L’inutilità del genio post-moderno /4

Sull’ironia sono stati scritti trattati a non finire. Credo sia ironia anche questa: scrivere all’infinito su qualcosa che non si può descrivere. E scrivere all’infinito significa impedire di leggere e capire qualcosa.

Sull’ambiguità tutti concordano nel dire che sia essenzialmente seduttiva: la donna che si vela, la luce soffusa, il vedo-non-vedo, l’ammiccamento, etc.

Elementi differentissimi, sembrerebbe. Sembrerebbe…

Ma esaminiamoli meglio.

L’ironia è un concetto polivalente: finzione e disvelamento della verità tramite la finzione. Ma formalmente finzione. Deduzione ovvia, che nel Volo diventa teodicea assiomatica: la verità si esprime tramite la finzione, posso meglio indovinare le fattezze dell’attore vedendolo in scena mentre si finge chi non è piuttosto che sentendomele descrivere direttamente da lui al telefono.

Tramite questo assioma arriviamo direttamente al secondo termine del teorema: l’ambiguità. La verità, che vive nel reale (la teoria di Tarski è che siano veri solo i predicati riferiti ai soggetti al modo indicativo), è ambigua tanto quanto il reale stesso: come dire, in un milione di metri cubi di banane tutte le banane si somigliano e non c’è praticamente differenza fra la banana buona e quella così così. Insomma, per scoprire la verità ci serviamo della finzione, ma così tutti i fatti – annacquati in un così così di verità e falsità – diventano ambigui, mezzi falsi e mezzi veri.

Il Volo è l’espressione di questo ragionamento.

Esiste la verità? La letteratura può raccontarla? Può uno scrittore cambiare?

La verità non esiste o almeno non è alla portata degli uomini. E qui, come motivazione, si potrebbe addurre qualche bel sofisma del tipo: la verità vera è solo coincidente con l’Assoluto (o Dio o Vattelappesca), quindi preclusa alla finitezza umana. Raffinato, se vogliamo. Ovviamente i sofismi ci piacciono e ne facciamo largo uso, ma stavolta affidiamoci al dogma: la verità, almeno nelle cose umane, non esiste. E non esiste perché è la razionalità stessa che la uccide. Esempio: l’omicidio a livello istintivo è sentito come un’azione che merita una punizione equipollente, ma a livello morale e razionale e culturale si disconosce una simile eventualità e l’assassino finisce in galera o viene giustificato in via politica o ideologica o sociologica o antropologica o psichiatrica o etc.

Va da sé che la letteratura è arbitraria tanto quanto la verità. E sono proprio i libri razionali come il Volo che uccidono la verità coi raffinati ragionamenti e le adulterazioni dell’intelletto (le sue “astuzie” direbbe qualcun altro). La letteratura non racconta la verità, ma piuttosto una disposizione di eventi interiori ed esterni a cui dare una direzione e una meta qualunque. Meta che poi viene spacciata per verità, perché – come dicevo altrove – ogni scrittore è un dittatore mancato.

Infine: uno scrittore può cambiare? – questa è la domanda più affascinante. Moravia diceva, e io – in linea di massima – condivido, che uno scrittore è come un uccello: ripete il suo verso, può modificarlo, ma il verso è quello. Il vero Scrittore, maiuscolo, può solo ripetersi. La differenza fra uno scrittore mercificato che si ripete in serie e uno Scrittore maiuscolo che ripete il suo verso (il talento fa quello che vuole, il genio quello che può) è che lo scrittore mercificato annoia e lo Scrittore maiuscolo affascina. Uno Scrittore sostanzialmente non cambia. Stephen King cambia, ma perché lui è un tecnico talentuoso della sua materia (ma perfino lui non cambia l’eptalogia La Torre Nera); Liala non cambia, ma non perché è una Scrittrice, bensì perché non può cambiare per l’ossessività insita nel suo tema, che disponendo d’infiniti potenziali intrecci imprigiona l’autrice; l’immenso Dostoevskij non cambia e non annoia, per la buonissima ragione che lui, di libro in libro, mantenendo il suo tema, cerca d’ibridarlo con ciò che vede intorno a sé e lo interessa al di là del tema.

Il Volo è il prototipo di ogni mio libro, che conserva allo stesso tempo l’impostazione del concept work e la frammentarietà dell’ispirazione, il linguaggio freddo e distaccato del raziocinio e la liricità dell’ego, oggettività e soggettività: perché, dopo aver descritto l’equazione, il gusto è commentarla partendo da quel pozzo di soggettività che, indiscutibilmente, come ogni autore, mi porto dentro.

A questo punto bisognerebbe spiegare cos’è il Genio – in letteratura. È un contenuto geniale? Una forma geniale? È innovazione?

Il Genio in letteratura è riuscire a creare addosso a un’idea qualunque un linguaggio che gli si adatti perfettamente e riesca a traghettarla dalla sua astrattezza alla concretezza del momento particolare. La prolissità di King crea suspense, l’aridità di Moravia esprime meglio di tutto il pensiero analitico (per non parlare di una letteratura improntata al realismo socialista), le pirotecnie di Joyce esprimono il tumulto dell’interiore e il tomismo e gli accidenti sbalestranti del fenomeno, etc.

In letteratura un’idea geniale non crea il Genio, così come non lo crea una forma geniale. Il nodo, il raccordo, la congiunzione fra idea e modo di esprimerla crea il Genio. Il Genio non può che darsi in via combinatoria.

Ecco perché un Genio, fin dalle prime battute, anche se è indefinito o ancora impacciato, è riconoscibile.

Bisogna, però, arrivati a questo punto, fare una precisazione: il libro Geniale non è detto che venga partorito da un Genio, ma il Genio produrrà sempre un libro geniale.

 

A questo punto l’ultima domanda: a cosa è servito quello che fin qui avete letto?

Neanche a questo uno scrittore può rispondere.

 

Antonio Romano

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L’inutilità del genio post-moderno /2

Entriamo ora nel vivo. «Ogni uomo è un debitore e un mimo, la vita è teatro e la letteratura è una citazione»: Emerson, Società e solitudine. Questa citazione extra ci dà il là per la prossima domanda pleonastica e retorica che dobbiamo porci: di che cosa la letteratura è la citazione?

(Citazione, dunque contagio da un testo all’altro. Contagio esclusivo perché non per tutti e non in tutte le modalità).

Se questa letteratura di cui ci riempiamo la bocca è, come abbiamo visto, un’illusione repertiata e reiterata all’infinito nello spazio e nella storia ed è anche un morbo elitario, inevitabilmente dobbiamo ricercare la sua fonte originaria – cioè la cosa di cui è citazione – in campi analoghi a quelli rilevati.

Illusione (o menzogna o sogno o visione o come si vuole), morbo, fenomeno elitario: dove arriviamo? Arriviamo a una malattia poco comune che ha molto a che fare con l’illusione.

Marx e Freud dicevano (mutatis mutandis) che l’automatizzazione (leggi: reiterazione, compulsività) aliena e uccide (alienazione e thanatos, questi i principi che approfondirono in tal senso). Dunque, questa malattia rara d’illusione vestita, è mortifera e alienante.

La risposta diventa improvvisamente chiara, addirittura lampante: la letteratura è citazione della follia.

L’arte della follia. Il rapporto fra follia e creazione artistica ha creato da sempre curiosità e interesse. Perfino la follia di Nietzsche, quindi non un artista nel senso “tradizionale” o “comune” del termine (è meglio sorvolare sulle sue liriche pubblicate postume in uno stile decisamente brutto e accademico), ha stimolato non poco la fantasia degli studiosi, impegnati a capire se sia stata la follia a influenzare la sua filosofia o se la sua filosofia abbia determinato la follia (in questa sede preferisco trascurare il cinico dato della febbre sifilitica).

Quella di Nietzsche è un caso decisamente poco comune: prescindendo dalle modifiche apportate dalla sorella filonazista Elisabeth, la sua opera si caratterizza per la complessità con cui si snoda attraverso tematiche e registri stilistici assai differenti. Dall’organico saggio letterario-filosofico La nascita della tragedia all’apologo filosofico-favolistico espresso quasi unicamente per aforismi del Così parlò Zarathustra, al libro quasi propriamente filosofico di Considerazioni inattuali o Umano, troppo umano.

Ben consapevole del rischio che si corre di sollevare diatribe già ricorse nel mondo della filosofia e della letteratura, sono tentato di sottolineare la raffinata letterarietà dell’opera del filosofo. Pare quasi che Nietzsche abbia compreso l’importanza d’un linguaggio capace di coinvolgere ed esprimere, lontano dai peripli linguistici d’un Kant o d’uno Hegel (non a caso i testi di quest’ultimo furono definiti da Schopenauer «il più inutile, insulso sproloquio di cui si sia mai accontentato una testa di segatura» espressa nel «linguaggio più orribile e anche assurdo, che ricorda il delirio dei folli»). Sembrava aver colto il problema stesso del dire, così come lo colse in seguito Heidegger, che probabilmente ne aveva abbastanza di dover lavorare con un linguaggio che lo costringeva a scrivere frasi come «Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere».

Lo stile nietzschiano è sobrio, ma ricco; asciutto, ma evocativo; abbordabile, ma elegante. Si tratta d’una vera e propria opera di divulgazione, fatta sia per filosofi che per letterati che per uomini comuni.

Quindi anche per Nietzsche si può innescare una delle suddette diatribe su filosofia e letteratura. Diatribe del tipo: Leopardi, Esopo, Dante Alighieri, De Sade, Borges, Machiavelli, Henry Miller, Orazio, Jean de La Fontaine, S. Francesco sono più scrittori o più filosofi? Confucio, Rousseau, Platone, Sartre, S. Agostino, Pascal, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Kierkegaard, Voltaire sono più filosofi o più scrittori? Per non parlare di casi affini a quelli di La Rochefoucauld, Buddha, Hölderlin, Novalis o lo stesso Nietzsche.

Ma non è questo l’argomento di cui stiamo parlando, perciò ritorniamo al discorso interrotto poco fa.

Un altro dei molti punti in comune fra follia e arte è Van Gogh. Impressionista ante litteram, colpito dalla nausée du vivre prima di molti altri, fragile e forte, visionario e depresso. In lui c’è la sintesi di molti motivi esistenziali e anarchici, superomistici e decadenti, artistici e volgari: un Machiavelli della pittura, azzarderemmo.

All’orecchio di Van Gogh si possono dare mille significati (oltre quelli ufficiali): rifiuto, depressione, ribellione, autolesionismo pseudo-religioso e ancora ricerca di sé, effetti della vita, edonismo masochista, etc…

Come mille significati si possono dare allo stile e alle opere di De Sade, alla sua psicologia, alla sua dialettica, alla sua follia, agli intermezzi filosofici in Justine o in Filosofia del boudoir o nei Dialoghi filosofici.

E ancora il succitato Hölderlin, morto folle dopo essere stato un precoce filosofo e un precocissimo poeta. Quasi identico a Lucrezio, che addirittura, come riporta l’arguto padre della chiesa S. Gerolamo, scriveva per intervalla insaniae.

Tirare le somme di quest’argomento è quasi impossibile (non dico del tutto impossibile solo perché sono convinto che nulla sia impossibile), oltre che per scarsità di studi in merito, perché si cadrebbe sicuramente nell’opinione soggettiva.

L’unico modo per capire se la follia sia elemento integrante della produzione artistica o se piuttosto la produzione artistica conduca alla follia sarebbe diventare pazzi o artisti (che, in fin dei conti, sono praticamente la stessa cosa: o, meglio, sia i folli che gli artisti godono della “lateralità”).

Oppure si potrebbe provare a sostenere la seguente ipotesi: l’artista è un pazzo e viceversa.

Cosa fa l’artista nelle sue opere? Coglie il circostante, lo destruttura… lo smembra, lo rielabora pezzo per pezzo e lo ricostruisce in una propria maniera originale. Il processo patologico della follia è il medesimo. Il pazzo destruttura e ricostruisce la realtà a proprio uso e consumo.

La creazione dell’opera d’arte, insomma, si serve dello stesso processo di derealizzazione del mondo che nel folle è spontaneo. L’artista si serve della sua sensibilità e della sua cultura per ricostruire la realtà, la ricostruisce – per così dire – “umanisticamente”. Mentre il folle opera tale processo servendosi d’una logica; della sua logica, che ricostruisce tutto in termini fondamentalmente incomprensibili per gli altri esseri umani. Ma logicamente! Potremmo arrivare a dire che, mentre l’artista “pecca” di soggettività, il folle conserva una certa logicità all’interno della sua follia. È vittima della propria logica, mentre l’artista lo è della propria sensibilità.

E seppure fosse illogico, il folle, sarebbe comunque antiumanistico.

De Sade, all’incrocio fra arte e follia, dava dei significati propri a concetti comunemente accettati dalla società a lui contemporanea. Così come un secolo dopo avrebbe fatto Nietzsche con la filosofia, Van Gogh con la pittura e come aveva fatto Lucrezio con la poesia.

Tutti loro avevano trasposto la destrutturazione del reale nell’arte, con risultati davvero eccezionali. Altri intellettuali e artisti, pur bravissimi e preparatissimi, non sono stati in grado di raggiungere i risultati di uno dei personaggi succitati.

E perché questo? Perché non erano “pazzi”.

 

Antonio Romano

L’inutilità del genio post-moderno /1

Si è veri soltanto nella misura in cui

non si è ingombrati da nessun talento.

Squartamento, E.M.Cioran

 

Il talento fa quello che vuole,

il genio fa quello che può.

Autoritratto, Carmelo Bene

 

Tre domande inutili che non c’era bisogno di porre

È sempre difficile scrivere o parlare di una storia di cui si è pure protagonisti, ammesso che uno scrittore riesca a far dell’altro.

Mi trovo quindi in difficoltà dovendo parlare di genio, ma soprattutto dello scrivere storie. Ci converrà affrontare innanzitutto una domanda – o, per meglio dire, una serie di domande su cosa abbiamo intorno da un punto di vista narrativo e poetico in questo periodo della nostra evoluzione.

Insomma, che letteratura esiste oggi?

La domanda è, ovviamente, capziosa retorica e arbitraria; questo perché si potrebbe facilmente obiettare che non esistono compartimenti stagni in queste cose, ma solo un unico lungo corridoio che si snoda facendo benissimo a meno di definizioni ed etichette, oppure che io come chiunque altro non ho la risposta alla domanda che ho appena posto e che tartassa tantissimi come me.

Obiezioni perfettamente legittime se solo non fossero del tutto fuori luogo vista la loro ingenuità, perché è ovvio che la domanda è capziosa retorica e arbitraria, e farlo notare è da idioti pedanti. Il punto è che ci serve un pretesto. Come in ogni narrazione che si rispetti.

Eccoci quindi a dare una risposta a una domanda che praticamente nessuno ha posto: la letteratura di oggi è, volente o nolente, post-moderna – nessuna novità, quindi, sotto il sole. Il post-moderno (che è strutturalista quasi per definizione, o nel linguaggio o nel contenuto, visto che è privo – a differenza degli stili e dei modi “tradizionali” – di unità spazio-temporali ben definite) ci sta lentamente riconducendo a una letteratura più di confini che di confine. Rizomatica. Dove la ricerca di una struttura sarà più importante della ricerca forzata del colpo di scena a ogni costo.

Ma queste sono velleità. Ritorniamo al punto della faccenda: la letteratura che si fa oggi subisce la spinta e la fascinazione del post-moderno. Per questa ragione, anche io, per esempio, volente o nolente, produco letteratura di tal fatta (seppur blandamente).

Cioè produco “scoregge letterarie”, che si dissolvono nel vento prive di consistenza.

Difatti, i racconti di un mio vecchio libro, Il volo interrotto, non hanno stile, la loro trama è scarnificata e sono privi d’un’“atmosfera”.

Sempre cercando di capire cos’è oggi la letteratura, potremmo rivolgerci a un film molto famoso, in cui, a un certo punto, il protagonista maschile dice alla protagonista femminile: «Prima regola, Clarice: semplicità. Leggi Marco Aurelio: “Di ogni singola cosa chiedi che cos’è in sé? Qual è la sua natura?”. Che cosa fa quest’uomo che cerchi?» A quel punto lei risponde: «Uccide le donne». E lui: «No, questo è accidentale. Qual è la prima, la principale cosa che fa, uccidendo che bisogni soddisfa?» E lei: «Rabbia, senso di colpa, frustrazione sessuale…» E lui: «De-si-de-ra».

Che cos’è la letteratura? Qual è la sua natura? Molti hanno scritto di questo.

Saba, in Quello che resta da fare ai poeti, dice: «La letteratura sta alla poesia come la menzogna sta alla verità».

Toklas, nell’Autobiografia, riporta una frase che Gertrude Stein disse a Hemingway: «Le osservazioni non sono letteratura», che potrebbe farci intravedere un’idea di letteratura come qualcosa di diverso dalla realtà – cioè dall’osservazione di cui parlava la Stein.

Calvino, dicendo in Se una notte d’inverno un viaggiatore, «La letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità», ci autorizza a dire che s’invera e diviene carne mentendo. Un po’ come Giorgio Manganelli.

Roland Barthes, da Mitologia, ci avverte che «la letteratura, in fondo, è un’attività tautologica», cioè ripetizione.

Jean Giraudoux, sulla stessa lunghezza d’onda di Barthes, afferma che «il plagio è alla base di tutte le letterature, tranne la prima, che d’altronde è sconosciuta»: la letteratura è ripetizione – cioè finto movimento. Non differenza, ma ripetizione.

E se finora la letteratura sembra solo una finzione o quasi, con Pietro Abelardo arriva a sembrare un pericolo: «Bisogna prendere speciali precauzioni contro il morbo della scrittura, perché è una malattia pericolosa e contagiosa».

In apparente contrasto ritroviamo l’esclusività della scrittura sottolineata da Brendan Behan: «I critici sono come eunuchi in un harem. Sono presenti ogni notte, lo vedono fare ogni notte, vedono come andrebbe fatto ogni notte, ma non riescono a farlo».

Queste ultime due citazioni sembrerebbero cozzare fra loro, ma poi ne isoleremo le similitudini.

A ogni buon conto, comunque, visto che come disse Pascal, «l’eloquenza continua annoia», concludiamo qui l’elenco delle testimonianze altrui tenendo conto che queste poche sopperiscono alla mancanza di tutte le altre affini.

 

Antonio Romano

Idioteca*

Angie dorme, una volta tanto dorme.

Le cimici sono troppe per ammazzarle tutte, poi puzzano. Sono troppe anche per invitarle gentilmente a volare fuori dalla finestra, allora un giorno Gianluca prenderà un barattolo di marmellata, senza marmellata, un barattolo di vetro vuoto con il coperchio e l’etichetta mezza strappata dall’acqua bollente che sterilizza, prenderà le cimici e gliele chiuderà dentro, vive. Quattordici cimici agonizzanti sulla scrivania, le pareti del vasetto puntellate di merdine bianche e ogni volta che lo aprirà Gianluca sentirà una puzza come di malattia.

La mia arma di distruzione di massa da tavolo, dirà Gianluca. Qualcuno arretrerà sorridendo.

Mi fermo sempre più spesso a dormire a casa sua e poi non dormo, ma lei sì, come adesso, e dorme sempre con il termo spento. Sentirsi una cimice o una merdina di cimice è un attimo, di notte: di notte, con Angie zitta che dorme di là, è un attimo sentirsi piccoli e sotto vetro.

Poi inizia a piovere, e il rumore riporta Gianluca alle sue dimensioni. Piove: possiamo smettere di piangere, possiamo chiamarla doccia, possiamo aspettare che passi, che spasso.

La pioggia sembra il rumore degli applausi, dice cugino Lubitch: sono contento di suonare quando piove.

Ci sono cugino Lubitch, due coccodrilli, un orangotango, due piccoli serpenti, un’aquila reale, il gatto e il topo. Non manca più nessuno, dice cugino Lubitch, senza considerare l’elefante. Stamattina Lubitch si è dato una martellata sull’alluce. Apposta. Quando hai un martello in mano tutto ti sembra un chiodo, mi dice sempre Lubitch, e in mancanza di bersagli migliori piuttosto mi sparo in un piede.

Gli scappa una madonna. Non sono mai stato un gran chitarrista, mi dice.

Sei un gran bruciato, Lubitch, i fischi delle bombe di quando eri piccolo come palline da flipper tra le ossa della testa, e smandiboli ogni volta che senti parlare di soldi, ma continua, continua pure. C’è un posto in mezzo all’India in cui mandano in giro gli elefanti con una campana al collo, come le pecore. Cosa c’entrano gli elefanti, cugino Lubitch? Cosa c’entrano le pecore? Aspetta, fammi finire. Gli elefanti indiani con tutte quelle orecchie marciano al rintocco funebre del campanaccio, ci mancano solo i corvi e i gufi e la nebbia, ma per fortuna che siamo in India. Però sono tristi lo stesso, gli elefanti, esasperati e disperati. Ma la disperazione è la madre del genio, dice Lubitch: l’elefante è una bestia intelligente, perché sa che la sete gli salverà la vita: di notte, gli elefanti indiani vanno a bere nel Fiume Santo e infilano la proboscide nell’acqua: ma santa non è l’acqua, santo è il fango della riva melmosa che intasa il campanaccio e smorza il batacchio che picchia sullo sporco e si sente quasi solo: silenzio.

Silenzio e rumore del fiume (sembra il rumore degli applausi), rumore del fiume con sopra i nostri nemici galleggianti, il contrabbandiere inglese vestito di kaki e il suo labrador da accarezzargli la testa, e nell’altra mano un Cointreau senza ghiaccio.

Soprattutto non gradiamo la stupidità, e parliamo al plurale molto spesso quando siamo da soli, ma poi ci mettiamo in gruppo e ognuno inizia a dire: Io. Tra stare soli e stare in gruppo si può sempre decidere di stare in due, io e te, non avevamo neanche vent’anni e tu strisciavi un dito contro la tela della tenda e mi chiedevi: Cosa sta dicendo adesso il cantante? E io: Arriva l’Era Glaciale, arriva l’Era Glaciale, prima le donne e i bambini, prima le donne e i bambini. E tu ridevi, è una cosa idiota da dire ma eri bella quando ridevi, ormai l’ho detta, l’ho detta in ritardo, l’ho detta a tutti e non l’ho detta a te, come non detta.

Soprattutto non gradiamo i trucchetti dialettici, dice Angie.

Si è svegliata, le scappa la pipì. Guadagna il bagno, torna a letto e in effetti no, Gianluca non c’è, non è ancora venuto in camera. Sarà di là che disegna, pensa Angie, e mentre pensa arriva in salotto e mi trova addormentato sul divano.

Bell’artista che sei, gli artisti non dormono mai.

Veramente quelli che non dormono mai sono i cinesi, Angie. Lo dice anche cugino Lubitch. E poi non dormivo: mi riposavo gli occhi. È tutta la sera che disegno. Sono stanco.

Sono stanco.

Sono stanco, se gli metti la G, diventa sogno stanco!

E se gli metti la U diventa suono stanco, grazie tante, niente trucchi, vieni a letto?

A fare che?

Simone Rossi**

*Idioteca lo trovate in Sbriciolu(na)glio. Sbriciolu(na)glio è un raccolto postumo di simonerossi, per capirne di più leggete qui

**Simone Rossi sarà ospite di Scrittori precari il 18 marzo 2010 alle ore 21 presso l’Associazione culturale Simposio, in via dei Latini 11/ang. via Ernici, a San Lorenzo (Roma).