ottobre 18, 2010
di scrittoriprecari
Il tempo materiale (Minimum Fax, 2008)
di Giorgio Vasta
Perché il linguaggio, quello di prima, quello in cui c’era tutto, era troppo. (p.193)
Non è per niente un libro facile, quello di Giorgio Vasta. È ostico e spinoso, proprio come quel pezzo arrugginito di filo spinato che il protagonista si porta continuamente appresso. E dà pure fastidio questo “tempo materiale”.
Ci ho pensato molto, soprattutto all’inizio, quando non riuscivo a digerirlo. Cos’è che m’infastidisce tanto?, mi chiedevo. Senz’altro l’insistenza sul contagio, sull’infezione, sull’abbandono: lo sguardo insistito sulle piaghe del dolore, la volontà inossidabile dei protagonisti di piegare il corpo alle posture del linguaggio; una volontà che con il passare delle pagine corrode la materia stessa dell’universo, che riconduce il tutto alla “materia stellare frantumata” – una volontà che è resa chiara sin dall’inizio dall’ossessione della scrittura di penetrare le pieghe del mondo, d’infiltrarsi nei più piccoli pertugi e interstizi.
Ma il merito della scrittura di Vasta, la sua grandezza, sta proprio in questo: nella sua capacità di disfare e rifare continuamente la struttura del linguaggio, nel forzarlo e piegarlo incessantemente, nel metterne a dura prova le capacità di tenuta – come se il linguaggio fosse un metallo, e più precisamente il ferro, di cui rimane in bocca il sapore per tutto il tempo della lettura.
Prendiamo gli animali, ad esempio, che sbucano ovunque nel libro: animali (cani, gatti, piccioni) che sono perlopiù randagi, e che della loro condizione portano impressi i segni sul corpo. Attraverso la scrittura l’autore diviene-animale (sono proprio gli animali gli unici veri interlocutori del protagonista), e noi con lui. Non a caso Deleuze e Guattari parlavano del divenire-animale per uno scrittore come Kafka; e difatti c’è qualcosa di kafkiano in questo libro, in questa macchina linguistica che apre buchi un po’ da tutte le parti – sono soprattutto i buchi del linguaggio, le afasie su cui fondare quello che i tre protagonisti definiscono l’alfamuto: come l’incedere barcollante del gatto storpio e del piccione preistorico; o il mutismo stupito della bambina creola; e il dondolio del capo del piccolo Morana, che con la sua sporcizia e il suo rifiuto del linguaggio è al tempo stesso l’infezione e la promessa di una nuova purezza. Poi ci sono i buchi veri e propri, cavità nelle quali vita e morte si mescolano continuamente e dalle quali si estrae sempre qualcosa per azzardo: il ventre dello Spago, che produce un aborto spontaneo; la “radura del porno”, che custodisce il desiderio di sesso, ma anche il suo dissipamento, lo spargersi improduttivo del seme; le crepe delle strade e dei marciapiedi di Palermo; e ancora: le bocche dei palermitani, che masticano i suoni incomprensibili del loro dialetto; infine (ma ce ne sarebbero altri), le cavità in cui si trovano gli alveari, lo sciame delle api che muoiono iniettando il proprio veleno, ma che con le loro evoluzioni rifondano incessantemente la vita, il suo linguaggio.
Deleuze e Guattari definiscono una letteratura minore o rivoluzionaria quella che “comincia coll’enunciare, e vede e concepisce solo dopo”*: come non vedere nell’atteggiamento del protagonista, nel suo immergersi nel nimbo del linguaggio, qualcosa di simile? “Il divenire-animale”, continuano Deleuze e Guattari, “è un viaggio immobile e statico, che può essere vissuto o compreso solo in intensità”**, ed è proprio l’intensità della scrittura di Vasta a costringerci alla lettura, nonostante essa forzi il nostro grado di sopportazione, la nostra resistenza nei confronti di un linguaggio che richiede una rigida disciplina, una forma di militanza che sembra voler escludere qualsiasi forma di compassione o di identificazione.
Simone Ghelli
*Gilles Deleuze e Felix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 45.
**Ibidem, p. 57.
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