Biglietto, prego

Tre racconti di Gianluca Liguori, Simone Ghelli e Luca Piccolino all’interno dell’antologia Biglietto, prego, a cura di Alex Pietrogiacomi, con introduzione di Filippo Tuena, postfazione di John Vignola e fotografie di Gianluca Giannone, dal 5 luglio in tutte le librerie per i tipi di Zero91.

21 scrittori italiani, sempre in bilico su una strada incapace di essere definita per colpa di un quotidiano pieno di trappole e sorprese, raccontano la vita dei pendolari, dei precari, dei viaggiatori forzati, attraverso i propri occhi e quelli di un fotografo, creando percorsi alternativi, tracciati da chi non vuole nascondersi tra i binari imposti dall’esigenza né tantomeno arrendersi a una società menefreghista.
Racconti brevi, capaci di essere compagni di percorso per una o più fermate oppure per tutto il tragitto desiderato, che hanno per protagonisti i pensieri, i sogni e i volti di chi abitualmente timbra il suo biglietto per la propria esistenza non rassegnandosi all’idea di essere uno sconosciuto da incontrare puntualmente a una fermata.
Un viaggio solitario o in gruppo, che comincia voltando pagina, da uno scorcio di irrealtà che ogni giorno chiamiamo vita.
Tra gli autori, oltre ai tre “Scrittori precari”, tante firme che hanno animato il nostro blog in tutti questi anni: Gianluca Liguori, Simone Ghelli, Luca Piccolino, Alex Pietrogiacomi, Fabrizio Gabrielli, Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Roberto Mandracchia, Iacopo Barison, Alessandro Hellmann, Gianfranco Franchi, Raffaella R. Ferré, Matteo Trevisani, Alessandro Raveggi, Lorenza Fruci, Matteo Bortolotti e Micol Beltramini, Francesca Bellino, Marilena Renda, Adriano Angelini, Alfredo Ronci e Ernest LeBeau.

Qui di seguito il booktrailer: Leggi il resto dell’articolo

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Fútbologia

Riproponiamo qui, in attesa di Fútbologia, l’indice dello speciale che Scrittori precari curò per i Mondiali del 2010.
Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
Fútbologia
è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora. Leggi il resto dell’articolo

Quel piano B che si chiama letteratura

Alcune riflessioni su L’arte del piano B, Per legge superiore, Zona, L’inferno del romanzo.

di Vanni Santoni

Qualche settimana fa ho ricevuto un libro – un bel libro, anzi: bella carta, ben impaginato, con la copertina spessa e, come si dice, embossed. Questo libro mi ha stupito tre volte. Innanzitutto mi ha stupito vedere che un piccolo editore indipendente, del quale fino a quel momento non avevo coscienza, e sì che abita a pochi chilometri da me – Piano B edizioni, Prato, leggo sul loro sito – produca volumi di siffatta qualità. Poi mi ha stupito vedere che un editore che si chiama “Piano B edizioni” pubblichi un libro che si chiama L’arte del piano B: coincidenza? Accordo? Manifesto d’intenti? Sincronicità? (La risposta, per i curiosi, è suggerita dentro al libro). Infine, mi ha stupito vedere che Gianfranco Franchi, il letterato fondatore e animatore di Lankelot, rivista letteraria improntata alla massima serietà, si fosse avventurato in qualcosa che sta tra il saggio di costume e la satira del saggio di costume. Franchi fa proprio un concetto della cultura popolare contemporanea – quello del “piano B” ovvero del piano alternativo, segreto e pronto all’uso in caso di impraticabilità del “piano A” – e lo declina in tutti i modi possibili, ne enuncia principi e applicazioni, ne inquadra i nemici e gli alleati, lo sviluppa e lo spiega sia filosoficamente che per esempi. E coglie l’occasione, parlando del “piano B”, per uscire dalla satira dei manuali di autoaiuto, e andare a parlare di molte cose; in particolare, io credo, di quelle che gli stanno a cuore, come il problema, di recente tornato ad animare il dibattito culturale, della pseudoeditoria: Leggi il resto dell’articolo

L’arte del Piano B

L’arte del piano B (Piano B Edizioni, 2011)

di Gianfranco Franchi

Che cos’è questo nuovo libro di Gianfranco Franchi? Un manuale di sopravvivenza in tempi di crisi (o meglio: “un libro strategico”, come leggiamo in copertina, per non ritrovarsi impreparati nel momento della crisi)? Oppure, non è piuttosto la cronistoria di una rivolta tutta interiore, di un’immaginazione che evoca delle alternative (il famoso piano B) con l’intento provocatorio di sbattercele in faccia? Come dire: un po’ ce la siamo andata a cercare se oggi ci ritroviamo infognati. Certo, il libro ci dice anche che non è stato per tutti così: qualcuno che ha avuto la pazienza e la tenacia di lavorare nell’ombra c’è stato (e sempre ci sarà); qualcuno che all’improvviso ci fregherà a tutti quanti, lasciandoci di stucco (magari proprio quel qualcuno che non sospettiamo minimamente capace di tanta dedizione). Questo ipotetico qualcuno è la sorgente della voce narrante, che ci elenca punto per punto (e con dovizia di particolari) le strategie messe in campo da chi voglia allestire un piano B. Questa voce a tratti fastidiosa, che smaschera i nostri vizi e le nostre debolezze, rappresenta una mano tesa pronta a tirarci fuori dalle sabbie mobili in cui stiamo sprofondando. In cambio, Gianfranco Franchi chiede al suo lettore la medesima dedizione e forza di volontà…

Simone Ghelli

Riportiamo in anteprima un breve estratto dell’opera, da domani in tutte le librerie.

Pizzicherai, nel corso degli anni, tutta una serie di soggetti velleitari, diciamo dei “Wanna Be Piano B”. Li riconoscerai non soltanto dall’estetica (tendenzialmente è pretenziosa, capricciosa e ricercata: va sublimando le loro lacune, le loro aporie), ma da una caratteristica indiscutibile e facilmente evidente. L’estraneità completa a qualsiasi professionalità. Un Wanna Be Piano B è uno che ti accoglie nel suo studio, tutto affettato. Magari ti prepara addirittura un caffè, non chiede scusa per il disordine –preferisce piuttosto vantarsi del disordine: fa molto artista – e ti mostra al suo pc (se è proprio grossier, al suo macintosh) una serie di fotine e di filmati relativi a uno o due dei suoi Piano B meglio riusciti. Ora, ci sta che a certa gente sia venuto bene un Piano B nonostante la nulla documentazione, la fiacca progettazione, l’inesistente professionalità. È successo qualche anno fa. Si chiama culo. Il discorso è che questa gente vuole venderti il culo, avuto una volta o due, come professionalità. E no, cicci. Mica è sempre domenica. Leggi il resto dell’articolo

Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 7

Questa settimana sarò brevissimo. Sono stato molto impegnato con altre scritture e letture e non ho trovato il tempo per dedicarmi alla rubrica. Ma in compenso, domani, in anteprima su Scrittori precari, troverete un estratto dal nuovo libro del papà di Lankelot, Gianfranco Franchi, che dopo Monteverde torna nelle librerie con L’arte del Piano B. Domani ne saprete di più e potrete leggerne l’estratto inesclusiva per i nostri lettori. Restando al blog, lunedì torna Nacci con La società dello spettacaaargh!, martedì tocca a ContraSens, il nuovo appuntamento quindicinale con la letteratura rumena tradotta da Clara Mitola, mercoledì Antonio Romano e il Manuale per perfetti gasteropodi, giovedì non ve lo dico, venerdì Carta taglia forbice di Marco Lupo, che ieri ha battezzato su TerraNullius la rubrica Mai morti, una delle tante novità del nuovo TerraNullius. E poi, su Nazione Indiana potete leggere un estratto di Se fossi fuoco, arderei Firenze di Vanni Santoni, recensito da Simone Ghelli la scorsa settimana. Insomma, non vi mancano le letture. In bacheca, non dimenticate, tenete d’occhio gli appuntamenti dal vivo, questa settimana ci trovate pure in giro.

Gianluca Liguori

La sciatica del Condor

Molte cose erano diverse nella seconda metà degli anni Ottanta. Lo Stadio Olimpico era ancora splendido e scoperto. Montezemolo (Montezuma!) non ci aveva messo le mani, Italia ’90 era ancora una prospettiva e così sedevamo tranquilli sui gradoni numerati, col cuscinetto portato da casa (avevo e conservo ancora quello con l’effige sacra del divino Paulo Roberto da Xanxere). Da marzo in avanti in Tribuna Tevere si stava a torso nudo, con cappellino alla muratora, fatto piegando per bene due o tre fogli del Messaggero, del Corriere dello Sport-Stadio o dei giornali in distribuzione gratuita, prima dell’ingresso. Guardando al di là della Monte Mario, si vedeva lo zoccolo duro dei tifosi della madonnina di Monte Mario, sulla collina, tranquilli e portoghesi (ma non vedevano tutto il campo, eh no!). Io dovevo ancora superare le elementari. La vita non era molto difficile: la settimana passava tra scuola e palestra, Commodore 64 e qualche libro. Qualche volta papà tornava da lavoro per cena, se non era troppo nervoso era stupendo. Ma la domenica, finalmente, era tutto per me. Noi avevamo il nostro rito: niente week end, si sta insieme allo stadio. Eravamo, nel 1986, reduci dalla terribile delusione di Roma-Lecce.

Eriksson aveva appena intrapreso la sua terza (e ultima) stagione sulla panchina della Roma. Praticavamo una zona spettacolare ed efficace. C’erano parecchie giovani riserve, ragazzi romani e romanisti, che giuravamo potessero rinverdire i fasti di Rocca, Conti, Giannini. Diversi di loro avevano contribuito alla vittoria in Coppa Italia, dolce e amara consolazione post Roma-Lecce. Erano Settimio Lucci, libero, una carriera poi spesa tra Empoli e Piacenza. Lento ma pulito e ordinato. Paolo Mastrantonio, terzino sinistro esplosivo. Si ruppe una caviglia, cambiò piede e sparì presto dalla circolazione. Attilio Gregori, portiere di notte (quando si giocava la Coppa Italia), che in campionato credo rimase sempre vicino a Sven, fu poi ottimo mestierante per una dozzina d’anni altrove. C’era Tony Di Carlo, molto amato dalle tifose, protagonista d’una tripletta a Cremona. C’era Impallomeni, che oggi lavora per Sky. Era un’ala molto tecnica, Costacurta gli distrusse la carriera con un intervento dei suoi. C’era Paolo Baldieri, che allora sembrava una sorta di gemello astrale di Peppe Giannini. Grande promessa inespressa. Naturalmente, tra i titolari c’era il Principe, Peppe Giannini. C’era Bruno Conti, c’era Ciccio Desideri da Monteverde, che Ciarrapico avrebbe venduto per un piatto di lenticchie. Romani a parte, c’era un giovane attaccante che arrivava da Cesena, a inaugurare una mini-serie che avrebbe scritto un pezzettino di storia della Roma. Anni dopo i tifosi, altrove, l’avrebbero chiamato Condor, ma questa è un’altra storia.

Era giunto dunque a Roma, a infiammare le mie speranze di bambino e a sostituire il futuro Cobra, Sandro Tovalieri da Pomezia, un ragazzo alto e con l’aria un po’ svampita, protagonista di qualche buona stagione nelle serie inferiori. Si chiamava Massimo Agostini, e noi speravamo fosse una buona alternativa al Bomber di Crocefieschi, non solo una promessa.

Peraltro, da bambino, vedevo i giovani sempre come un riflesso di me. Ci speravo e sognavo facessero cose immense. Meglio se erano romani, ma questo Agostini poteva vantare un cognome famigliare. Da poco se n’era andato a finire la carriera altrove Agostino, capitan Dibba. Bastava cambiare una vocale e il coro, ‘sto ragazzo, ce l’aveva già. Volendo.

Ma la storia della Roma è piena di fallimenti e ombre. E Agostini era una di queste. Giocò la sua prima stagione in una Roma di Eriksson, l’ultima dicevo, allo sbando; stagione mediocre, sempre lontani dal vertice, e dire che c’erano Carlo Ancelotti e Conti e Boniek, Nela e Pruzzo, Tancredi e Giannini. Le prime volte che entrava in campo tutti ce lo studiavamo con interesse. Era alto e legnoso, non troppo veloce e non troppo tecnico. A metà stagione avevamo capito che era una pippa. Troppo tardi, mica si può tornare indietro.

Il pubblico in Tribuna Tevere è una casta a se stante. Non solo vede bene la partita – a differenza di quanto accade in Curva o in Distinti, il campo da lì riesci a inquadrarlo tutto, angolo per angolo, e non serve la fantasia – ma la vede da molti anni. Negli anni Ottanta, i vecchi soci vitalizi erano ancora in tanti, e sapevano sgamare un mezzo giocatore, un mestierante o una pippa in una manciata di partite. Furono loro, incazzati come bestie e sempre più amareggiati, a raccontarmi la verità su Agostini, quando ancora speravo che essendo giovane e promettente e strappato alla concorrenza dell’odiata Rubentus lui avrebbe giocato un ruolo importante, una bella stagione.

Mio padre mi aveva insegnato a non ripetere le parolacce, ma ce ne fu una in particolare che mi rimase impressa, era nuovissima e mi sembrava magica. Sciatica.

Il legnoso Agostini, in quella stagione anonima e mediocre, un giorno tentò un colpo che proprio non era nelle sue corde. Una rovesciata. Si stava sullo 0 a 1 o sull’1 a 1, qualcosa del genere. Tutte le frustrazioni della settimana i tifosi le riversavano sul campo. Una Roma mediocre è sempre terapeutica, in questo senso, ma questo l’avrei capito molti anni dopo.

Fu così che quando Agostini si voltò, si sospese in aria, imitò Parola e s’inventò quella sorta di bicicletta o di rovesciata su cross di Berggreen, prima ancora che colpisse il pallone qualcuno aveva già inteso. Vidi – con discreto spavento – il collo d’un vitalizio una fila sotto di noi diventare rosso, rosso fuoco, e una vena ingrossarsi a dismisura. S’alzò in piedi assieme al Condor, le mani a pala, e dai più oscuri recessi dello stomaco gridò qualcosa che somigliava a “a’ sciaticaaaaa”, assieme a un ricco l’anima de li mejo mortacci tua e de tutta Cesena. Agostini forse aveva percepito una forma di ostilità, forse aveva sentito qualcosa e s’era spaventato. Ciccò il pallone, che andò a spegnersi a bordo campo, ben lontano dalla porta e dal senso del gioco del calcio.

Probabilmente nessuno di noi avrà mai visto questa azione, all’epoca Novantesimo Minuto e la Domenica Sportiva mostravano solo le migliori azioni. Io ero là, ero un bambino felice perché potevo stare qualche ora assieme a mio papà e guardarmi la partita assieme a tutta la città, credevo ancora nel principio che un giovane promettente non poteva non spaccare il mondo. Capii allora, mentre Agostini crollava rovinosamente a terra, che i quotidiani sportivi scrivevano qualche bugia per illudere il pubblico e fomentare la campagna abbonamenti, in Estate.

Due anni dopo, dopo un’altra mediocre stagione sotto la guida d’un redivivo Barone Liedholm, Agostini tornò a Cesena, mestamente, avviando una seconda carriera che l’avrebbe portato a giocare dappertutto, sognando anche qualche gol. Nella Roma ne fece sei in due anni, come un buon terzino di spinta.

La causa – nessun giornale lo scrisse con chiarezza – era una mostruosa sciatica, misterioso male che apparve con chiarezza immonda a un vecchio vitalizio della Tevere, quando il Condor volava per rovesciare un pallone a bordo campo. Da quel giorno, scoprii che tra i mali dell’umanità c’era il mal di schiena. El Condor Pasa.

Gianfranco Franchi

Estratto da Monteverde (Castelvecchi, 2009)

Questa sera live!

18 marzo 2010
ore 21.00
Ass. Cul. Simposio
Via dei Latini, 11/ang. via Ernici
San Lorenzo – Roma
Reading di Scrittori precari
Ospiti Gianfranco Franchi, Claudio Morici e Simone Rossi

Macchie *

Era l’anno quarto dell’epoca forzista. Il governo della Repubblica Federale, in uno sventolio di verdi tricolori, s’apprestava a perfezionare la Costituzione e a restituire il Parlamento alla sua (consultiva, e ininfluente) natura.

Quella mattina, il giovane Guido Orsini non riusciva a distogliere lo sguardo dallo specchio. C’era qualcosa nei suoi occhi – erano più bianchi ancora del solito, e d’un castano chiarissimo – che lo inquietava. “Santa voglia di vivere, e dolce venere di Rimmel”, borbottò, passando il dorso della mano sulle guance un paio di volte, per sentire quanto pizzicavano. S’avvicinava l’ora della prima colazione.

La grande casa di famiglia ospitava gli ultimi pezzi di un clan che un tempo aveva avuto diversa influenza e altro prestigio; Guido e sua sorella Benedetta erano il ritratto della decadenza dell’ultima generazione della vecchia borghesia intellettuale italiana. Fragili, stravaganti e non estranei ad una discreta (ma fertile) serie di vizi, ciondolavano postlauream, immalinconiti, inseguendo vaghe ambizioni artistiche e sdegnando con arroganza i lavori dell’epoca forzista: né interinali, né stagisti, né niente. Foglie morte distese su una generazione di sepolti vivi.

Guido, sbadigliando, s’accertò che il vecchio padre non fosse nei dintorni; mentre le domestiche preparavano il caffè e rassettavano la cucina, indagò con cura il fondo e i bordi della sua tazzina, temendo fosse sudicia. Che disgusto le posate o i bicchieri o le tazze mezze macchiate – sbreccate sì, è diverso, quella è vita e diversità – ma le macchie, cazzo, proprio no.

“Ada… Ada cara, perdonami. Queste macchioline non mi tornano…”.

“Non fa niente, Guido. Te la cambio subito”.

Versò il caffè in un’altra tazzina. Guido non poté ispezionarla, e rabbrividì mentre dava la prima sorsata. Chissà che non fosse rimasto del detersivo sul fondo. Rapida allucinazione olfattiva, quindi rumore di fondo – il nonno ha acceso la radio. Sigla del notiziario.

Benedetta, intanto, entra in cucina e s’annoda meglio la vestaglia.

“Buongiorno a tutti. Che dormita…”

Cenno del capo alla sorellastra, quindi tutta la mente sul notiziario.

“Il Premier sostiene che la disoccupazione sia ai suoi minimi storici. L’economia registra un nuovo miglioramento – ha ribadito – e chi lo nega è un disfattista e un traditore della patria”.

Guido trattenne un rutto a fatica. Per rispetto del Premier, rinviò ad un momento di intimità. Col Premier.

“Il Premier, oggi in visita agli imprenditori del nord-ovest, presenterà loro una nuova riforma del sistema occupazionale: proporrà loro la legge nota come ‘giusta riconoscenza’ – che prevede che il lavoratore paghi, per i primi 24 mesi, un adeguato dazio al suo datore, pur di poter aggiornare il suo curriculum”.

“Nonno, spegni quella cazzo di radio”.

“Hai dormito male?”

“No, che c’entra. Ho la faccia stanca, sono brutto stamattina. Mi innervosisce molto vedermi così allo specchio”.

La signora Ada sorrise laterale, intenerita; poi continuò a spazzare per terra, senza intervenire nei discorsi di famiglia. La buona vecchia servitù.

“Ah, capito… Hai litigato di nuovo con Floriana?”

“Floriana non la vedo più”.

“Ma va? C’è un’altra?” – in quel momento, abbassò il volume della radio.

“No, basta. Chiuso con le donne”.

“Cioè?”

“Cioè chiuso con le donne. Stufo. Chiuso con il lavoro. Chiuso con tutto. Ho deciso: voglio crepare in salone, tra i divani di pelle e le tende bianche. Guardando quel soffitto alto dieci metri, fin quando non lo buco”.

“Buona scelta. Un po’ di musica e una lettrice al tuo fianco, e…”.

“No, basta letteratura. Mi stucca”.

“Giornataccia, insomma. Succede. Vai al parco, no?”

“A mostrare l’uccello alle nutrie?”

“E vabbè. Oggi ti rode. Fa’ come cazzo ti pare. Dicevo per te. Magari facevi una cosa nuova”.

La signora Ada arrossì e si ritirò nelle camere da letto.

“Non me ne frega niente del parco. Pieno di vecchi e di filippine, a quest’ora. Nessuno di noi, e nessuno dei miei”.

“Fijo mio, nun te va mai bene gnente”.

Guido s’accese una sigaretta.

“Se vede che c’aveva ragione tu’ moje. Me dovevate mannà a scola dai tedeschi, così m’addrizzavano quann’era er momento”.

“Po’ esse… e io che tte devo di’?”.

Il nonno alzò daccapo il volume della radio.

Notiziario: “Il Presidente degli Stati Uniti d’America ha puntualizzato che i nuovi Stati-Canaglia – l’Uzbekistan, il Madagascar e la Siria – dovranno rinunciare immediatamente al loro arsenale nucleare, se non intendono fronteggiare la legittima risposta della comunità internazionale”.

“L’Uzbekistan ha il nucleare, nonno?”

“Come no. Razza bastarda, ‘sti uzbeki”.

Guido e il nonno sorrisero.

“Ada, prepara un altro caffè” – ordinò il vecchio.

Guido uscì in terrazza, e rimase a guardare il traffico fin quando non gli tornò sonno. Bastava contare le macchine, senza alzare gli occhi al cielo. Allora si distese su un divano, in salone, e lasciò scivolare le pantofole a terra; si accovacciò tra due cuscini, e prima d’addormentarsi pensò:

“Dov’è l’Uzbekistan?’”

Tutti i telegiornali ne avrebbero parlato, poche ore dopo. Non doveva preoccuparsi troppo. L’America aveva sempre ragione, l’Italia non aveva dubbi.

Noi italiani, che lavoratori – disse tra sé e sé, cedendo al sonno; un nuovo, timido sorriso increspò le sue guance. Che fatica.

Gianfranco Franchi

* Pubblicato in Disorder (Edizioni Il Foglio)

Gianfranco Franchi sarà ospite di Scrittori precari il 18 marzo 2010 alle ore 21 presso l’Associazione culturale Simposio, in via dei Latini 11/ang. via Ernici, a San Lorenzo (Roma).