoscenze. In realtà, una volta volevo fare il regista, ma poi ho capito che per farlo non bastava copiare i movimenti di macchina di Godard, e allora ho smesso di pensarci, di aspirare a qualcosa di grande, e in fondo sono a posto così. Ora, dopo aver chiarito alcuni aspetti del mio futuro, passo la giornate a guardare fuori dalla finestra, al terzo piano di un palazzo bohémien, una topaia senza acqua calda e con le condutture piene di ratti, e qui mi diverto a schernire mentalmente i passanti, a giudicare il loro modo di mettere un piede davanti all’altro, e si può dire che io sia un tipo poco socievole o addirittura misantropico, poiché trascorro gran parte del mio tempo libero in completa solitudine, al buio, e anche questa, in fondo, è una cosa che mi va bene. Le persone mi ripugnano – ecco la verità. Ho passato con loro circa trent’anni e poi, in preda a un raptus di logica rivelatrice, ho deciso di ritirarmi nel mio appartamento e appendere alle pareti diverse fotografie di Jean-Luc Godard – certe volte sorride, altre, invece, guarda l’obbiettivo e giudica il mondo con sguardo rassegnato – e dopo averle appese, analizzando il mio lavoro, ho capito che avrei dovuto appendere soltanto quelle in cui giudica il mondo, e che le altre risultavano perfettamente inutili, dunque ne ho tolte una decina e subito dopo ero felice, ma in modo vago e indefinibile. Ad oggi, la mia vita coincide col mio tempo libero. Non studio più – prima vi ho mentito, chiedo scusa – e i libri che avevo sono finiti per strada, nel vero senso della parola. Era mattino, se ben ricordo. Il sole splendeva nel cielo e i Rayban rendevano il mondo più sopportabile, attutivano fastidiose luminescenze, riflessi sui parabrezza, e il mio zaino era pesante e pieno di Manuali di Storia del Cinema e tediosi saggi di Bazin, e forse c’era pure qualcosa di Ejzenštejn – sì, c’era – e comunque la stazione era già piena di mendicanti eroinomani e sudici senzatetto e mentre l’altoparlante annunciava gli Ultimi Treni Per… io girovagavo specchiandomi nelle vetrine di Mcdonald’s, dove famiglie intere sorridevano e postdatavano la propria condanna a morte, e quando il mio sguardo si posò su un uomo solo e affascinato dall’idea di un panino a tre piani, uno scheletro ripugnante con diversi buchi sulle braccia mi chiese non due non tre ma cinque euro per il pranzo – chiedendomeli, osservava le mie tasche e lo zaino e cercava di reprimere un folgorante prurito oppiaceo – e io, spazientito, cercai di spiegargli un paio di cose sulla vita e sulla morte e lui sembrava darmi ascolto ma poi, quando finii di parlare, continuava a volere dei soldi e in quel momento, conscio di essere arrivato a un punto di non ritorno, aprii lo zaino e tirai fuori uno dei tanti Manuali e glielo porsi, dicendogli che forse lì sopra poteva imparare qualcosa, e lo scheletro, titubante, prese il libro e lo girò e lesse il prezzo di copertina – 26,00 euroe pensò che magari, vendendolo, avrebbe potuto ricavarne tredici, e si girò e iniziò a correre verso l’uscita della stazione. Insomma, il mio piano era quello di portare la cultura in strada, tuttavia la strada sembrava infischiarsene della cultura, e i saggi di Bazin (che diedi a un vecchio alcolizzato, morente di lì a sei mesi, già mummificato sotto strati di cenci) saranno stati convertiti in denaro e poi in cibo scadente o vino industriale, e quest’aneddoto, secondo me, è un perfetto esempio di come gira il mondo (gira intorno alle occasioni, lo sanno tutti), e magari dovrei dirigere un film sulla mia vita, inquadrare un attore che interpreta me stesso e seguirlo durante la consegna di Che cos’è il cinema?, effettuare un primo piano sul volto del barbone e catturarne lo stupore, la perplessità di fronte a uno scritto che analizza l’ontologia dell’immagine fotografica, l’evoluzione del western e il mito di Humphrey Bogart, e poi continuare a seguirlo in un negozio di libri usati ed evidenziare il suo disprezzo nei confronti di André Bazin, un critico cinematografico molto noioso e perspicace, fortunatamente morto, e infine bloccare l’inquadratura sul sorriso del barbone, sull’espressione che assume quando vede i soldi. Sì, forse dovrei farlo, ma senza copiare Godard. Picasso, dal canto suo, diceva che la copiatura è un’attività geniale. Io, però, non credo di essere un genio, anzi, credo che i geni siano tutti morti, e che il terzo millennio rappresenti il declino della cultura e il trionfo del pensiero primitivo, ossia del non-pensiero, dell’istinto, e quest’impero di discoteche, palestre e Sushi Bar sembra darmi ragione – le persone faticano in maniera incomprensibile, si nutrono di pesce crudo e danzano goffamente, ma di certo non pensano. Rumore di topi. Uh, dovrei muovermi un po’ e camminare nel mio appartamento invaso da raggi solari che sembrano mirini laser e poi aprire il frigorifero e mangiare qualcosa di semicongelato perché è ora di pranzo, e fra poco dovrò andare al piano di sopra a bussare alla porta di un vecchio che mi paga per sentirsi meno solo, e quando mi avrà fatto entrare dovrò tenergli compagnia per qualche ora (per l’intero pomeriggio, diciamo) e camminando dovrò evitare di inciamparmi nelle pile di quotidiani ammucchiati sul pavimento, nelle prime pagine con foto a colori di politici che non conosco – che a ogni modo mi ritengono superfluo – e immagino che il vecchio (dice di chiamarsi Foster, ma è solo una copertura) e immagino che Foster rimarrà seduto sulla sua poltrona sorseggiando caffè e a un certo punto mi dirà la solita cosa, e cioè che dovrei essere felice, perché siamo in inverno e la giornata dura poco, certamente meno che d’estate. Già, credo che Foster odi in primis se stesso, e poi diverse sfaccettature dell’universo, comprese le ore di luce. Questo vecchio depresso lavorava sui treni, una volta, e controllava che la gente avesse il biglietto e che fosse tutto in regola, ma raramente osava fare una multa e di solito si limitava a redarguire con paternali occhiate di rimprovero gli zingari che salivano clandestinamente in carrozza e importunavano gli studenti universitari. Be’, sia gli zingari che gli studenti universitari dovrebbero fare la fine di Giovanna d’Arco, ma non voglio parlare di loro, no, voglio continuare a parlare di Foster e del licenziamento per giusta causa che le ferrovie statali sono riuscite a rifilargli dopo anni di tentativi. Foster, lui è sempre stato depresso e incerto del proprio potere: non voleva fare multe e credeva che far pagare le persone per lievi negligenze violasse i diritti umani o qualcosa del genere. Temeva le reazioni violente, gli extracomunitari vendicativi, la polizia, l’ONU. Temeva un sacco di cose e infatti l’hanno cacciato via. Peccato, perché un brav’uomo, ma alla fine son contento del suo licenziamento, visto che da lì è iniziata una spirale autodistruttiva che gli ha fatto perdere: moglie, cane, casa, voglia di vivere. Inoltre, se Foster non fosse così solo, io non prenderei seicento euro mensili per tenergli compagnia e fargli la spesa settimanalmente. Lui, questo vecchio anedonico, mangia scatole di ceci e patate e talvolta una porzione minu­scola di pesce in scatola e la dieta che segue, dice, è un modo per punirsi di chissà quali peccati – nota bene: Foster pensa che la depressione sia un peccato, e prega per non essere depresso, ma evidentemente non funziona, e allora si deprime ancora di più – e se il fine ultimo della preghiera fosse proprio quello di far deprimere, in questo caso Gesù Cristo sarebbe stato un formidabile imprenditore, e la moltiplicazione dei pani e dei pesci un misero pretesto per aumentare l’inflazione. Apro il frigo e mangio degli spaghetti gelidi, direttamente in piedi, dalla pentola che li contiene. Purtroppo, il mio palato reagisce male, e devo constatare che un avanzo di spaghetti conservato a una temperatura costante di 0° centigradi è ben più disgustoso di un avanzo di pollo conservato alla medesima temperatura, quindi decido di finire il pollo e poi, finito il pollo, realizzo che il frigorifero è ufficialmente vuoto e inizio a sperare che Foster abbia bisogno di una scatola di ceci, così potrò cogliere l’occasione e fare un’unica spesa per entrambi. Come vedete, il mondo gira intorno alle occasioni. A tal proposito, quando ho sostenuto il mio primo esame – no, non ne voglio parlare. Ancora rumore di topi. Quando mi nutro di cibi gelidi, la fame tende a sparire in fretta, senza strascichi, e lascia spazio a una buona dose di disgusto. Grazie al disgusto, e al fatto che qui dentro manca l’acqua calda, riesco a vivere con seicento euro mensili, e se escludiamo le spese eccezionali – un nuovo poster di Godard, l’ingresso al cinema, le caramelle all’eucalipto – escludendo queste spese, la retribuzione in nero di Foster è più che sufficiente al mio tenore di vita. Comunque, certi profeti dicono che il mondo finirà presto, nel duemiladodici o giù di lì, dunque non devo preoccuparmi. Ovviamente, se l’esplosione finale arrivasse un po’ prima, io ne sarei felice, e come me un sacco di altra gente. Richiuso il frigo, esco di casa e chiudo a chiave. Alcuni ragazzi, seduti sugli scalini, parlano di ragazze. Senza voltarmi, gli ricordo che non devono curiosare nel mio appartamento, e che nel buco della serratura non c’è niente da vedere.

Oggi, Foster mi paga per restare in silenzio.

Iacopo Barison

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Marzo

La mattina mi alzo che è ancora notte, ho messo la sveglia sul cellulare, una musica che ho registrato al mio paese quando sono tornato l’anno scorso. E’ una musica molto bella e veloce che mi fa svegliare pensando che sto duemila chilometri più ad est e poi subito sopra, come se tra me e casa mia ci fosse solo un lunghissimo corridoio.

Dove abito adesso non ho il corridoio: per entrare in una stanza devi passare per un’altra stanza e così via. Anche per andare nella cucina devi passare prima per il cesso e per andare al cesso devi passare per la stanza di Tonja.

Tonja esce anche lei presto di mattina, Tonja è arrivata da due mesi e i primi tempi non aveva capito dell’organizzazione di casa nostra, era uscita e aveva chiuso la stanza a chiave e io e Vladi siamo rimasti nella stanza di fondo e non potevamo uscire, né mangiare, né bere e manco andare al cesso. Vladi doveva far pipì, allora si è affacciato al balcone e ha controllato che non ci fosse nessuno nel vicolo dove stanno le altalene e ha pisciato attaccato alla pianta di bamboo. L’ha fatto con una certa naturalezza, pareva stesse  valutando le possibilità di ripresa della pianta, che la stesse innaffiando che sicuramente ne aveva bisogno, era tutta gialla e raggrinzita nello stelo come il collo di una vecchia, e poi comunque ero contento che pisciasse sopra le altalene, speravo anche che qualche goccia della sua urina finisse in capa ai bambini che giocano a pallone e non ci fanno dormire quando rientriamo il pomeriggio.

Quando Tonja è tornata le abbiamo spiegato a voce forte che non doveva più permettersi e ci aspettavamo che lei piangesse, ci aspettavamo che lei si chiudesse in camera, ci aspettavamo che lei ci mandasse a fanculo ma lei ci ha risposto aprendo le mani e mostrando la chiave come fosse una caramella o un gioco di quelli che fai da bambino. Ci ha detto che a questo punto ce la restituiva, che tanto non sentiva nemmeno di poterla chiamare con l’aggettivo possessivo la stanza dove dormiva, che si vedeva che era una sala da pranzo, ci stavano i piatti appesi vicino alle mura.

Sui piatti appesi vicino alle mura ci sono disegnati pezzi del paese in cui siamo adesso, tutti scheggiati dalle lame dei coltelli, e mi sembra una cosa molto significativa: noi davvero di questo posto ci mangiamo, nelle campagne che ci stanno dipinte noi raccogliamo i broccoli e la rucola sotto a certi capannoni. Il lavoro che faccio io si chiama lavorare dentro ai frigoriferi. L’ho tradotto nella mia lingua per spiegarlo a mia madre quando ho chiamato la settimana scorsa, l’ho tradotto parola per parola e mia madre deve avermi immaginato con un camice bianco tipo ingegnere, deve aver pensato che adesso possiedo i segreti della refrigerazione, che ho gli occhialini leggeri o qualche mascherina, che ho i capelli tagliati a spazzola e io gliel’ho lasciato pensare, non c’era alcun bisogno di dirle che di chimico là dove sto io sono solo pesticidi e freddo.

Mi ha detto il padrone che ad aprile faremo le fragole, forse anche prima di aprile se il tempo si mantiene buono. La gente è solo pigra, ma mica è scema, crede alle fragole solo quando il sole dà conferma, dice. Io non ci crederei comunque ma al padrone non l’ho detto, lui mi guardava e ripeteva fragole come se fosse qualcosa che io non avevo mai sentito o mai visto o mai mangiato.

Tonja fa un altro lavoro che non ho capito bene. Certe volte deve solo attraversare il vico e salire due piani. Quando torno da lavoro riesco anche a vederla, se mi alzo sulle punte arrivato all’ultimo scalino delle scale. Vedo sempre che non fa niente, sta seduta vicino al tavolo e davanti a lei sta un vecchio. Il vecchio ha tutti i capelli bianchi, lunghi dietro le orecchie, e non dice niente. Sentono insieme una radio in cui si parla solo e non ci sono mai canzoni; a parlare è una donna, lo fa con un tono monocorde che a me farebbe dormire. Anche Tonja e il vecchio sembrano dormire. Per questo motivo non farei mai il suo lavoro, perchè quando lei torna a casa sembra sempre più stanca di me anche se io ho alzato venti chili di frutta e verdura e c’ho le mani rosse dal gelo e lei è stata seduta davanti ad una tavola. Poi mi metto sul letto, sento la schiena che mi fa male troppo che non riesco manco a girarmi e allora vorrei andare nella stanza di Tonja e chiederle di fare cambio.

Anche a lavoro da me si sente la radio e molta musica, ma è una lingua che non conosco, non ha niente a che fare con l’italiano che so io, non somiglia alle canzoni che sentivo da bambino. E’ una conversazione veloce, che mi esclude, che mi fa il vuoto intorno, le parole sono come olio nell’acqua della mia grammatica base. Pagherei per sentire una voce che conosco, a lavoro. L’ho detto a Vladi e Vladi mi ha detto che è un grosso sbaglio e che è questa la cosa a cui bisogna fare più attenzione: quando sei tanto lontano da casa e senti parlare la tua lingua gioisci, senza chiederti se chi ha parlato è un amico o un nemico. Io faccio sì con la testa, ma penso che Vladi sia un po’ stronzo, o anche scemo. O solo infelice. Io, se dovessi sentir parlare il dialetto di me bambino, non potrei fare a meno di voltarmi e sorridere.

Vladi ha questo modo di fare simmetrico puntuale razionale che si estende alle pieghe dei suoi pantaloni, alte un paio di centimetri sulle caviglie. Appena arrivati qui ci hanno messi insieme e allora venne vicino a parlarmi, mi disse che adesso dovevamo fare un patto. Voleva sapere di potersi fidare di me e me lo chiese proprio, con parole semplici e finite. Era un discorso preparato ma sentito, un discorso che uno può sentir poche volte nella vita, se è fortunato. Perchè non accade spesso che le persone vengano a chiederti se sei d’accordo e cosa ne pensi di una situazione che non si è ancora verificata. Vladi invece venne a parteciparmi delle sue impressioni su di me e delle sue intenzioni circa il rapporto che avremmo dovuto avere. La cosa mi lasciò piuttosto stranito ma apprezzai che non avesse giocato d’astuzia come fanno tutti, che ti girano intorno e lasciano che il tempo faccia il resto che, come dice il padrone, la gente è solo pigra, ma mica è scema. Non si trattava di bisogno di sicurezza, come avevo pensato all’inizio, o meglio, non solo. Vladi mi spiegò tutto la notte appresso. Mi spiegò che la sua era anche una dichiarazione. Che aveva bisogno di tener fede ad un impegno, di non lasciarsi andare adesso che stava lontano da casa, anche di ricordarsi i verbi base della sua lingua che è anche la mia tranne che per certe inflessioni date dai molti chilometri di distanza tra le località dove siamo nati, dove siamo cresciuti, correndo dietro alle galline nel cortile.

L’impegno non era assai, si trattava di parlare e basta. Anche di abbracciarlo, ma poche volte, siamo due ragazzi sì, ma siamo pur sempre uomini. Tonja non ha messo in discussione il nostro rapporto: Vladi continua a parlarmi anche dopo esser passato dalla sua camera. Io un poco ci soffro, sento che ci sono parti del suo affetto che non posso conoscere; a me non è dato capire le sue mani se non nelle strette energiche che fa certe mattine che sono bloccato con la schiena. A me non è dato sapere se è dolce con le donne o se non lo è. A me non è dato quasi nulla, penso mentre lavoro e lavo i broccoli. Poi la sera lui si siede ai piedi del mio letto e mi parla di tutta una serie di cose a cui devo stare attento, mi dice quello che ha visto la mattina, quello che ha sognato il pomeriggio, ed io credo mi basti, come se non ci fosse alcuna altra possibilità a parte quella di starlo a sentire nel buio. Di questa possibilità non avverto le limitazioni, è una costante onnicomprensiva: la lingua sua è tutt’uno con il nero e con il resto dei colori che quando spengo la luce non si vedono più.

La mattina mi alzo che è ancora notte. Il cellulare mio suona forte e la signora che abita affianco a noi bussa contro il muro, insieme a me si sveglia anche lei e un po’ mi dispiace, ci penso per le due ore che vengono appresso, penso a lei come fosse mia madre, stanca e con le gambe pesanti e io che l’ho svegliata alle quattro come se sapere di farla saltare nel letto mi levasse qualche parte di fatica. Mi propongo sempre di abbassare la suoneria della sveglia o anche di cambiarla, oppure di concentrarmi forte in modo da potermi svegliare da solo senza il bisogno di un allarme, ma la sera sono troppo stanco per ricordarmelo.

Dal balcone il pomeriggio vedo una ragazza: sta seduta al computer o vicino ai libri e penso che deve averci una vita molto semplice che vorrei fare cambio. Quando i bambini giocano a pallone lei si alza e grida forte in italiano che le loro madri sono delle cesse. La prima volta che l’ho sentita io volevo sorridere e dire che ero d’accordo, allora ho alzato la persiana ma lei se ne è accorta ed ha chiuso le tende; io l’ho capito e non alzo più la persiana, la spio dai buchetti pieni di polvere, ci ho passato un fazzoletto scottex per vederla meglio. La ragazza ogni tanto piange. Sta là, ferma, con la testa su certi libri alti,  pare andare tutto bene, parla pure al telefono, e poi piange. Allora io non la invidio più e vorrei fare qualche cosa, darle pure una carezza in testa come quelle che Vladi fa a Tonja, fatta senza capire il perchè in lingua parlata, con un significato che sta tutto sotto le unghie. I miei polpastrelli sono ruvidi, tagliati nel mezzo come se avessi suonato la chitarra e invece io ho colto i broccoli. I broccoli quando escono a marzo hanno steli affilati che bucano la terra fredda come fossero coltelli.  Allora vorrei poterle dire qualche cosa, magari le dico le cose che Vladi dice a me la sera, gli sbagli e le cose a cui bisogna fare attenzione, ma non sono sicuro nemmeno della traduzione in italiano.

Magari le porto le fragole, però quando escono quelle buone, magari anche lei è come il resto della gente, pigra sì, ma mica scema.

Raffaella R. Ferré