La società dello spettacaaargh! – 14

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10 – 11 – 12 – 13]

Caro Jacopo,

grazie per il tuo ultimo articolo, ho avvertito nelle tue parole uno spirito e una profondità inedita, rispetto agli altri. Non che negli altri non fossero presenti spirito e profondità. Solo che ho avvertito più Jacopo, qualcosa che muoveva maggiormente verso l’espressione della tua totalità. Forse dipende dal fatto che hai parlato sì di linguaggi, dinamiche eccetera, ma ne hai parlato unendo il piano linguistico a quello empirico, muovendo dalla tua esperienza diretta, molto aaargh! delle parole della FDN, restituendo la complessità di una gestalt che comprende il piano semantico di quelle parole e le possibilità insite nell’esperienza di quelle parole. Una gestalt che non mi piace particolarmente per tutta una serie di ragioni, molte delle quali convergono con le tue analisi; sarebbe inutile da parte mia aggiungere uno o due dettagli in più alle tue considerazioni. Leggi il resto dell’articolo

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La società dello spettacaaargh! – 10

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9]

Caro Jacopo,

mi pare che dopo un lungo, faticoso e complesso ragionare, bello nella sua autenticità, si sia arrivati in uno di quei punti in cui a scacchi si propone la patta. Non perché la posizione raggiunta renda in sé la partita un matematico pareggio, ma perché si è arrivati prossimi a una situazione di equilibrio, e la stanchezza fa pensare “mi conviene, ora, perturbare questo equilibrio? Sono in grado di farmi carico delle conseguenze, dei problemi che scaturirebbero?”. Questo perché la risposta ai quesiti che sollevi, in sostanza, io non la possiedo. Io dispongo, al massimo, di una mia risposta, di una scheggia di autocoscienza levigata dal tempo, dal dolore e da qualche scintilla di grazia. Quindi ciò che scriverò ora attende una valida e preziosa confutazione; è il punto cui sono arrivato nel labirinto, e non la «formula che mondi possa aprirti». Leggi il resto dell’articolo

L’inutilità del genio post-moderno /3

Dati i presupposti, non possiamo dimenticare l’importante affermazione che Giorgio Colli fa in La nascita della filosofia («La follia è la matrice della sapienza») e il fatto che i più straordinari documenti dell’antichità, oltre agli illusori testi filosofici (compromessi interamente con l’intangibile se non col folle) e ai reiterativi saggetti (che ruotavano sempre attorno alle stesse cose e sempre negli stessi termini), sono opere teatrali con personaggi che – per i motivi disparati – commettono quelle che oggi (come ieri, spesso) definiremmo “pazzie”: Edipo, Medea, Antigone, Elettra…

Perché il “gesto insano”, conducendo alla catarsi, è tramite per la divinità: come l’idiozia dostoevskijana, che è insania e vocazione mistica.

Tiriamo di nuovo le fila, altrimenti in questa selva di deduzioni e supposizioni potremmo sperderci, e vediamo cosa abbiamo in mano: unità spazio-temporali in dissolvenza, illusione, irrealtà, morbosità, follia, divinità.

Improvvisamente si crea un nesso, anzi, un’equazione:

letteratura : illusione = follia : divinità

ed ecco che nello sputtanatissimo legame fra letteratura e divinità si evidenzia un percorso che passa per la finzione (la nota “finzione letteraria”) e la follia (la “theia mania” platonica del Fedro). Tutti elementi abbastanza risaputi, ma raramente o mai esaminati nella loro sequenza.

Un nuovo quesito movimenta questo dipanarsi: visto che la letteratura è citazione (dovremmo dire “metafora”) della follia e perciò della divinità, data la letteratura corrente, a cosa s’è ridotta la divinità?

Ci sono dei legami nelle opere di autori lontanissimi e nelle opere – ovviamente – del medesimo autore.

E così: fra il Conte Ugolino e i due poveri amanti Paolo e Francesca c’è il legame del racconto in pianto; fra l’Ofelia di Rimbaud e la Marinella di De André c’è il fiume e l’amore di mezzo con stelle e fiordalisi di contorno; Jonson, il poeta del «Lascia un bacio dentro la coppa e io non ti chiederò vino», s’assomiglia nei modi e in alcuni tratti biografici al Catullo di «Odi et amo»; Zorba e l’Inglese di Kazantzakis altri non sono se non il Dionisio e l’Apollo di Nietzsche.

Lo strutturalismo, se vuol fissare delle Gestalt che si meritino questo nome, deve fare a meno di limiti e compartimenti stagni: la struttura del materiale culturale con cui opera dev’essere leggera e interscambiabile, levigata e pronta a combaciare con ogni cosa.

Quindi, la divinità sottesa (anche se involontariamente… involontariamente per gli autori medesimi, ovviamente) alla letteratura contemporanea non deve avere troppi legami e deve potersi accostare a tutto – esattamente come i personaggi e le situazioni di cui abbiamo parlato qualche riga fa.

I principi e i valori devono farsi trasparenti e volatili. Leggerezza, raccomandava Calvino nelle Lezioni americane.

Ma i principi sono anche la trama: sono spinte su cui si muovono i personaggi. Principi volatili danno personaggi inesistenti e plot cadenti.

Rispondiamo alla nostra domanda: la divinità – motore sotteso e originario delle letteratura – è svanita, o meglio s’è ridotta alla sua effige: la follia.

Ambiguità e ironia

Humbert Humbert, l’Abate Faria, Hannibal Lecter, il Vecchio della Montagna, Eraclito, Omero, Tiresia, Edipo, Buddha, il Mago di Oz, Nero Wolfe, perfino Babbo Natale: tutti questi personaggi (e molti altri affini) recano in sé delle tracce mai soppresse e sempre presenti in certe figure letterarie.

L’Oracolo in Matrix o la figura del profeta nei Libri Sacri o Sherlock Holmes: questi tre i grumi in cui, più che in altri personaggi, si sono mostrate le tendenze della letteratura occidentale.

Onniscienza. Ombra. Onnipotenza.

Tutti i personaggi che ho elencato poco fa hanno tre caratteristiche che manifestano singolarmente o accoppiate o nel complesso: vivono nell’ombra, intesa in senso lato (Holmes, per esempio, si traveste e vive immerso nel fumo o nella nebbia); sono, o sembrano, onniscienti; giocano con la vita e la morte perché sono immortali o perché si sentono tali oltre che onnipotenti.

Lo scrittore non s’è mai liberato di queste tre fascinazioni: il sapere, il vedere e il potere. Perché il sapere è anche potere, ma questa capacità di conoscenza (e dunque di dominio) si esplica meglio laddove gli altri non vedono: lo scrittore, così addentro alle parole, sente anche di poter manipolare come vuole i concetti, quindi la verità medesima, quindi – in ultima istanza – la vita degli altri. Perché gli altri sono ignoranti, perché non vedono, e dunque niente possono più di chi mette loro in bocca le parole di cui si servono come sonnambuli. Questa malattia degli scrittori, io la chiamo “sindrome di Polo”, dal nome del personaggio del Gorgia di Platone: consiste nell’immaginare di controllare tutto e di vivere in una trama solo perché si controlla il linguaggio, e lo spirito degli altri attraverso il controllo sul linguaggio.

Questa tendenza s’è estrinsecata, quantomeno in me, nel patologico citazionismo de Il volo interrotto, nel suo amore per l’ambiguità del dubbio dell’indeterminazione e dell’ombra, nel suo raffigurare omicidi che somigliano più a gesti quotidiani che ad attentati contro tutto ciò a cui siamo stati educati.

Ed è in fondo questo il principio di tutti i libri che si propongono oggi di essere “creativi”: l’omicidio, la conoscenza, l’ambiguità.

La generazione pulp sbandierava e sbandiera la violenza, i moderni giallisti la conoscenza, e tutti gli autori, nessuno escluso, l’ambiguità (che, per loro pochezza, s’è ridotta quasi esclusivamente ad ambiguità sessuale e non è molto di più della parodia di se stessa).

L’ambiguità siede allo stesso tavolo dell’ironia: dov’è finita l’ironia? Nei libri di oggi non ce n’è traccia.

Spostiamo allora la nostra attenzione su questi due ambiti: ambiguità e ironia.

Antonio Romano