I gendarmi del buon governo vecchio – Sesta parte

[qui le puntate precedenti]

I tre gendarmi mi squadrano dal basso in alto, protetti dalle loro divise e dai loro manganelli. Penso alla sigla di un vecchio programma televisivo che trasmettevano quando ero bambino.

«Ragazzo! Ti sembra il momento adatto di cantare?» dice il più affascinante dei tre, quello che continua a sorridermi da un bel po’. Com’è bello penso tra me e me. Avrei voglia di baciarlo, mi sorride e quando lo fa è ancora più affascinante. Eccolo che si avvicina, spero mi dia una carezza, gli guardo le mani, possenti, delicate e forti al contempo. Deve essere un animo nobile.

«Ti terremo sotto controllo, per ora vai pure,» gli lancio un’ultima occhiata d’imbarazzo mentre rimetto il documento nel portafoglio. Mi allontano con il pensiero del gendarme buono ed affascinante che mi rimbalza in testa. Giro l’angolo e bestemmio i santi uno per uno e maledico quella merda di gendarme con quella faccia da culo e quei baffi orrendi e per giunta tagliati alla cazzo di cane. Per non correre rischi ulteriori opto per ritornare a casa. Mentre salgo i gradini del palazzo con la mia bici a tracolla, mi scontro con Ernesta, la saluto distrattamente fingendo fretta. Meglio non pensare a nulla.

«Ci sono passata anche io,» mi urla lei. «Cosa dice?» penso.

«Ti hanno pensierizzato per bene anche a te». Mi fermo, penso che forse dovrei parlare con Ernesta, potrebbe aiutarmi.

«Aspettami a casa, arrivo tra una mezz’oretta,» mi dice lei sorridendo.

Trascorro quasi un’ora in casa in attesa di Ernesta, finalmente bussano alla porta. Dallo spioncino vedo lei, vestita con il suo solito completino scuro che le lascia intravedere il seno deforme.

La faccio entrare e ci accomodiamo in salone, lei mi dà una carezza e mi rassicura, come una madre amorevole assicura il figlio impaurito.

«Ci sono passata anche io, ma sai bene la mia situazione privilegiata, non è impossibile uscirne, sono venuti in casa vero?»

«Sì, ma come hanno fatto?»

«Giocano sui tuoi ricordi, nessuna iniezione, nessun microchip, si basa solo sui tuoi ricordi, sulla suggestione… a me entrarono attraverso il senso di colpa di un’amicizia che troncai. Per caso hai riconosciuto delle voci familiari durante l’interrogatorio?»

«Sì, quella di mio padre».

«Come pensavo. Capisco che può sembrarti assurdo ma è come se fossero entrati attraverso una porta che tu gli hai involontariamente spalancato. Io per liberarmi della pensierizzazione ho dovuto rintracciare una mia vecchia amica che avevo tradito dieci anni fa, riallacciare un rapporto con lei, di sincera amicizia, e solo quando lei smise di avere rancore nei miei confronti, la porta si chiuse. Una volta chiusa la porta sei impenetrabile».

«Ma mio padre è morto da due anni, come posso fare?»

«Io non so perché tu abbia voluto aprire la porta di tuo padre, ora è da capire il perché ed una volta individuato, tentare di richiudere l’ingresso. Solo così potrai essere invulnerabile. Se non lo fai, nel giro di pochi giorni scopriranno tutto. Ci vorrà poco a scoprire i tuoi pensieri, soprattutto per chi sa riconoscere i pensieri falsi da quelli veri, potrai divincolarti tra i gendarmi meno esperti, ma quando busseranno alla porta di casa gli esperti in materia, mi dispiace dirlo, ma avrai ben poco da fingere. La tua ipocrisia forzata non durerà che pochi minuti. Credimi».

Purtroppo era sincera, così come sincera era la mia paura. Così come sincero era l’abbraccio che mi diede su quel divano. Ero al riparo in quel momento, avrei voluto addormentarmi, ma il campanello di casa prese a suonare.

Diventai di pietra. Ernesta anche.

«Non avvicinarti alla porta d’ingresso,» sussurrò Ernesta.

«Apri, lo sappiamo che sei dentro, ti abbiamo visto entrare con la tua bici!»

Quella voce mi era familiare.

«Riconosci quella voce?» mi chiede Ernesta.

«Penso di sì…»

«Potrebbero essere i gendarmi, vogliono provare a sollevare una seconda porta di pensierizzazione, così facendo avrebbero due entrate assicurate».

Ora il problema era questo: avvicinarmi allo spioncino per controllare chi era fuori la porta, avrebbe potuto causare la lettura di un mio pensiero, nel caso ci fossero stati i gendarmi ad aspettarmi. Ernesta era immune e prese ad avvicinarsi alla porta di casa, tentando di fare meno rumore possibile. Movimenti da bradipo. Lentezza. Respiro controllato. Tutti elementi necessari che però non le fecero notare il bastone di legno che era poggiato nel corridoio a pochi centimetri dall’ingresso.

Ernesta con il piede destro diede una botta all’asta che cadde in terra rimbalzando più volte fino ad assestarsi.

«Apri, sono io! Ma che fai ti nascondi?» la voce da dietro la porta insisteva sempre più familiare, tanto da farmi sollevare dal divano per andare ad aprire. Ma arrivai solo alla porta del salone, giusto per poter vedere Ernesta in fondo al corridoio che stendendo il braccio e spalancando la mano m’intimò di non avanzare. Mi fermai. La mia vicina di casa avvicinò l’occhio allo spioncino per vedere fuori, lentamente. Si voltò verso di me, non disse nulla. Io pensai che aveva degli splendidi occhi. Lei abbassò le palpebre e la pelle del suo viso evidenziò la tensione accumulata in questi pochi minuti.

 

CONTINUA…

Andrea Coffami aka Angelo Zabaglio

Pubblicità

I GENDARMI DEL BUON GOVERNO VECCHIO – Parte quinta abbondante

[Parte prima Parte seconda Parte terza Parte quarta]

«Pronto Luigi, come stai? Ti disturbo?»

«Ciao, beh veramente stavo iniziando un modellino, ho montato oggi i primi pezzi, ma ci vorranno anni, poi te lo farò vedere, sarà un gran bel cingolato. Dimmi tutto».

 

Non so come dirtelo e soprattutto non capisco se lo sto pensando o lo sto dicendo al mio amico. Opto per il nascondergli la verità, la verità fa male spesse volte. Io non vorrei mai sentirmi dire la verità, preferisco vivere nella menzogna, che a suo modo è più onesta e meno ipocrita della realtà delle cose. Io non voglio sapere che il diretto per Milano porta venti minuti di ritardo, ritardo da cosa? Cosa me lo dici a fare? Che ormai sono in stazione a girarmi i pollici! Portasse cento minuti di ritardo magari tornerei a casa, mi fumerei una sigaretta e tornerei in stazione con calma… e poi? Magari il ritardo diminuisce e perderei anche il treno, no. Preferisco attendere l’arrivo senza preoccupazioni, tanto poi durante il viaggio, il treno il tempo lo recupera. Fossero anche duecento minuti ma lo recupera. È una continua lotta contro il tempo, una corsa ad ostacoli per giunta. Una corsa dove se ti stanchi hai il Gatorade nella mano destra, mentre nella sinistra la staffetta da lasciare al tuo compagno che però è tornato a casa a fumarsi la sigaretta, visto che aveva letto il ritardo di cento minuti. E allora che fai? Devi aspettare il tuo compagno che torna da casa, che magari gli puzza l’alito di tabacco secco. Ed intanto l’avversario ti ha oltrepassato leggero, che accenna pure un sorriso coi piedi. No, guarda: preferisco vivere nella menzogna. Cosa mi interessa sapere se tu mi tradisci o meno. Fallo e siamo tutti e tre più contenti. Meglio felici in tre che depressi da soli. Non trovi? Dici che è un atteggiamento malsano? Diglielo al capostazione, diglielo a lui se è malsano! E vedrai come ti risponde!

«Io malsano?!» così ti risponderebbe.

No, no. Perché dovrei far soffrire un amico che non vede il genitori da anni? Perché dovrei uccidergli quella speranza che magari nutre nella sua già deperita anima marcia, piena di vodka e modellini in scala 1:1? Meglio tacere.

 

«Va bene Andrea, ora però calmati, cosa c’entra tutto questo discorso con la telefonata che mi hai fatto?» Cazzo! Stavo pensando a voce alta. Il che se ci pensate bene è un po’ assurdo. Anche perché ero sicuro di non aver mosso le labbra della bocca. Sarò forse un ventriloquo involontario? Ci riprovo. Luigi mi ascolti? (sempre senza aprire bocca)

 

«Sì Andrea! Ma sei impazzito? Cosa vuoi?» Poso la cornetta di colpo senza dare spiegazioni.

 

Non credo di essere io, probabilmente è il telefono il vero problema, mi convinco sia quello il problema.

 

Scendo in strada e mi avvio dal norcino. In fila, prima di me, un anziano signore indeciso se acquistare delle pere o delle mele. Sbuffo timidamente. Il norcino mi guarda stizzito, il signore si volta, mi squadra come un compasso che squadra un foglio bianco e indignato mi urla: «Ma andassero di traverso a te, maleducato villano!»

 

Porca puttana stanno sentendo i miei pensieri. Penso.

«Certo,» rispondono simultanei il norcino ed il vecchio.

 

Fuggo senza comprare nulla, afferro la bici e prendo a correre verso il parco, devo uscire da questa situazione assurda. La volante dei Gendarmi mi si affianca e mi chiude la strada. Sono nei guai, penso. Devo convincere me stesso di essere un bravo ragazzo. La vedo dura ma devo farlo. Non mi vengono in mente altre soluzioni. Nella volante sono in tre, io sono da solo con la mia bicicletta. L’auto si blocca, il gendarme più alto si avvicina, alza il braccio, mi scuote il ginocchio e mi chiede i documenti.

«Da grande voglio diventare un gendarme, dovrei chiedere loro come fare domanda,» penso mentre cerco la carta d’identità dal portafogli.

«È un bene che facciate questi controlli, è pieno di irregolari in giro,» gli dico.

«Lo sappiamo benissimo cosa è il bene e cosa è il male,» dice il piccoletto mentre osserva la mia foto. Non ero uscito benissimo in quella foto, avevo un gran mal di testa quel giorno.

«Dove stavi andando a quella velocità?»

«Tentavo di perdere i chili in eccesso»

 

Il gendarme nella volante si accende una sigaretta elettronica, mi guarda e mi sorride. Non so cosa pensare, ma lo faccio lo stesso.

 

CONTINUA…

Andrea Coffami aka Angelo Zabaglio

I gendarmi del buon Governo vecchio (parte in quarta e l’auto si spegne)

[continua da qui]

Gli stivali scuri e pesanti dei gendarmi sbattevano le piastrelle della cucina, voci ammassate e risate coatte e tronfie. Gesta di mobili gettati in terra senz’anima che trattavano con il pavimento.

Il cane della pistola che stringevo tra le mani, prese ad abbaiare.

«Zitto, accuccia, zitto», gli dicevo, ma nulla. Nel giro di sei secondi netti e sette secondi lordi tre gendarmi si fiondarono davanti ai miei occhi. Vestiti di nero e rosso, come le maglie del Milan ma più pesanti. Stivali scuri, manganelli blu e sirene sugli elmetti. Accese e roteanti luci blu elettrico. Sebbene i tre saranno stati alti due metri, ma in totale, quindi un settanta centimetri l’uno, mi presero e mi bloccarono da veri codardi: due mi pressarono le braccia mentre l’altro mi legò le caviglie impedendomi la fuga. Ed ora sono bel bello incaprettato, legato alla sedia di legno della mia cucina, come lo sbirro ne Le iene di Tarantino, ma senza sangue, e senza tanica di benzina, e poi lui era più muscoloso, ed aveva la camicia strappata, io no. Fatto è che da seduto avrei potuto guardarli fisso negli occhi, peccato che ero bendato.

«Allora hai nulla da dichiarare? Come mai avevi la porta chiusa a chiave? Cosa hai da nascondere?»

«Avete mai sentito parlare dei ladri?»

«Ti va di scherzare? I ladri sono stati debellati da oltre tre anni! Ci prendi in giro».

«Non leggo i giornali mi dispiace».

«E fai male, cazzone di un ebreo».

«Non sono ebreo. Ma cosa cercate? Io non ho fatto niente».

«Conosci una donna di nome Ernesta?»

Ho in mente Ernesta che munge il suo cavallo e si cosparge di latte il seno.

«No, non mi pare».

«Tu menti», dice una voce da sinistra, una voce che non avevo sentito prima di allora, una voce familiare però.

«Scusa ma tu sei mio padre?»

«Ma che cazzo dici? Parlaci di Ernesta cazzone di un ebreo o ti tagliamo i testicoli e teli mettiamo al posto degli occhi, lurida faccia di cazzo».

«Sentite: almeno levatemi la benda dagli occhi, ve lo chiedo come piacere personale, ho male al ginocchio, levatemi la benda».

Un silenzio imbarazzato di pochi secondi e poi: «Va bene, ma devi chiudere gli occhi, non devi vederci».

«E vabbè ma allora e tutto un cazzo! A parte il fatto che vi ho visto prima che mi bendavate, poi, cioè, che senso ha? Mica vado in giro a dire le cose in giro».

La voce familiare da sinistra aggiunge a mia difesa: «Ha ragione, ci ha già visti».

«Sì, ma non ci ha visti bene! Non farmi incazzare pure tu!»

«Ma sei sicuro che non sei mio padre?» chiedo curioso.

Un ceffone mi arriva in faccia con violenza incontinente.

«Sentite», dico loro «veniamoci incontro. Voi mi levate la benda e ve la mettete voi. Un po’ per uno insomma, già sto legato e poi mi fa male il ginocchio. Cosa volete che scappi con il ginocchio bendato?!»

La voce da sinistra familiare accenna un: «Si può fare, che ne dite voi?»

Sono sempre più convinto che si tratti di mio padre, se non è lui allora è mia madre travestita da mio padre. Del resto quando il cane della pistola prese ad abbaiare non è che sia riuscito a vedere nitidamente i volti dei tre, soprattutto di quello che stava sotto il tavolo, che saltava tentando di aprire il cassetto. Forse era lui, forse quell’uomo era mio padre, o mia madre.

Non vedevo i miei genitori da oltre dieci anni, dai tempi della democrazia fittizia del Dentone. Il Dentone aveva aiutato i miei genitori ad avere un posto di lavoro nelle sue reti televisive. Posto fisso valido sei mesi e rinnovabile con contratto a tempo determinato in assenza di bollini Tamoil. Mia madre era un cavo coassiale, mio padre una soubrette che declamava proverbi in rima prima delle previsioni del tempo. Ma si prevedevano tempi bui, quindi la popolazione impaurita acquistò in massa lampadine extra da posizionare in ogni angolo della casa. Angoli ottusi, angoli acuti, non c’era più nessuna differenza, anche se a spiegare le cose agli angoli ottusi ce ne volle! Ma alla fine ci arrivarono anche loro, ultimi ma arrivarono. Sfiniti e sudati ma arrivarono. Ma gli ultimi divennero i primi e quindi gli ottusi presero il potere, anche se solo per un breve lasso di tempo, sostituiti poi dagli acuti che presero il podere degli ottusi ed iniziarono a concimare cibi transgenici. Fragole che in realtà contenevano banane e viceversa, patate che in realtà erano chicchi di mais un po’ cresciuti. Robe così insomma.

I miei genitori si ritrovarono sul lastrico e una volta lì, dopo essersi salutati di nascosto da tutti, concordarono il piano per risalire la sorgente. Come delle trote che vanno controcorrente per poi essere afferrate da un orso affamato. Ed infatti, dieci anni fa mi arrivò la lettera del WWF che mi annunciava la tragica notizia: «Gentilissimo Andrea, con questa missiva le annunciamo la morte dei suoi genitori, mangiati da un orso nel mentre risalivano un fiume in piena nei pressi di Fregene. Sentite Condoglianze e quando lo sentirete ditegli che anche i suoi genitori hanno fatto la stessa fine, così risparmiamo un francobollo».

A quel punto richiusi la lettera, piansi lacrime sponsorizzate dalla Benetton e mi feci una pennichella di sei ore.

Una volta sveglio composi il numero e chiamai il mio vecchio amico Condoglianze Luigi.

«Pronto Luigi, come stai? Ti disturbo?»

«Ciao, beh veramente stavo iniziando un modellino, ho montato oggi i primi pezzi, ma ci vorranno anni, poi te lo farò vedere, sarà un gran bel cingolato. Dimmi tutto».

CONTINUA…

Andrea Coffami feat. Angelo Zabaglio

I gendarmi del Buon Governo Vecchio – Parte due

La notte fu tormentata e piovosa, durante il sonno venne a farmi visita il cadavere di mio nonno Antonio. Era bello come sempre, dal cappello stile coppola che aveva sulla testa sbucò fuori un granchio vivo che prontamente mio nonno, con i poteri da lui conferitogli, nominò “aragosta” per poi ucciderlo in dell’acqua bollente. Mentre masticava il crostaceo il suo fare era di chi non mangiava da giorni.

«Come si sta sotto terra nonnino?» e lui, da buon napoletano sorridente e incazzoso: «Nun s’ver manc’o cazz». Gli offrii del caffè caldo senza zucchero che bevve tutto d’un fiato come fosse acqua tiepida.

«Da quanto tempo è che non scopi nonno?»

Non rimase colpito da quella domanda e senza nemmeno guardarmi rispose: «Uuua’! Facimm riec’ann… quann’è ca mann’nchiav’cat abbasc n’gopp o cimiter? Riec’ann ja. E teng ‘na voj’ e chiavà ‘a nonn. No pp’uoòcappì… e pagammell a ‘na zoccol».

«Seeeeee qui a mala pena arrivo a fine mese mi metto pure a pagare una puttana ad un morto».

«Si n’omm e nient. ‘O sapev j».

«Ma tu la nonna l’amavi?»

«L’agg volut bbuon. Chill l’ammor l’ann purtat l’american a metà anni ’80, primm nun c’stev. Primm c’s vulev sulament bbuon. L’ammor era sul pe’ fij e zoccol… ma tu c’ n’ vuò sapè».

Detto questo mio nonno tolse il disturbo ed io rimasi come un ebete ad osservare il muro della cucina, pensando di aver sognato tutto: mio nonno, il cavallo della mia vicina, i gendarmi del Buon Governo Vecchio, il brodo di piede, ogni cosa. Ma qualcuno da fuori la porta bussava insistentemente. Erano i gendarmi. I gendarmi li riconosci dall’odore salmastro che emanano per contratto. I gendarmi ogni mattina sono costretti a cospargersi le spalle con della crema scura creata con dell’acqua Ferrarelle e sporco delle dita dei piedi.

Le scuole medie anteriori dal 1998 organizzano gite scolastiche mattutine all’interno del ministero del Buon Governo Vecchio. Nell’enorme stanza ovale ci sono gli addetti, addetti a creare la crema di cui sopra. Decine di impiegati seduti su delle sedie nere, gambe divaricate e senza calzini. Ai loro piedi altrettanto numero di donne anziane di origine vietnamita che minuziosamente estraggono lo sporco creatosi tra le dita dei piedi degli impiegati. Le vecchine utilizzano per tale scopo delle piccole listarelle argentate che passano tra un dito e l’altro dei piedi.

A causa di questa pratica le nuove generazioni di umani avranno le dita dei piedi distanziate sempre più, pian pianino, di generazione in generazione le dita arriveranno ad avere uno spessore massimo di cinque millimetri, poi ci sarà la fase del piede composto dal solo alluce e dal mignoletto che però, per istinto di sopravvivenza aumenterà di spessore, anche se poi alla fine le dita scompariranno del tutto e la Nike fallirà se non prenderà provvedimenti in tempo.

La seconda tappa della gita scolastica è Cinecittà dove si può ammirare il trono di Uomini e Donne. L’enorme testa di medusa di Fellini è utilizzata come urna elettorale per i parlamentari del Buon Governo Vecchio: ma questo utilizzo è solo durante il periodo elettorale. Nei rimanenti giorni il Presidente della Repubblica ha l’onore di poterci cagare dentro. Pena la decapitazione.

Il cesso presidenziale ha un timer con conto alla rovescia che parte da 23ore59min59sec.

Il Presidente deve, come obbligo contrattuale ed incarico del Buon Governo Vecchio, presentare escrementi propri e riconoscibili ogni 24 ore, naturalmente se il Presidente della Repubblica si trova in viaggio di affari all’estero, la grande medusa di Fellini verrà trasportata nell’alloggio del presidente, ma questo era anche superfluo dirvelo.

Fatto sta che si narra che la mattina del primo maggio 2001 il Presidente della Repubblica, che solitamente è un tipino arzillo che appena si sveglia va a fare la cacca, quella mattina non ne voleva sapere…

Andrea Coffami feat. Angelo Zabaglio