Gazza’s Superstar Soccer

In attesa di Fútbologia, dopo la pubblicazione dell’indice de Il mondiale dei palloni gonfiati e Il cigno di Utrecht, ritorna un racconto calcistico firmato Antonio Russo De Vivo.
Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
Fútbologia è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora.

Un giorno noi amici d’infanzia ci trovammo tra le mani una cassetta con un gioco di calcio nuovo per il commodore 64. Si chiamava Gazza’s Superstar Soccer, dal soprannome di un giocatore inglese che non conoscevamo ancora. Era divertente perché potevamo scegliere le squadre di club europee più prestigiose e le nazionali che avevamo da poco visto nel mondiale italiano. I giocatori piccoli, il campo di calcio enorme, non c’era proporzione. Quando ti mettevi in posizione diagonale rispetto alla porta, poco prima dell’area di rigore, e caricavi il tiro, era sempre gol: il portiere che sembrava un granchietto era anche lui troppo piccolo per la porta, e la palla allora, se angolata, non la prendeva mai. Io giocavo col Real Madrid, perché il Napoli non aveva più Diego, perché Diego era scappato, perché vedevamo i suoi gol su VHS come piccolinew romantic del pallone: qualcosa, senza saperlo, era quasi finito.

Nel 1992 Gazza venne in Italia. Biondo, occhi azzurri e mascella larga da supereroe (proprio come l’avevamo visto, la prima volta, a 8 bit), costò 26 miliardi, però il nuovo presidente della Lazio era il re dei pomodori e se lo poteva permettere. Giocò con i biancocelesti per due anni, ma fece poco. Ricordiamo ancora due cose in particolare. A Pescara segnò un gol in serpentina partendo a diversi metri dall’area di rigore e battendo a rete dopo aver superato quattro giocatori. Sembrava Diego, e non più solo per quel ventre che Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Fottuto Mengele

So perché racconto questa storia. Nessun altro potrebbe.
La storia inizia con due gemelli monozigoti. Stanno giocando nella camera da letto dei loro genitori. Hanno sette anni, sono alti come la tacca segnata sul muro in cucina, sono biondi e hanno gli occhi verdi. Stanno infilando le mani nell’armadio dei genitori. Da una parte, a sinistra, ci sono i vestiti della madre, le camicette, i tailleur, le gonne. Dall’altra, a destra, i pantaloni del padre, le camicie, i pullover, le giacche. Il gemello A si sbottona i pantaloni e li lascia cadere a terra. Si infila una gonna blu. Il gemello B lo aiuta con la cerniera lampo. Il gemello A chiede al gemello B come sto? Il gemello B sceglie una giacca di velluto marrone, la indossa dicendo benissimo. Il pomeriggio è freddo come l’inverno che ha raso al suolo il prato di fronte a casa. Gli alberi dal tronco bianco aspettano la lama delle cesoie e la brace del camino. La casa è grande, ha grandi finestre, camere dai grandi letti con grandi testiere e soffitti protetti da travi di legno. Lo scricchiolio è come un orologio da parete, non smette mai. I gemelli corrono lungo i bordi del corridoio, saltano sulla cassapanca, strisciano sotto il pianoforte a coda in soggiorno, sprimacciano il pelo del tappeto, mimano la posa delle corna dell’alce appeso in un angolo. La grande casa è vuota, l’Argentina è una terra accogliente, i gemelli sono felici, il giardiniere carica sacchi di foglie morte su un furgoncino bianco, i genitori dei gemelli stanno tornando a casa. La casa è grande e calda.
La macchina guidata dal padre dei gemelli entra dal cancello appena riverniciato verso le 15:30 del 12 luglio 1958. A Buenos Aires, quel giorno, 120 bambini vedono la luce dell’inverno, 27 uomini scoprono di essere morti,13 donne fingono svenimenti per non parlare più. Leggi il resto dell’articolo

Guerra: una raffinata forma di masochismo

Le sole persone di buon senso che incontriamo

sono quelle che condividono le nostre opinioni.

La Rochefoucauld

 

Mi riesce un po’ difficile convincermi che tutti

possano aderire al mio punto di vista, che si

trovino tutti sulla mia lunghezza d’onda, con

tanta compattezza, senza che qualcuno dissenta.

Fabrizio De André

 

Solo in due casi penso che una persona sia

cretina: quando non mi capisce o quando

mi capisce perfettamente. Io, ormai, non

cerco neanche più di capirmi.

Antonio Romano


Il concetto del doppio ha sempre affascinato l’umanità. Il doppio è la chance, l’ipotesi, l’alternativa (per Rank sei frocio, ma questo è un’altra questione): bianco o nero, alto o basso, vero o falso. Questi – che a prima vista possono sembrare degli opposti – sono dei clamorosi doppi. Il fatto che se non è bianco è nero, implica che l’oggetto in questione abbia la potenzialità intrinseca d’essere sia bianco che nero, cioè di poter modificare la propria colorazione senza cambiare la propria identità. Questa è doppiezza.

Il fatto che i miei calzini siano neri anziché bianchi non esclude che possano essere bianchi anziché neri, ma sempre calzini restano. Questa è doppiezza. Il fatto che un uomo dica una verità anziché una menzogna non esclude che possa dire una menzogna anziché una verità, ma sempre lo stesso uomo è. Questa è doppiezza. O meglio è la scelta, o la chance o l’ipotesi o l’alternativa che ci permette di mentire o di dire la verità oppure di cambiare calzini a seconda dei pantaloni.

Il concetto del doppio si è espresso per secoli anche sotto forme impensabili. Per esempio, una forma del doppio è l’antinomia. Il fatto che una frase possa contraddire se stessa è l’espressione della doppiezza del discorso. Il discorso dovrebbe servire a comunicare, ma, se finge di comunicare, la comunicazione va a farsi benedire. Se una frase si contraddice – e si dimostra non vera – diventa inutile. Una celebre antinomia della scuola megarica è la semplicissima frase: «Sto mentendo». Un attimo! Che vuol dire «Sto mentendo»? Evidentemente che sto mentendo sul mentire. Allora dico il vero? No, se ho detto che sto mentendo.

È interessante questa antinomia visto che, sotto le mentite spoglie della comunicazione, nasconde l’incomunicabilità (dovrei forse rammentare Lacan, che spiega il dramma del disavanzo fra desiderio e parola: ma non mi va di alzarmi a cercare in libreria). Questa frase non porta a termine il suo compito – la comunicazione – perché non serve a comunicare alcunché; ha lo stesso valore della domanda «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?»: il vero significato, l’essenza e la funzione della domanda vengono annullate e vanificate in quanto la domanda si risponde da sola. È incomunicativa, inutile. E anche in questo c’è doppiezza: in una domanda che è contemporaneamente risposta.

Un’altra antinomia, stavolta dei logici medievali, è: «Socrate dice: “Platone dice sempre il falso”, Platone dice: “Socrate dice sempre il vero”. Chi mente dei due?». Anche qui c’è doppiezza, visto che sia Socrate che Platone sono contemporaneamente bugiardi e sinceri.

Un caso interessante – e forse illuminante a proposito di questa tematica – ce lo dona il popolo dei Maya. Questo popolo straordinario, su cui ancora molto deve essere scoperto e detto, riuscì a sincronizzare il calendario solare con quello lunare creando un nuovo calendario di 364 giorni (il 365° avanzante fu dedicato alla Festa del Tempo: momento in cui i Maya si divertivano sfrenatamente. Tale giorno non veniva neanche computato, come se non fosse mai esistito… tipo Una notte da leoni); questa sincronizzazione potrebbe essere facilmente interpretata come il sintomo d’un’ossessione (non per nulla i Maya sono anche chiamati “Maniaci del Tempo”) oppure, meno facilmente e più costruttivamente, come il desiderio profondo d’annientare la doppiezza; scandire il tempo secondo il sole o secondo la luna è un caso eclatante di doppiezza. I Maya avranno così voluto cancellarlo. Sempre i Maya, in questo campo, offrono un secondo spunto di riflessione. Quando si salutavano usavano una formula che recitava: «In lak’ech», io sono un altro te stesso. Questo popolo doveva aver intuito che l’umanità soffre di doppiezza nei termini di “io” e di “altri”; teoricamente si potrebbe azzardare che avessero anticipato ideologie politiche come il comunismo prevedendo un abbattimento dei ruoli psico-antropologici; sempre teoricamente si potrebbe azzardare che abbiano abbattuto i presupposti per la lotta sociale, per le faide, per la rivalità e per l’invidia (difficile pensare che per un Maya sarebbero valsi gli ultimi due gradi della gerarchia dei bisogni di Maslow): anche in questo caso sembra quasi che abbiano voluto eliminare la doppiezza della società, le differenze fra “io” e gli “altri”. Però, cosa avrebbe risposto un Maya alla domanda: «Preferisci te o me?». Probabilmente non avrebbe saputo rispondere, se è vero che “io sono un altro te stesso” (si pensi alla coincidenza nell’etimo della parola “persona”). Fortunatamente a queste antinomiche doppiezze linguistiche pose una regola (dunque un limite) Russell, stabilendo che le proposizioni non devono essere autoreferenziali. Intendiamoci: Russell non ha eliminato le doppiezze del discorso, le ha solo arginate. Le doppiezze, cioè gli opposti all’interno di uno stesso soggetto o oggetto, implicano l’armonia; gli opposti che convivono sono, a loro modo, armonici. Ma l’armonia non è sempre positiva. Armonia, che ha la stessa radice di arma, comporta appiattimenti, e tutti gli appiattimenti comportano repressione (non soluzione) delle differenze e dei problemi. L’armonia è solo il paravento dietro cui combattono gli opposti. Tale “guerra” (bisogna giustamente intendere questa parola, senza vizi d’interpretazione) per Eraclito è il fulcro stesso dell’esistenza. Dico che bisogna giustamente interpretarla perché, attraverso i millenni, certe parole hanno perso via via il loro autentico significato e si sono dovute avvalere di vari aggettivi (guerra d’offesa, guerra di difesa, guerra preventiva, guerra intelligente, guerra espansionistica, guerriglia).

Biante di Priene, uno dei Sette Savi, diceva che il più pericoloso degli animali selvatici era il tiranno e di quelli domestici l’adulatore. Hobbes, invece, disse: «Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode». Il tiranno e l’adulatore, che per Biante erano animali pericolosi, si sono trasformati nelle due virtù cardinali della guerra per Hobbes: la forza e la frode.

Hobbes, si sa, non era un campione di pacifismo (non per nulla è sua la teoria del «Homo homini lupus». L’espressione, in realtà, è da far risalire alla seconda parte – verso 495 – dell’Asinaria di Plauto, in cui è possibile leggere «lupus est homo homini». Altre possibili fonti potrebbero essere ricercate nel settimo capitolo, paragrafo primo, dell’Historia naturalis di Plinio e nel primo paragrafo della centotreesima delle Epistule di Seneca), ma questo la dice lunga su almeno un dato: la guerra è la parte sporca della nostra coscienza, quella che vuole prevalere sull’altro.

Igiene del mondo una sega! Se Marinetti avesse perso qualche arto in battaglia o fosse stato costretto in un letto per tutta la sua esistenza (o sulla sedia a rotelle come Evola) non avrebbe detto cose del genere. All’inizio uno dei Savi disse che la forza (ovviamente la forza “cattiva”, impersonata dal tiranno) e la frode (impersonata dall’adulatore) erano pericolose, in seguito l’empirista del ‘600 le fece diventare le virtù cardinali della guerra e, infine, il futurista tramutò la guerra in una cosa necessaria e giusta. Non vi pare che ci sia una logica ferrea in questa follia? In ogni caso la guerra non è giusta, a prescindere dagli aggettivi con cui la si voglia accoppiare.

La cosa più folle, però, è che non sono sempre gli opposti a fare guerra. Spesso e volentieri sono proprio gli omologhi a combattere fra loro. Francia, Germania e Inghilterra non hanno fatto altro per secoli e non perché diverse, ma perché troppo simili. Questo dovrebbe far riflettere: se attacchiamo una persona che ci somiglia troppo (almeno quanto si somigliano Francia, Germania e Inghilterra) significa che abbiamo gravissimi problemi con noi stessi.

 

Antonio Romano

VERONA BEAT

Vecchie favole

di un’epoca un po’ più in là

colori di un’età

cantavano I Gatti di Vicolo Miracoli.

Che poi lo sapevo mica, io, fossero nati a Verona gli Oppini, i Smaila, i Jerry Calà e compagnia bella, nella città scaligera che ha come simbolo i Mastini.

Gatti nella tana dei Mastini. Fa ridere, no?

Uno che faceva ridere davvero era Saverio Garonzi, il presidente dell’Hellas. Andavi a Veronello, ch’era il campo d’allenamento dei gialloblu e niente: ti mettevi ad ascoltarlo. Ogni volta una perla, folklore dialettale.

Quello è un musso, è un figlio de puta, troppe donne che lo sfiniscono, quando vuole è un purosangue, ma quando?

Gianfranco Zigoni, a Verona, ce l’aveva voluto fortemente, Garonzi. Per essere un campione lo era in maniera indiscutibile, Zigo, nonostante la nomea da testa calda, uno che due anni prima s’era fatto beccare a Grottaferrata a tirare di Colt contro i lampioni, che diceva ai guardalinee di ficcarsi le bandierine in culo, che non disdegnava le scazzottate in campo e i whisky al bancone, che costringeva Guidolin, diciottenne terzino chierichetto, a portargli la colazione a letto. Prima degli allenamenti polenta e usei e dopo la partita donne all night long, un assioma per Zigoni da Oderzo, che caracollava per il campo coi capelli lunghi e i calzettoni perennemente abbassati credendosi il più forte giocatore al mondo. Anche più di Pelè.

Che poi c’ha anche giocato contro, Zigoni, era ancora un calciatore della Roma e capita quest’amichevole contro il Santos, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi, dice Zigo-goal, poi però lo vedo dal vivo e mi piglia una botta di malinconia, di depressione, penso che a fine partita annuncerò il mio ritiro dal calcio, in terza persona, “Zigoni lascia l’attività”, dirò, “non sopporta che ci sia qualcuno più forte di lui”.

Poi in quella partita O Rei sbaglia un rigore. Se è umano Pelè, figuriamoci il suo corrispettivo bianco, Zigo testa-calda, pistolero fantasista.

Fughe inutili

per vedere se ci sei tu

ginnastica in tuta blu

Io c’ho uno zio che si chiama Davide e che vive a Verona, pensaté, ci son stato solo due volte a Verona, la seconda mio zio Davide mi ha portato sul campo del Bentegodi. Com’è che ti fanno entrare zio?, gli ho chiesto. Vecchie favole di un tempo un po’ più in là, m’ha risposto lui.

Mio zio Davide c’è stato un periodo che ancora non portava la cravatta e faceva il magazziniere allo stadio. Lui l’ha conosciuti di persona, Garonzi e Zigoni-il-capellone, quello se lo sognava la notte di morire con la maglia del Verona addosso, m’ha detto mio zio, gli sarebbe piaciuto che il Bentegodi lo ribattezzassero Zigoni, mica per scherzo. [Io Zigoni poi me lo sarei dimenticato, invece, e sarebbe riaffiorato solo anni dopo a pagina ottantasette di Calci al vento di Ezio Vendrame, quando dice a Falloppa e allo stesso Vendrame di non rompergli i coglioni perché in vita sua era la prima volta che un quadro gli rivolgesse la parola].

Senti questa che ti racconto, fa mio zio, l’allenatore del Verona in quegli anni era Ferruccio Valcareggi, pover’uomo, aveva sempre un’espressione triste e s’era fatto molto rude da quando Chinaglia l’aveva mandato affanculo ai Mondiali di Germania. L’anno successivo all’abbandono della Nazionale viene a Verona, e un giorno ha l’ardire di comunicare a Zigoni che non l’avrebbe fatto giocare, la domenica. Io ero fuori dallo spogliatoio, l’ho sentite le urla, Zigoni che strillava: “Ma come?, tieni fuori il più grande giocatore del mondo?”. E un po’ rideva, un po’ no.

C’eravamo dati appuntamento la domenica allo stadio, tutti noialtri, per vederlo accomodarsi in panchina, Zigo messo in fuga dal campo, con la sua tuta da ginnastica blu.

Ma lui era una star, poteva mica non essere protagonista assoluto anche quella volta: e allora eccotelo che esce dal tunnel con un cappello da cowboy, e questo è niente, una pel-lic-cia. Una pelliccia tutta bianca, di volpe siberiana, i jeans attillati e ci si siede così, in panca. Il suo personalissimo modo di mandare affanculo Valcareggi. Certo, con più humour e signorilità di Chinaglia.

Le storie di mio zio Davide.

Diario al limite

tra amore ed oscenità

poeti per metà

Giocatori forti come Zigoni, scrolla la testa mio zio che s’è fatto crescere la barba come Italo Cucci e una volta ad un matrimonio m’ha presentato i signori Lazzaroni quelli dei biscotti, il Verona Hellas ne ha avuti mica più. E pensare che Zigo-goal viaggiava pure a mezzo servizio: quaranta marlboro al giorno, birre, donne. Avesse condotto una vita più regolare, magari lo scudetto all’ombra del balcone di Giulietta sarebbe arrivato con qualche anno d’anticipo, prima degli Osvaldo Bagnoli, dei Larsen-Elkjaer, dei Tricella e della calvizie precox di Fanna.

Ma potevi mica farci affidamento, su Zigoni, quello era un musso, un figlio de puta, troppe donne che lo sfinivano, troppo alcol, troppo talento da dilapidare.

Anche se poi i veronesi dovrebbero essergli grati non foss’altro per un primato: perché il Beat, a Verona, l’ha portato Zigoal, mica i Gatti di Vicolo Miracoli, che nell’Ottanta han fatto questa canzone che ha dato il titolo alla Sforbiciata del lunedì di questo lunedì.

Cos’è, non ci credi?

Prooova.

 

Fabrizio Gabrielli

DINT’A L’ACQUA SOJA

Prendi Piñera, il presidente cileno in carica: nemmeno due settimane fa c’aveva cucita addosso una simpatia congenita, era nella regione di Atacama col caschetto protettivo ad attendere uno per uno i trentatré minatori intrappolati, questi uscivano dalla sonda di recupero e lui li abbracciava, con Franklin Lobos el mortero mágico ci palleggiava pure (anche se è da sempre tifoso dell’Universidad de Chile, la “U”, Piñera, mica del Cobresal), ti sembrava una brava persona; e poi una manciata di giorni dopo, in visita ufficiale in Germania, ti va a scrivere sul guestbook del suo parigrado tedesco Deutschland über alles, che mica li sapeva, lui, i rimandi nazisti. Ignorante Piñera, adesso dobbiamo vedere, se ti perdoniamo, o se devi cuocere dint’a l’acqua toja.

Teutonici e cileni si somigliano in questo: se il mondo si divide in chi ha le pistole e chi scava, loro scavano, ma si dispiacciono mica, a trivellare son abituati, ferro rame e carbone nella Ruhr ed in Westfalia, rame, rame e rame da Atacama alla regione di Magallanes, che ci vuole? Gente semplice, i minatori, infaticabili sotto la luce fioca delle lampade a petrolio.

Petrolio: c’è pure il petrolio, nella zona australe del paese andino. Lo tiran su per la prima volta che Natale è passato da quattro giorni, è il millenovecentoquarantacinque e a capo dell’equipe dei perforatori c’è un certo Eduardo Simián.

Simián è un brillante ingegnere minerario: laureatosi a pieni voti all’Universidad de Chile, specializzatosi in geologia negli Stati Uniti, un bel giorno negl’anni quaranta lo ingaggiano quelli della Corporazione per il Fomento della Produzione, il CORFO, non ti tiri indietro se sei un ingegnere minerario e ti chiama il CORFO, è un po’ come se fossi un calciatore e ti convocasse il Colo Colo, sei pazzo, a rifiutare? E di lì una carriera folgorante: direttore della produzione per l’Enap, l’Ente Nazionale per la Produzione Petrolifera, addirittura Ministro delle Miniere, dal sessantaquattro al sessantasei, sotto la presidenza Frei Montalva.

Simián, Eduardo Simián, quand’era Ministro forse non ci pensava già più, però c’era stato un periodo in cui c’era chi cantava The best goalkeeper / the best player / Eduardo- Simián /el gran Pulpo azul!

Succede che è il millenovecentotrentatré, Eduardo è poco più di una matricola, e all’Universidad de Chile studia pure Jorge Góngora, che magari non lo conosci ma è stato il portiere della nazionale peruviana ai mondiali del 1930.

Góngora arriva a Santiago del Cile, va all’Università e si chiede dove caspita sia che si gioca al calcio. Gli dicono qua non ci giochiamo, al calcio. Ma siete matti?, controbatte lui. E decide di metter su una squadretta. Si scelgono un simbolo, una U tutt’azzurra. Si selezionano gli undici titolari: in porta c’è un ragazzone coi capelli da marine ed il sorriso da attore, è altissimo e c’ha due mani che sembrano due scavatrici di quelle con le quali si cerca il petrolio al sud. Quel ragazzone là, ebbene sì, è Eduardo Simián.

Partita dopo partita, quell’estremo difensore che è diverso da tutti gl’altri, perché se ne sta mica impalato, esce in tuffo e abbranca in presa, lo chiamano il gigante volante, e poi ha quel particolare modo di ergersi a padrone incontrastato dell’area di rigore, allunga le braccia e pure una gamba, sembra una piovra, Eduardo, che lo chiamano pure El Pulpo, partita dopo partita diventa il simbolo della squadra, il paladino, arriva fino alla Nazionale.

Poi ce lo siam già detti, ti chiama il CORFO, sei un pazzo se rifiuti un incarico al CORFO, ti chiama il Presidente, non si dice di no al Presidente, ed allora ti dedichi anima e corpo alla tua nazione, allo sviluppo economico, Simián, dimenticandoti del calcio, dei derby universitari, della maglia bianca con la U azzurra: se sei un ingegnere minerario è lì che sei destinato, all’ingegneria mineraria.

O’ purp s’ha ‘rra còcere dint’a l’acqua soja, dopotutto.

 

[è il ventisei di ottobre, il presidente cileno Piñera è in visita ufficiale in Germania, sicuro che si parla anche di miniere e minatori, c’è sempre quel continuum che unisce la Germania al Cile, la Westfalia ad Atacama, ed ad Oberhausen, Westfalia meridionale, c’è un polpo che si chiama Paul. Il polpo Paul faceva il veggente, non è mai stato Ministro né Capo degli scavatori, però di calcio ne sapeva, ah se ne sapeva, ed ora è morto. Come faremo, senza Paul, ce lo chiediam tutti.]

Fabrizio Gabrielli

Il mondiale dei palloni gonfiati, giusto, scrivo quel che voglio? – II

Seconda parte

[continua da qui]

-Francia ‘98

Da Baggio a Baggio, in quattro anni appena.
Ecco: in quei quattro anni si era ribaltato il mondo, per noi tifosi del Bologna. Nel ’94 il nostro fantasista era Alvise Zago, nel ’98 era Roberto Baggio. Non proprio la stessa cosa.
In quattro anni eravamo passati di filata dalla serie C1 alla qualificazione per l’Intertoto, l’anticamera della coppa Uefa, con Uliveri allenatore. Lo sapevamo tutti che Baggio era venuto a Bologna solo per giocare titolare e conquistarsi i mondiali, d’accordo, era stata una cosa un po’ utilitaristica, ma ci aveva regalato ventidue gol, intanto, noi gli avevamo tributato incondizionato affetto, ecco, speravamo che Baggio, commosso da quell’incondizionato affetto, decidesse di rimanere a Bologna un altro anno. Giocare la coppa Uefa con noi, magari.
Invece aveva preferito andare all’Inter, a litigare con Lippi. Cioè, questo non lo sapeva, immagino, che avrebbe litigato con Lippi e sarebbe stato impiegato col contagocce, ma era andata così e peggio per lui.
Per questo avevo seguito l’Italia in preda a sentimenti misti. Il nostro amatissimo Baggio declassato a stimatissimo Baggio, che regalava assist a Vieri e segnava rigori col Cile, quel Cesare Maldini in panchina che, insomma, non mi trasmetteva proprio tutto questo sentimento di esaltazione.
C’era stata la partita con la Francia, ai quarti di finale. A un certo punto, ai supplementari, Baggio aveva avuto la palla della vittoria. Un tiro al volo, di destro. Sarebbe stato un gran gol.
Aveva fatto dei gran gol per tutto quell’anno, con la maglia sacra del Bologna. Gli faceva bene, avere addosso la maglia del Bologna. Anche litigare con Ulivieri, si vede, gli faceva bene. Fosse stato ancora del Bologna, quel gran destro al volo sarebbe finito con la rete gonfia e la Francia sarebbe andata a casa.
Invece aveva già addosso la maglia dell’Inter, e le litigate con Lippi si sarebbero rivelate meno stimolanti di quelle con Ulivieri. Il tiro al volo era finito fuori di un centimetro. Di un niente.
Poi Di Biagio aveva tirato un rigore sulla traversa. Mondiali finiti ancora una volta.
Doveva restare a Bologna, Baggio, lo ripeto. Gli avrebbe fatto bene.

-Giappone-Corea 2002

I mondiali del 2002? Qualcuno si ricorda i mondiali del 2002? Quella squadraccia orrenda? Che, sì, va bene l’arbitro Moreno, ma Vieri che sbaglia un gol da un metro e Maldini che si fa scavalcare da un nano, ne vogliamo parlare?
Io no, quella squadraccia non me la ricordo se non vagamente, non ho sofferto per la Corea, non ho inveito più di tanto contro Moreno.
Io ero in uno stato placido, da un lato. In uno stato esplosivo, da un altro lato.
Stavo placidamente con Martina. Stavo placidamente in serie A, a godermi i gol di Signori e qualche avventura in Europa senza grossi scossoni.
E avevo finalmente esordito. Nove mesi prima di quel mondiale, era uscito il mio romanzo d’esordio: Despero, la storia del peggior chitarrista del mondo.
Insomma, quando Ahn aveva mangiato in testa a Paolo Maldini e la Corea aveva mandato a casa l’Italia di Trapattoni, io avevo accolto la cosa con suprema indifferenza.
Diversa dall’aperta ostilità di quattro anni dopo.

-Germania ‘06

Quattro anni dopo mi ero ritrovato a sperare che l’Italia uscisse al primo turno, che andassero tutti a casa bastonati e umiliati e vilipesi. Tutti, senza pietà.
Il Bologna che era finito in B grazie a Calciopoli, il Bologna aveva perso uno spareggio col Parma che mai dovuto giocare, grazie alle alte manovre che ci avevano affondati.
E io, di conseguenza, odiavo tutti. In ambito calcistico, eh?
Incattivito da Calciopoli, mi ero dedicato a un totale e orgoglioso disprezzo per la squadra di Lippi, di Cannavaro, di Camoranesi, per la nazionale in generale, in verità, che tanto lo sapevo, lo so com’è fatto questo paese: c’era sdegno in quel momento, sì, tutti erano per la mano pesante, si parlava della Juve nel dilettanti, del Milan in B, della Fiorentina penalizzata di venti punti, ma se l’Italia avesse vinto i mondiali, cosa sarebbe sucesso? Tarallucci e vino, volemose bene, le solite cose di casa nostra, e poi, di lì a qualche anno, si sarebbe parlato di un complotto dei giudici, di ingiustizie, del povero Moggi capro espiatorio, cose così, già viste in altri ambiti.
E io che invece volevo il sangue, niente di meno, in quanto parte lesa, mandato da Calciopoli a giocare a Crotone e a Terni, mi ero dato al tifo contro. Cioè, la metà delle partite neppure le avevo guardate. Il giorno del rigore di Totti all’ultimo minuto con l’Australia, per dire, ero su un treno per Lucca.
Se le avevo guardate, lo avevo fatto sibilando disprezzo e disgusto verso i nemici della mia povera e vessata squadra rossoblu. Io che andavo in giro a dire che quella canzoncina che cantavano tutti si chiamava Seven Nation Army, mica po-poppòpoppoppò-po, era dei White Stripes, lo dicevo a tutti, in quei giorni in cui ero particolarmente insopportabile per me stesso e per il mondo.

Il gol di Grosso con la Germania, quello l’avevo accolto con sentimenti misti.
Dopotutto Grosso era il meno colpevole di tutti. Non ci aveva fatto niente, lui. Era il classico normalissimo giocatore baciato dall’energia cosmica che ogni tanto, per un mese, durante i mondiali, trasforma un qualunque Schillaci in un bomber implacabile.
Al raddoppio di Del Piero invece, avevo pensato Ecco, il solito juventino inutile che si prende la gloria quando il lavoro importante l’ha già fatto un altro.
Comunque, l’Italia era approdata in finale. Contro la Francia.

Avevo preso una decisione difficile. Considerando l’antipatia per il ct della Francia –non che mi fosse simpatico Lippi, ma con Domenech si trascendeva a un livello superiore-, considerando il momento, come dire, storico, l’idea di veder vincere un mondiale, vabbè, avrei seppellito per una sera la mia personale ascia di guerra, e tifato Italia. Però, in caso di vittoria, niente festeggiamenti e niente caroselli d’auto. A casa, subito. A pensare al mercato del Bologna.
Con quella lontana finale dell’82 c’erano stati dei curiosi parallelismi.
Intanto, la partita l’avevo vista di nuovo in Riviera. Allo stabilimento Hana-Bi di Marina di Ravenna, qualche decina di chilometri a nord di Igea Marina. Poi, come quando avevo esultato per il gol di Antognoni annullato col Brasile, di quel che era accaduto sul campo non avevo capito niente.
C’era stato il rigore di Zidane che aveva colpito la traversa, ed io mi ero prodotto in un sentito gesto dell’ombrello. Io che negli anni, di tiri dagli undici metri, ne avevo visti cinquemila.
Poi mi ero chiesto Ma perché quel deficiente di Zidane sta esultando?

Poi Toni era scattato in avanti su una punizione, colpo di testa, gol. Avevo esultato –con moderazione- sulla spiaggia, poi mi ero girato, avevo visto che Toni non stava esultando affatto, neppure con moderazione. Fuorigioco. Annullato.
Con tutte le partite di calcio che avevo visto in vita mia, ero ritornato al grado zero della comprensione.

Cos’avevo pensato quando Grosso aveva preso la rincorsa per l’ultimo rigore?
Avevo pensato: adesso, in qualche modo, entriamo nella storia.
Avevo pensato: domani assolvono metà degli imputati di Calciopoli.
Avevo pensato: bello vincere un mondiale.
Avevo pensato: Grosso non sbaglia, non può sbagliare, non sarà un gran giocatore ma ha la luccicanza addosso, quel superpotere che non ti abbandona per tutta la durata di un mondiale e poi ti fa tornare il giocatore mediocre che eri, ma con anni e anni di ingaggi futuri garantiti.
Avevo pensato: adesso festeggio un po’, sbevazzo nella calca festante, mi tappo le orecchie per non sentire quell’insopportabile po-popopoppò-po, e poi corro alla macchina, che ho collocato in posizione di fuga strategica, torno a Bologna seguendo strade secondarie che solo io conosco, mentre tutti quanti si ammasseranno sul lungomare a clacsonare.

Due ore dopo, con la testa ancora rintronata da Seven nation army udita settecento volte per tutta la lunghezza della pineta di Marina di Ravenna, ero arrivato finalmente a casa. Avevo cercato su internet le ultime di calciomercato.
Il Bologna aveva quasi concluso l’acquisto di Emanuele Filippini, ex Brescia, Parma, Lazio, Palermo e Treviso.
Ed io, già mentalmente lontanissimo da Grosso e Materazzi e Luca Toni, avevo sorriso soddisfatto.

-Sudafrica 2010

Chi sta trattando il Bologna? Meggiorini?
Chi è, quello del Bari? E con Diego Perez, poi, come siamo d’accordo?

Gianluca Morozzi

Germania-Australia quasi goal