I gatti dello zodiaco

gattini
di Matteo Pascoletti

La faccenda che i gatti, se li ignori, si avvicinano per strusciarsi e far le fusa mica lo so se è vera; non ricordo dove l’ho sentita la prima volta e non ho mai fatto ricerche approfondite. Se anche esistono studi scientifici di un certo spessore, non li ho letti. Dai ricordi non sovvengono particolari gatti che, da me ignorati, si siano avvicinati affettuosi o incuriositi, mostrando di averlo fatto proprio per quel motivo. Però questa cosa ce l’ho dentro e a volte ci penso. Forse perché tendo a evitare lo sguardo delle persone, in particolare se estranee, e la postura del corpo asseconda questo mio desiderio di deviare.
Uno dice “sarai timido”, “sarai asociale”, “hai qualcosa che non va”.
Io penso “sarà che son cazzi miei, anche”.
Comunque, nonostante le traiettorie di fuga, finisce che gli estranei mi danno facilmente confidenza. E allora penso alla faccenda dei gatti, e mi sento uno che i corpi estranei gli vanno addosso per strusciarsi lasciando il proprio odore. No: non quello strusciarsi tra persone, che poi se va bene dopo un certo arco di tempo finisce che scopi; dico quello degli animali che ti imprimono la propria esistenza addosso, e basta. Solo che le persone, invece di strusciarsi, per imprimere la propria esistenza sugli altri parlano.

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Sul ponte

Non c’era mai stato nulla tra me e il mare, eppure quella gran voglia di affondare il pedale e librarsi in aria con tutta la mia auto mi aveva quasi convinto del tutto. Sorvolare l’acqua, con l’ultimo salto della mia vita, volare e poi cadere giù, sprofondare nel mare oscuro fino a scomparire. Immerso nella notte liquida e nera, andare fino in fondo, con lacrime, ferro e tanto amaro in bocca. Sparire per sempre. Era sempre stata una buona idea, ma mai la mia in verità.

Quella notte ci pensai più del solito, immaginavo la sensazione che si poteva provare sapendo che avrei fatto una cosa per l’ultima volta nella mia vita, sentire il rauco respiro del motore, mentre le ruote girano a vuoto, in quell’eterna, ultima immagine dell’auto che si ferma in aria. Cascate di pensieri freddi e pesanti mi si riversavano addosso, come se in quel momento, in quel maledettissimo secondo avrei dovuto ripensare a tutta la mia vita, a tutti i miei errori. E non c’era alba che si vedeva in lontananza, nemmeno un chiarore proveniente dall’abisso dell’orizzonte, nessuno pronto a mettersi tra me ed il mare. Solamente il silenzio della notte, quel cupo lamento del vento che ti ricorda che sei schiavo di questo mondo e molto probabilmente lo sei al punto da non riuscire nemmeno a farlo quel salto. Io ci pensavo, lo conoscevo a memoria quel ponte, cemento per cemento, bullone per bullone. L’auto di traverso in mezzo alle corsie, con i fari accesi e il motore ruggente, io che fumavo nervosamente.

Poi, accadeva sempre la stessa cosa, quando mi decidevo ad andare, a farla finita, mi accorgevo di cose meravigliose, di bellezze ultraterrene nascoste nel pallore massacrante della quotidianità. Un barbone parlava alla luna, recitava i versi della sua anima piangendo commosso, un gatto giocava con il topo sul marciapiede, i palazzi in lontananza disegnavano una fenice col giallo della luce.

Allora infilavo la prima e me ne volavo a casa.

Jacopo Lubich

Fra due amanti, mentre il resto continuava e non contava

Gli amanti che non si parlavano

 

I pitosfori sull’autostrada odorano di notte. Le notti sull’autostrada si distinguono da tutte le altre notti per l’odore dei pitosfori. Le corsie sono illuminate dalla luce arancione, dalle segnalazioni, dai fari.

In una casupola a due passi dal cavalcavia una coppia di amanti si osserva.

Due corpi in una luce incerta.

I capelli castani posati sulle spalle, gli occhi, le gambe e le dita lunghe, l’espressione assorta, lontana: lui.

Un corpo affusolato e longilineo, ghiacci d’occhi… frammenti un po’ gelidi di stratosfera, movimenti di turbante sciolto nel vento: lei.

Perché non mi ami come ti amo io? pensò lei – lui l’accarezzò e lei si struggeva al suo tocco – Ti amo, ti amo, ti amo cercò di dirgli coi suoi occhi freddi.

Avrebbe voluto confidarsi con qualcuno (la comprensione degli estranei è sempre più saporita), ma con chi? Chi l’avrebbe capita o anche solo ascoltata?

Lui continuava ad accarezzarla, ma con compassione. Lei lo sentiva. Probabilmente le voleva bene perché la compativa, ma lei non voleva essere compatita: voleva essere sedotta.

Non poteva chiedergli neanche di sedurla: lo era già da tempo… da lui, dalla sua personalità, dal suo fascino, dal suo disordine d’artista. E lei, tanto ordinata, lo amava anche per questo. Ogni tanto, la sera, lui s’addormentava davanti alla tv accesa: si stendeva sul divano e dormiva. Allora lei, con assoluta delicatezza, si poggiava su di lui per tenerlo caldo.

Adorava quei momenti.

I loro due corpi uniti in quell’abbraccio di tepore.

A quel punto, molto spesso, si addormentava anche lei… con l’odore di lui in corpo e la speranza che accadesse quello che era accaduto a Epimenide: dormire cinquantasette anni e risvegliarsi in un mondo diverso.

In un mondo in cui quell’amore sarebbe stato possibile.

Nel sonno.

Lui la abbracciò.

Lei sentì due lacrime gelate sfuggirle dagli occhi… cercò di non muoversi – di non rovinare in alcun modo il suo sonno… era anche più bello mentre dormiva – angelico… si mosse lentamente – si avvicinò al suo viso e poggiò la propria bocca sulle sue labbra… poi, dolcemente, ritornò dov’era e si addormentò profondamente.

Il mattino seguente lei si svegliò fra le sue braccia: dalla finestra della veranda entravano i raggi del sole e l’odore dei pitosfori.

Appena sveglio diede fuoco al più bello dei ventiquattro preludi di Chopin, il settimo, e lo lasciò decantare come l’incenso

Andò in veranda e inspirò a fondo l’aroma dei pitosfori.

S’avvicinò al cavalletto e ricominciò a dipingere.

«Ti amo,» gli avrebbe voluto gridare, ma le uscì solo un miagolio strozzato.

Lui le andò vicino e prese a molcerle il pelo.

«Sei la gatta più bella del mondo,» le sussurrò.

Lei si lasciò carezzare e continuò a pensare al suo amore impossibile.

Antonio Romano