Garrinchakra

garrinchadi Fabrizio Gabrielli

Da quando è uscito Sforbiciate, e ormai è passato del tempo, mi son scivolati – spesso m’han fatto scivolare – per le mani una serie di scritti calcistici, filocalcistici, pseudocalcistici, metacalcistici, che davvero basta, m’è successo che un po’ mi sia andata a noia, la palla quando rotola per le righe d’un libro. A meno che non sia uno di quei palloni calciati con le ultime tre dita del piede sinistro, a effetto, che producono stupore e meraviglia per come escono dalla visuale e vi rientrano repentini, ça va sans dire.

Non avevo mai letto niente, di Riccarelli; conoscevo al contrario abbastanza bene la biografia di Mané, il passerotto, e buona parte della sterminata bibliografia a lui dedicata, o almeno quel tanto che ti porta a chiederti “Si può parlare di Garrincha encore une fois?”
D’altronde, in buona parte di quei libri calcistici, pseudocalcistici, filocalcistici e metacalcistici passati in rassegna, la figura di Mané tornava e ritornava incessante, come un mantra – o dovrei forse meglio dire un meme –, assurta a feticcio doriforo d’una visione poetica e trasognante del gioco più bello del mondo. Per questo ero un po’ titubante quando mi è capitato tra le mani questo suo libellino agilèrrimo, edito da Giulio Perrone, che s’intitola Garrincha e si compone di tre parti: una conversazione tra l’autore e Michela Monferrini, un racconto intitolato Passerotto (già incluso nella raccolta L’angelo di Coppi edita da Mondadori) e un’azione teatrale di dieci quadri omonima del libro. Leggi il resto dell’articolo

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Senza parallelo – una recensione a Sforbiciate di Fabrizio Gabrielli

[I lettori più attenti senza dubbio ricorderanno Sforbiciate, la rubrica – nata sulle ceneri de Il mondiale dei palloni gonfiati – di Fabrizio Gabrielli, che ha accompagnato i lunedì di SP durante la stagione calcistica 2010/11. Da quella rubrica l’editore Piano B ne ha fatto un libro. Lo hanno letto per noi Matteo Salimbeni e Vanni Santoni]

“Le idee dei grandi uomini sono patrimonio dell’umanità; ognuno
di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie.”

M. Schwob

Si può scrivere di calcio partendo da un dato, una partita, un gesto tecnico e svilupparlo in modo epico (o di cronaca); oppure si può partire da un dato immaginario, metterci un pallone, due squadre, un fischio d’inizio e lavorarci intorno e giocarci. Nel primo caso il lettore esperto di calcio è chiamato a confrontarsi con la rielaborazione che l’autore fa di un dato condiviso, del quale conosce i protagonisti e sul quale magari si è già fatto un’idea. Nel secondo caso, il lettore può pure non saperne nulla di calcio, l’importante è credere a quello che ti dice l’autore. Arpino, col suo Azzurro tenebra, partì da un angolo di storia ben preciso: i mondiali del ’74, e ci tirò su un paesaggio stellare, fatto di eroi, scontri titanici, drammatiche rese e colpi bassi, profezie a bordo campo e inevitabili tragedie, epiteti, litanie, scongiuri e sbronze leggendarie. Soriano se lo costruiva quell’angolo. Con un po’ di polvere, delle erbacce, i mapuches, Togliatti, la Patagonia. Fatto il campo da gioco, si inventava una partita. E magari la faceva pure arbitrare al nipote di Butch Cassidy. Gabrielli fa ancora un’altra cosa. Il suo Sforbiciate (Piano B, 2012) Leggi il resto dell’articolo

Sforbiciaudio #2 – Er core grosso come ‘n bovo *

* Se proprio volete leggere Er core grosso come ‘n bovo, cliccate qui.

 

ER CORE GROSSO, COME ‘N BOVO

Me chiamaveno Er Melanzana perché ciavevo la capoccia tutta lucida, senza capelli, come er culo de ‘na melanzana, anfatti.

Torvaianica n’è mai stata Copacabbana, ma io ce stavo bene: tajavo li quarti de manzo, preparavio le lombatine pe le signore der quartiere, me la divertivo a la sagra der torvicello che veniveno le giostre. Me facevo li cazzi mia, insomma.

Poi l’affari so’ cominciati a girà pure bene e emio messo su na botteguccia niente male, che a dije solo macelleria facevi ‘n peccato a gesuccristo. Eravamo ‘na boticche, diceveno li romani, ma sempre boticche de robba da magnà era; e io macellaro, me sentivo: fino a drentr’all’anima.

A Torvaianica certe vòrte d’estate ce veniveno pure li giocatori daa Roma, ce veniva Zigoni che je lo leggevi ‘n faccia quanto fosse fijo de na mignotta e Bobbo Vieri, però mica se veniveno a comprà l’animelle o l’ammazzafegate, a la boticche: ce se veniveno a pija er caffé.

Ar banco der caffé – brasigliano s’intende, che è er mejo – ce stava mi moje Marisella.

Lo vòi sapé come me la so ‘ntortata a Marisella?

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AMO L’UCCELLI (Una Mezzasorta di Outing)

Ci son mica mai stato, io, a fare bird-watching, a guardar gl’uccelli, è una ròba che in genere si fa la domenica, come lavare la macchina al jet-wash ma anche andare a messa o a caccia di quaglie beccacce cinghiali e poi mangiare la lasagna prima di incarognirsi con le vicissitudine calcistiche alla radio, ed io quelle son tutte ròbe che almeno una volta nella vita le ho fatte, di domenica, mentre il bird-watching, invece, no. Però l’ingleso l’ho studiato, e so che to bird è un verbo che pure senza watching di fianco puoi tradurlo con “appostarsi ed osservare pennuti svolazzanti”. (pennuti è un termine desueto e poco cortese, poi, mi sembra).

A meno che per “osservare gl’uccelli” non intendiamo “entusiasmarsi per calciatori con soprannomi di uccelli”, ed allora sì, che ne ho visti planare su di un campo.

Ultimamente, pensaté, all’Olimpico quando Roma si colora come Napoli c’è anche chi estrae il binocolo e si sofferma sull’apertura alare piuttosto che non quanto sia arcuato il becco di quell’aquila che quasi sfiora la platea, coi nastrini legati alle zampe, andarsene allo Stadio per fare del bird-watching, c’è da esser falchi, invero.

To bird non ce li ha, i significati sottesi delle sue controparti italofona ed ispanofona uccellare e pajarear.

Chi non dorme piglia pesci e pure uccelli, è questo quel che significa pajarear, pigliare uccelli, un po’ come Quaresma quella volta in Turchia, Quaresma che adesso fa la trivela per la gioia dei tifosi del Besiktas e mancavano pochi minuti alla fine della partita, altro che dormire, doveva correre sulla fascia su e giù per mettere al centro cross da trasformare in gol vittoria, mica poteva perder tempo coi cormorani che paciosi brucavano l’erba, allora si avvicina e zac, pajarea, forse in Portogallo si dice alla stessa maniera, abbranca il cormorano per la ali e lo porta fuori dal campo, sciò, uccellaccio del malaugurio, che porti male e poi non pareggiamo mai.

Gl’ispagnuoli, quando dicon che pajareano, vuol dire pure che se ne vanno in giro così, con le mani in tasca, senza lavoro, senza un’occupazione precisa, senza far nulla, un pajareante è un fancazzista, dopotutto, se non sapevate come si dice fancazzista in ispagnuolo, ora sì. Quaresma ha rischiato, poi, quest’estate, di essere una pajareante patentato, che con l’Inter non lo facevano giocare mai, gl’è toccato in Turchia, per dire. (Besiktas però è bello, come quartiere di Istanbul, alla fine, si fanno un sacco di ròbe, di domenica, a messa non ci si va ed i jet-wash non ci sono, che c’entra, ma il bird-watching, ecco, quella è un’attività assai diffusa).

L’Italia, invece, che sia un’uccellanda è risaputo, ed in periodi come i nostri, tempi d’uccellagione, è tutto un pullulare d’uccellame, dentro e fuori la voliera, dentro e fuori il campo di giuoco del calcio.

Succede che uccellare, oltre a catturare uccelli con trappole, reti o altre tecniche, senza sparare, diomìo no, sparare non si può, se non panzane, significhi pure ingannare, raggirare qualcuno con lusinghe. Allettare altrui a cader nell’inganno. Dileggiare. Irridere.

Ihih, ridere, fa ridere assai l’uso che si fa nel gergo pallonaro del termine uccellare: tecnicamente se sei un portiere, uno tipo Khalid Askri, anche meno scemo se vogliamo, ad uccellarti è l’attaccante quando ti fa un pallonetto. Tu credi di poterla prendere, ed invece ti trovi tra le mani una manciata di farfalle, t’hanno uccellato, bello mio. Che poi d’un portiere che sortisce a vuoto si dice pure che vada a quaglie.

Sono andato a cercare una supposta origine etimologica di “andare a quaglie”, sbatto in un forum di cacciatori, con la doppia c, non calciatori, cacciatori, uno diceva che c’era andato, a quaglie, non faceva il portiere, però, ed il risultato era: Oggi incontri sufficienti su quaglie cattive che pedinano come topi e reggono poco.

Che mi sembra un bel messaggio in codice, ròba che forse neppure a Radio Londra, in quanto a cripticità.

Codificare l’esperienza: quando appioppi a qualcuno un soprannome identifichi la sua essenza profonda e la trasmigri su di un referente significativo.

Garrincha, che mio padre c’ha giocato contro, Garrincha, poi un giorno ve lo racconto, si chiamava Manoel Francisco dos Santos ma per tutti era Garrincha, ch’è ‘l nome d’una specie di passerotti che beccano il mangime a Copacabana, era strabico, storpio, affetto da varismo ad un ginocchio e valgismo all’altro, zoppicava, Garrincha, come zoppicano i passerotti se gli tiri le sassate mentre beccano le molliche di pane.

Emilio Butragueño, che mio padre bestemmiava sempre, quando giocava Butragueño, era el Buitre, l’avvoltoio, un po’ perché aveva il fascino che c’ha il muso d’un avvoltoio, un po’ perché in quanto ad inopportuno opportunismo, lui, era inferiore a nessuno, rapace s’avventava su ogni palla e bèm, la buttava dentro, pure quattro volta di fila nella stessa partita, el Buitre.

Massimo Agostini, quando stava col Cesena, una volta ha fatto goal in sforbiciata, era estate e c’era la Coppa Italia, la Roma arrivava al Dino Manuzzi tutta baldanzosa ed il Condor, che pure lui era davvero un brutt’uomo, pure più ripugnante di Butragueño, faceva goal in sforbiciata, io cominciavo sempre più a somigliare a mio padre, bestemmiavo pur’io, adesso, davanti alle partite alla tivvù, non sta bene, gridava mia madre dalla cucina, non sta bene.

Soprannomi che hanno a che fare con gl’uccelli, poi, nel calcio, ce ne sono quanti ne vuoi, ed il più delle volte li si appiccica a uomini con dei numeri, campioni che possono uccellarti quando e come vogliono, la gallina Maxi Lòpez, Athirson il pappagallo (corri sulla fascia!, gl’urla l’allenatore, corro sulla fascia, ripete lui, corro corro co-rrrrrro, che pappagallo è Athirson), paperi quanti ne vuoi, da Abbondanzieri a Ubaldo Fillol, tutti portieri, i paperi, uccelli spesso uccellati.

E poi c’è il cuculo, il pollo, l’uccello spelacchiato che poi sarebbe Claudio Paul Caniggia, l’airone Caracciolo.

Il cigno di Utrecht. La Gazza reale. Marco Van Basten.

Ci son mica mai stato, io, a fare bird-watching, guardar gl’uccelli, ho detto prima, è una ròba che in genere si fa la domenica, come lavare la macchina al jet-wash ma anche andare a messa o a caccia di quaglie beccacce cinghiali e poi mangiare la lasagna prima di incarognirsi con le vicissitudine calcistiche alla radio, ed io quelle son tutte ròbe che almeno una volta nella vita le ho fatte, di domenica, mentre il bird-watching, invece, no.

Una volta, però, ho uccellato un portiere in pallonetto soffice, dalla trequarti.

Ed un’altra, su Scrittori precari, ho uccellato i lettori rimbambolendoli coi soprannomi dei calciatoruccelli.

Mi son detto: che ne facciamo, oggi, dei lettori?

La risposta, ch’è una mezza sorta di outing, è nel titolo. Provate a leggerlo tre volte di seguito:

amol’uccelliamol’uccelliamol’uccelli.

Che aquila, sono.

Fabrizio Gabrielli