Lavorare, passeggiare, raccontare

Con la manifestazione del 9 aprile, che ha segnato un primo tentativo di unire in uno stesso corteo lavoratori (e non) accomunati dall’orizzonte della precarietà (anche se provenienti da contesti diversi),  è stata scattata la fotografia ancora parziale di una famiglia allargata, trasversale alle classi sociali e alle generazioni. Farsi vedere e raccontarsi, superare il senso di vergogna (magari per la differenza tra le aspettative e la realtà) e la paura del ricatto (sul luogo di lavoro), in una parola manifestarsi, rimane assolutamente necessario. Non basta infatti farlo una sola volta, ma deve essere pratica quotidiana e (possibilmente) condivisa. È questo il senso degli Stati Generali della Precarietà 3.0: tre giorni d’incontri che si terranno a Roma nel segno della condivisione di strumenti e strategie, dove «parlare dei nostri desideri, della libertà che vogliamo riprenderci, della forza che vogliamo far esplodere».

Simone Ghelli

Quello che segue è il programma dettagliato delle tre giornate:

Venerdi 15, @ LOA Acrobax [via della vasca navale,6]
dalle ore 19 accoglienza e concerto di Asian Dub Foundation

Sabato 16, @ GENERAZIONE_P RENDEZ-VOUS [via alberto da giussano, 59]:

dalle 21.00: serata di festeggiamento dei primi 6 mesi di occupazione di Generazione P – rendez vous
cena
+ proiezione della videoinchiesta sulla precarietà “Inpreca video”
+
proiezione del docufilmLampedusa next stopa cura di Insutv (presenti gli autori)
a seguire dj set

Domenica 17, @ Volturno [via Volturno, 37]:

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La guerra per gli avanzi

Voglio subito dire

di chi non è la colpa:

non dei genitori,

né degli amici

o degli amori passati e futuri.

La colpa è solo mia:

mia che ho creduto

e che poi ho disperato.

Ditemi ancora

quello che non sono stato,

che vi attendevate da me.

Ho tutto il tempo

di aspettare,

di sgranare il rosario

dei progetti condonati.

Ditemi quante volte,

tutte le volte

che avete scosso la testa.

Per voi

ho male alla testa,

per l’ostinazione

che mi ha respinto,

per i pensieri trattenuti

come catarro nel cervello.

Ditemi del vostro tempo,

dei sacrifici e degl’inganni,

di quanto ci siamo persi.

Ditemi ancora

che sono un balordo,

voi onesti farabutti.

Mia, solo mia è la colpa.

Mia l’eredità di chi ha ucciso il poeta

e lo stato civile.

Mia l’impotenza di questi anni,

il fallimento di ogni preparativo,

ogni inizio

che era già anche una fine.

E adesso,

che la colpa è stata data,

che sia questa una fine

e finalmente un inizio.

Non restiamo

al cappio degli strozzini,

appesi alle finestre

da cui non passa l’aria.

Non restiamo

alle logiche di scambio,

all’era dei voti a perdere.

Ma se non restiamo,

dove andiamo,

imbarcati

su voli low cost

o su treni soppressi?

Se non ci affidiamo

a voi meccanici

dei nostri ingranaggi,

dov’è che andiamo,

pieni di carta straccia

nel sottovuoto

del vostro immaginario?

Su, andate a lavorare,

razza di lavativi,

di perdigiorno,

di scioperati

che fanno sempre domenica.

Non attaccatevi

all’ombra dei padri,

non alla loro istituzione

o alla matematica delle poltrone.

Di quale equazione parliamo,

noi che l’uguaglianza

ce l’hanno sparpagliata

nei sondaggi,

che c’hanno sminuzzati

nei lavori a progetto

rinnovati via fax?

Quale coscienza ritrovare

nel tempo inflazionato,

sommersi dagli avanzi

dell’offerta,

rincorsi dai saldi

tutto l’anno?

Piuttosto,

ritrovare la colpa ogni giorno,

la smania di acquisto,

l’indebitamento col passato,

noi che la memoria

ce la stanno chiudendo

in cassaforte.

Noi che anche

a spendere tutto

non potremo mai

riprenderci niente.

È questa

la vostra economia,

il futuro in leasing

che c’avete programmato.

Rimasti

senza rappresentanza

non abbiamo

meritato

un futuro

senza deleghe,

bensì

un futuro

indebitato.

Piuttosto,

strappare tutte

le carte fedeltà,

azzerare tutte

le raccolte punti,

staccarne

a uno a uno

i bollini,

le esperienze

impilate

nei curriculum vitae.

Cos’altro direbbero ancora

delle nostre carcasse lucidate a nuovo

se nei garage dei loro buoni consigli

non ne trovassero più neanche una?

Che cosa direbbero

dinanzi al circuito vuoto,

derubato dei roboanti motori

che ci consegnarono per correre nel nulla?

Dopo la grande abbuffata,

finiti anche i resti della carneficina,

non restano che le posate,

le punte divelte con cui consumare anche noi

i nostri sacrosanti delitti.

Avreste forse qualcosa da ridire

dei nostri antipasti di chiodi,

delle nostre portate contundenti,

dei nostri bicchieri di solfiti

tinti di rosso?

Simone Ghelli

Il trasloco

E adesso?, mi chiede, dove vai, cosa pensi di fare, adesso?

Io gli sto seduto di fronte e ascolto la sua voce profonda. Mi è sempre piaciuta anche da bambino la voce di mio padre. Una volta, mi ricordo, una volta era in camera mia la sera, che mi leggeva una storia per farmi dormire. Mi leggeva una storia, che raccontava di un ragazzino con i capelli ramati, che era arrivato sulla terra per scoprire come vivono gli umani, e poi si affezionava ad una ragazzina e decideva di vivere qui, e faceva alleare il mondo nostro con il mondo suo, e vissero tutti felici e contenti. Mi ricordo che stavo a letto e lo ascoltavo, e mentre lo ascoltavo sentivo la testa che mi vibrava sotto i bassi della sua voce, e mi piaceva e l’avrei ascoltato per ore. Adesso, invece, non lo guardo nemmeno negli occhi. Anche la sua voce mi sembra diversa. Non ha più quel modo fermo che ricordavo. Sembra come che quella tonalità bassa, nasconda qualcosa che non va: insicurezza, domande. Allora io non lo guardo e sto seduto, e mi scortico le dita con la bocca, mentre tengo gli occhi fissi sulle scarpe di mia madre che sta in piedi davanti alla finestra e non dice una parola.

Il giorno che vinsi la borsa di dottorato ero a casa della mia ragazza, di Marta, e fu proprio lei a dirmelo. Io ero in cucina che facevo il caffè, quando la sentii urlare come una pazza e ridere in maniera isterica.

Sarà uscito un nuovo video degli Eels, pensai, conoscendo il suo innamoramento per Mark Oliver Everett, invece mi sbagliavo.

Mi accorsi che mi sbagliavo, quando la vidi arrivare in cucina saltellando con il portatile in mano. Quando lasciò il portatile con la pagina dell’università aperta, e quando mi mise le braccia al collo e mi diede un lungo bacio a stampo sulle labbra.

Marco, adesso che pensi di fare, Marco?, mi dice mio padre, adesso che torni a casa, che pensi di fare?

Io continuo a fissare le scarpe verdi di mia madre, e guardo i suoi passi attorno per la stanza. Sul tavolo, le tazzine sporche di caffè hanno lo zucchero indurito dentro. Penso che le lascerò nel lavandino senza lavarle, tanto, mi dico, tanto poi chissenefrega. Mio padre continua a chiedermi cose sul mio futuro a cui non so rispondere. Forse potrei dirgli che cercherò un posto da commesso nel nuovo centro commerciale vicino a casa, magari nel Trony, dove gli può interessare la mia laurea e il mio mezzo dottorato in ingegneria informatica. Magari potrei dirgli anche che poi, se mi faranno un contratto che duri più di due mesi, cercherò casa da solo e andrò a vivere con Marta, ma non riesco a dirglielo. Non riesco a dirglielo, perché, come mi aveva detto una sera un mio amico che studiava psicologia, quando dici una cosa è come renderla vera, è come se la facessi materializzare, e allora se rispondessi a mio padre, sarebbe come farmi crollare il mondo addosso.

Il giorno che venne revocata la mia borsa di studio, per ragioni di ordine economico e nonostante apprezziamo il lavoro da Lei svolto in questi due anni, così recitava la lettera di comunicazione, il giorno che venne revocata la borsa di studio con cui venivo pagato, andai subito nell’ufficio del preside di facoltà, che mi accolse preparato. La segretaria mi fece entrare senza attese e lui era seduto dietro la scrivania e mi disse accomodati, facendo il segno con la mano. Mi disse anche che, prima di lasciarmi parlare, aveva bisogno di dirmi che era estremamente dispiaciuto per ciò che era accaduto e che non avrebbe mai voluto una simile situazione. Aggiunse che purtroppo è un periodo di crisi e che tutti avremmo dovuto fare dei grossi sacrifici, tirare la cinghia, disse, ma che purtroppo erano cose che non dipendevano da lui. Forse, aggiunse ancora, forse ha proprio ragione il mio amico Pierluigi Celli, con cui eravamo a scuola assieme alle superiori, a dire che i giovani devono andare all’estero. Io lo lasciai parlare e, lì per lì, gli risposi che capivo, che era ovvio che non fosse colpa sua, ci mancherebbe, gli dissi, era solo che… poi non finii la frase, mi alzai, gli strinsi la mano e mi girai verso la porta. Nei cinque metri di tragitto verso l’uscita, pensai che quelle che aveva detto erano tutte cazzate, che lui aveva un potere decisionale e che, in fin dei conti, questo stato di cose, questo stato di cose dove i genitori negano il futuro dei figli, l’aveva deciso lui, non io. Mentre abbassavo la maniglia, pensai anche che quel Celli era proprio stronzo, perché è troppo comoda avere una posizione di potere e poi dire al figlio, vattene dall’Italia. Troppo comoda non assumersi mai le proprie responsabilità, all’interno di una situazione dove si comanda. Troppo comoda lavarsi la coscienza così, cazzo, pensai, mentre chiudevo la porta dietro le mie spalle.

Per riportare tutta la mia roba a casa abbiamo affittato un furgone. Mia madre è seduta in mezzo, fra mio padre che guida, e me, che guardo fuori dal finestrino. Dopo aver chiuso la porta di casa, caricato le ultime due valigie e consegnate le chiavi alla portinaia, che mi ha salutato dicendomi che le spiaceva tantissimo che me ne andassi, non ho più parlato. Dopo aver sorriso alla portinaia, non ho più detto una parola.

Una volta in autostrada, ho acceso la radio, che rompesse la monotonia del solo rumore del motore che si sentiva in macchina. Il dj parla delle settimane bianche prenotate per il mese di dicembre, per le vicine vacanze di Natale. A riguardo, intervista il direttore di un importante albergo di Cortina.

Devo dire che nonostante la crisi ci sono moltissime prenotazioni, dice con voce composta e accomodante, alla fine una settimana di lusso e svago non se la nega nessuno.

Mio padre continua a fissare la strada, come ipnotizzato. Scuote solo leggermente la testa, poi mi lancia un veloce sguardo e abbozza sulle labbra un sorriso amaro.

Alessandro Busi

Precari all’erta! – Il buon vecchio caro proibizionismo

Il buon vecchio caro proibizionismo.
Di tanto in tanto ritorna, soprattutto in tempo di crisi, c’è poco da fare. La storia c’insegna che il proibizionismo non è un rimedio, ma pare funzioni ancor oggi parecchio per tener buono il popolino, soprattutto quando avvezzo a delegare ogni decisione ai propri governanti e a non controllarne l’effettivo operato (e in questo il nostro paese di evasori è senz’altro campione eccelso).
Con la nuova sensazionale campagna mediatica contro i minorenni alcolizzati, sembra che i nostri politici, e con essi le loro televisioni e giornali annessi, si siano improvvisamente accorti che i nostri ragazzi e le nostre ragazze non sono proprio casa e chiesa come si pensava (e voglio ben dire, visti i papponi che circolano sulle varie copertine patinate per gossippari).
I giovani si ubriacano, si drogano, sono senza valori!, ma la Milano da bere offre adesso il buon esempio, e dietro di lei già altri comuni si accodano: divieto assoluto di somministrare alcolici ai minori di sedici anni.
Dopo anni di menefreghismo, in un paese per vecchi come il nostro, tutti sembrano improvvisamente interessarsi alle giovani generazioni, preoccuparsi per il loro futuro. Inutile pretendere un’analisi delle cause, parlare ad esempio del vuoto culturale che come un crepaccio si è aperto e ci ha ingoiati in tanti nel bel paese. Improduttivo ragionare sul modello imprenditoriale che sembra prevalere ovunque, o del becero razzismo che ormai domina le più disparate rivendicazioni locali. Attendiamo fiduciosi che arrivi il vegliardo di turno, magari qualche luminare del cervello, a dirci che i giovani d’oggi son peggio di quelli di ieri. Tanto, se proprio bisogna affidarsi ai luoghi comuni, è meglio non risparmiarsi, e allora ben vengano le interviste agli adolescenti strafatti fuori dei locali (perché se certi filmati ci scandalizzano su youtube, non altrettanto vale per la televisione), o magari qualche servizio su film o videogiochi rei di aver dato il cattivo esempio. Il sottoscritto, ad esempio, ha visto tanti di quegli horror da rischiare di svegliarsi un bel giorno con i canini grandi come zanne, o con la malsana idea di andare in giro munito di una collezione di coltelli da macellaio, chi lo può sapere…

Io però non vi consiglio di seguire il mio esempio, perché a leggere tanti libri e a vedere tanti film si produce e si consuma poco, e magari avanza pure il tempo per un buon bicchiere di vino. Se proprio vi dovete scaricare, cari i miei giovincelli, la pubblica opinione consiglia invece le ronde che stanno istituendo un po’ ovunque e, udite udite, ci sarà presto posto anche per voi, perché corre voce che l’età per potersi arruolare verrà abbassata a 18 anni . Insomma, rimettetevi in forma, e che caspita! Volete mettere la sana ginnastica di una volta anziché il fegato appesantito e la mente obnubilata?

Simone Ghelli