Il libretto rosso di Pertini

Sandro Pertini è stato, ed è, il Presidente più amato dagli italiani. Rappresenta quella figura etica di uomo incorruttibile e di indefesso combattente per la libertà di cui oggi più che mai si sente il bisogno. Il libretto rosso di Pertini è un saggio fra letteratura e storia, che raccoglie gli scritti e i proclami politici del grande Presidente di tutti gli italiani e ne ricostruisce l’entusiasmante biografia, dalle sue imprese durante la Prima Guerra Mondiale alla Guerra di Resistenza durante la Seconda, passando per l’esilio e il carcere, fino ad arrivare alla Presidenza della Repubblica. I Di Mino, autori del romanzo Fiume di tenebra, sull’epopea dannunziana a Fiume, e de Il libretto rosso di Garibaldi, completano così un percorso ideale alla riscoperta dell’epica nazionale, ridisegnando la figura di Sandro Pertini, in una chiave moderna e originale, come mito ancora attivo. Leggi il resto dell’articolo

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PAGA PAPA’

Ouzo, i manifestanti, bere posson mica berlo: glielo vietano i precetti coranici.

L’ouzo è quel liquore che lo trovi un po’ in tutto il Mediterraneo, paese che vai nome che cambia ma la sostanza è sostanzialmente la stessa: distillato di anice.

Il turco raki. La francese anisette. L’italica sambuca. Il greco ouzo. Una faccia un liquore una razza, le genti mediterranee.

Ora te ne racconto una sulla sambuca: il suo nome non deriva dal sambuco. O almeno non deriva dal sambuco nel modo che pensi tu.

Perché sambuco ce n’è mica, nella sambuca: anice, invece sì.

In arabo sammut, zammut, è il legno del sambuco. Con quel legno viene manufatto uno strumento musicale, lo zamr, in italiano si chiama sambuca ed è una specie di oboe col suono attutito, come il vocio delle genti quando sei ubriaco.

La sambuca, ubriacare ubriaca che è una bellezza.

Nel milleottocento-e-qualcosa capita che un certo Luigi Manzi, garibaldino della prima ora, dalle parti di Sapri veda i contadini lavorare per la strada, faticano e sudano e per dissetarsi attingono con una cazzuola da certi secchi di acqua ed anice che portano sulle spalle, in equilibrio su certe assi di legno di sambuco, dei tipi chiamati sambuceti.

Manzi impazzisce per quella miscela di sapori, un giorno sbarca a Civitavecchia e s’innamora di quella città, in Piazzetta Santa Maria apre un piccolo stabilimento di produzione di liquore di anice, sambuca la chiama, ha un grande successo: anche Garibaldi, passando per Civitavecchia, ne rimane folgorato.

Poi passano gli anni, c’è la guerra, le bombe distruggono la città e la piccola fabbrica che va sull’orlo del fallimento, se ne prende a cuore le sorti il commendator Molinari: nasce così, la sambuca Molinari. Quella chiara, extra, quoram.

Chiaro, no? Extra. Quoram. Che cosa significhi s’è mica mai capito, poi.

Zammut, sambuco, sai chi ci si chiama? Paul. Paul Zammut è il presidente di una squadra di calcio, il Birkirkara Football Club, son maltesi. Il Birkirkara nel duemila per la prima volta nella sua storia vince lo scudetto, e Zammut deve essere un tipetto peperino, pacioccone e con le manie di grandezza, lo spirito del provocateur e una certa insana passione per la sambuca, il raki, l’ouzo e tutti quei liquori che ti fan dire le cose che è bene non dire, se non vuoi sentirti dare del pazzo.

Giù un sorso, invece, e dàgli di proclamo: abbiamo ingaggiato per la prossima stagione Al-Saadi Al-Gaddafi, il terzogenito del Colonnello, del Padre della Rivoluzione, il leader libico, dice ai giornalisti. Mica è vero.

Al-Saadi, bisogna riconoscerlo, è una mezzaséga, calcisticamente parlando. Non è che significhi molto essere capitano dell’Al-Ahly Tripoli, della Nazionale, Presidente della Federcalcio: mica vale, se tuo padre si chiama Muhammar Gaddafi e di mestiere fa il dittatore. E comunque, col Birkirkara non c’ha mai giocato.

Luciano Gaucci, anche a Luciano Gaucci come al suo collega Zammut deve piacergli assai la sambuca, magari l’ha conosciuta quando andava a Civitavecchia a trattare l’acquisto di Emanuele Blasi. Giù un sorso e dàgli di proclamo: abbiamo ingaggiato per la prossima stagione Al-Saadi Al-Gaddafi, il terzogenito che già l’abbiam sentita, questa storia, solo che nel caso di Gaucci e del Perugia, ecco, era vero. Che c’è pure stato un mezzo caso diplomatico, ché il Governo di Tripoli era proprietario del sette per cento del pacchetto azionario della Juventus, mica puoi essere proprietario di una squadra e giocare per un’altra, bisogna mettere il pacchetto in standby, che papocchio!, ma anche quanta pubblicità, per Gaucci.

Saadi con la maglia dei grifoni gioca una sola partita, proprio contro la Juventus, pensaté, non è che brilli per classe cristallina, anzi. Si becca pure una squalifica per aver assunto degli steroidi.

Dopo due anni di Perugia va a fare il saltimbanco a Udine, una stagione e nessuna presenza, poi a Genova sponda Sampdoria, dove c’è Garrone che col petrolio ci sa trattare, coi figli dei leader libici un po’ meno, anche là zero presenze ma, in compenso, un conto di quasi quattrocentomila euro al Grand Hotel Excelsior di Rapallo lasciato così, insoluto. I calciatori, si sa, fanno la bella vita: suite imperiali, camerieri guardie del corpo ed addestratori di cani da combattimento al seguito, si tratta bene Al-Saadi, mica dorme nella tenda beduina, lui, astice e sciampagna prima di andarsene così, dicendo paga papà, solo che papà non paga, l’ambasciata fa le orecchie da mercante e al Grand Hotel Excelsior bisogna andare in tribunale, una storiaccia, insomma.

Al-Saadi con gli alberghi gli dice sempre malissimo: nell’Hotel Ouzo, a Bengasi, quell’albergo col nome di liquore proibito, è stato costretto a rimanersene asserragliato mentre fuori il popolo gridava il regime non lo vogliamo più. Non vogliono il regime, figurarsi Al-Saadi sindaco di Bengasi.

Nel duemila, prima che il Birkirkara annunciasse l’acquisto della brillante mezzala, l’Al-Ahly di Tripoli va a giocare in casa dell’omonima compagine di Bengasi. La squadra di Al-Saadi è sotto per una rete a zero, l’arbitro regala due reti agli ospiti e non serve a niente indignarsi, vince sempre chi comanda. Non foss’altro per il bene supremo della nazione.

Qualche settimana dopo l’Al-Ahly di Bengasi gioca contro l’Al-Bayada, che è la squadra per la quale fa il tifo la madre di Al-Saadi. Anche là, torti arbitrali. I tifosi non ci stanno, e a fine partita dan fuoco a tutto quello che gli passa sotto la rabbia, macchine cassonetti cartelli stradali; la polizia spara sulla folla per sedare il moto d’insurrezione. Il giorno seguente, i tifosi del Bengasi fanno sfilare per le strade un somarello con la scritta Al-Saadi sulla groppa.

La sede del club viene spazzata via con i bulldozer. Tre tifosi vengono arrestati per aver complottato contro la gloriosa rivoluzione libica e contro il suo leader. Bendati, vengono condotti davanti ad un plotone d’esecuzione. Pena di morte. Il plotone non arriverà, nessuno sparo risuonerà per le vie della città cirenaica.

Tortura psicologica. Il potere logora chi non ce l’ha.

Fuori dall’Hotel Ouzo i manifestanti urlano che il regime non lo vogliono più. Non sono ubriachi, posson mica berli certi liquori proibiti. Sono solo incazzati.

Al-Saadi sindaco di Bengasi lo diventerà mica mai. Costretto alla fuga, lascia il conto in sospeso.

Pagherà papà, dice.

Pagherà, eccome se pagherà, è il pensiero un po’ di tutti.

 

Fabrizio Gabrielli

L’ind(s)ulto di Sanremo

Ci vuole davvero poca fantasia, come quella che da anni caratterizza ormai il festival della canzone italiana, ma a invertire l’ordine dei titoli delle tre canzoni finaliste emerge un concetto che ha dell’agghiacciante: Credimi ancora Italia, amore mio, per tutte le volte che

Insomma, se questo non è un inno all’indulto, quanto meno è un insulto all’intelligenza degli italiani. Visto l’approssimarsi del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, qualche mente geniale avrà pensato bene d’arrivare con la canzonetta laddove non è arrivato Garibaldi. Un’Italia che è anche un po’ facilona e romantica, se è vero che si lascia ingannare dalle lusinghe di un innamorato così timido d’averla abbandonata al primo pericolo: Ricordo quando ero bambino, viaggiavo con la fantasia, chiudevo gli occhi e immaginavo, di stringerla fra le mie braccia.

D’altronde è il popolo sovrano ad aver deciso, e quand’è così non c’è trippa per gatti, ovvero Carta canta, anche se quest’anno pare abbia vinto un altro, ma sempre dalla stessa trasmissione veniva.

E se basta Sanremo per ricucire gli strappi della storia, laddove il politico di turno non si sia già premunito di chitarrista al seguito al quale delegare la propria arte di paroliere, mi chiedo se per l’anno prossimo non sia il caso di comporre una canzone per ricordare i bei tempi del ventennio, ché così lo sdoganiamo una volta per tutte e la finiamo di vivere in un paese in cui non pompi un unico cuore, perché ciò che vogliamo è un paese più normale.

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 7

[Leggi qui le puntate precedenti]

Ora, stando agli atti del processo gli è che il bubbone metifico – quello che lor poeti definirebbero invece sacro fuoco, o volontà di potenza, perché troppo si vergognano a chiamarlo col suo termine più proprio: ovvero un ego smisurato – insomma, quella cosa lì, crebbe a dismisura dopo una prima tappa sperimentale nella città partenopea, dove gli entusiasmi ribollirono a tal punto da convincere una signorina lì di passaggio a indirizzarli verso un luogo il cui nome ben si adattava alla veritiera natura dei cinque declamatori. Questo luogo si chiamava – e presuppongo si chiami tutt’oggi, poiché non compare nel registro degl’indagati – il Perditempo: un posto dove vennero accolti come cantori di un nuovo mondo, in modo così inaspettato che rimasero basiti davanti a chi porgeva loro in dono calici traboccanti di bevande senza che neanche vi fosse stata esplicita richiesta (quando invece, solitamente, erano costretti a far la questua per ottenere almeno un cicchetto omaggiato per sciaquare l’ugola dopo tanto profluvio di parole). Uno di loro poi, quello che si vantava dei suoi natali etruschi – che però era finito guardacaso a Roma per fornicar con le parole – finì talmente ciucco da concludere la serata con una barzelletta toscana; ché ci vorrebbero delle foto solo per vedere le facce tutte da ridere dei discendenti di Pulcinella, da immaginarsi con le orecchie protese e le mascelle spalancate nel tentativo di carpire qualche ci aspirata e inghiottita insieme ai sorsi di limoncello di Sorrento che il sommo vate trincava tra una frase e l’altra.

È di quei giorni lì la prima voce di una possibile alleanza extracapitolina, in cui sembrò confluire una misteriosa brigata partenopea, composta di scrittori dialettali e non, che spingevano per goder dei fasti di un nuovo 7 settembre*, per poi ritirarsi anch’essi, da veri intellettuali, senza ricompense e in qualche sperduto loco**.

Ad onor del vero quest’unione non s’ebbe poi a fare, e rimane una delle zone oscure di tutta questa stramba processione che vide le parole uscir dai loro ranghi come insubordinati non ligi agli ordini. Il dilemma non è affatto di poco conto, ché la risposta potrebbe confermare i legittimi dubbi sulla reale unità d’intenti tra i nostrani spadaccini di penna, soprattutto alla luce dei documenti recentemente resi noti dalla commissione di vigilanza web, dai quali emergono polemiche e risse verbali all’ordine del giorno tra questi tutori della cultura, che in quanto a ferir di lingua non sembravano da meno dei tanto vituperati giornalisti.

Insomma, stando ai prodromi si potrebbe oggi asserire che il piano partì già bello che zoppo, nonostante i facili entusiasmi che accompagnarono i cinque briganti durante il viaggio di ritorno in seconda classe, soprattutto quelli del poeta imbrattatore di mura, che fantasticava il buon ritiro in quel di Ausonia, ma solo dopo aver compiuto il suo dovere civico verso l’irriconoscente patria, che si burlava ancora una volta del coraggio dei proprio figli.

Il dado era tratto e i cinque si apprestavano a render giustizia non soltanto a coloro che già si organizzavano per l’espatrio, ma anche a chi, accerchiato dalla cultura dell’aggressione verbale, si accingeva mestamente ad alzar bandiera bianca: essi vollero dare esempio di strenua resistenza dinanzi a chi voleva accorciare la lingua italiana ai suoi minimi termini, per riportarla invece ai fasti, alla ricchezza e alla musicalità a lei più congeniali, proprio come ai tempi del Gadda e del Landolfi.

Simone Ghelli

* Il riferimento è alla conquista della capitale del Regno delle due Sicilie, dove Garibaldi fece il suo ingresso il 7 settembre del 1860, per poi sconfiggere le truppe del re Francesco II che si erano ritirate a nord del Volturno.

** Dopo aver accompagnato il re Vittorio Emanuele II a Napoli, l’8 novembre del 1860 Garibaldi si ritirò sull’isola di Caprera, rifiutandosi di accettare qualsivoglia ricompensa per i suoi servigi.