Non ho mai visto il mare *

[Racconto di un pomeriggio, emotivamente complicato, in campagna, nei pressi del luogo della scomparsa di Yara Gambirasio, in compagnia di Paolo Sizzi, blogger indagato per vilipendio alla Presidenza della Repubblica e istigazione all’odio razziale. Foto di Thomas Pololi]

Accanto ad un campo di pannocchie, dritto come una scopa, Paolo Sizzi scandisce un impressionante autoritratto: “Il mio fenotipo presenta una commistione di tratti nordici e dinarici tipici dell’Austria e del Tirolo. Sono longilineo, relativamente alto, segaligno. Ho un naso dalla radice alta ma diritto, occhi azzurri infossati, carnagione chiara, capelli biondo scuro e zigomi lievemente pronunciati”. Paolo Sizzi, 25 anni, blogger vive a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. La sua casa dista cinquecento metri in linea d’aria dal palazzetto dello sport dove la tredicenne Yara Gambirasio, la sera del 26 novembre scorso, è stata vista per l’ultima volta. Mi accoglie di fronte al villino dello zio defunto. Apre un piccolo cancello marrone e mi fa strada giù per una breve scarpata, alle spalle del villino, che affaccia su di un campo di grano appena trebbiato. “Questa è la mia urheimat”, dice, con un gesto della mano che s’infiocina contro il paesaggio. Urheimat, in tedesco, significa patria, terra ancestrale, culla della lingua, dei costumi e delle tradizioni. Per Paolo l’urheimat coincide con la Lombardia, il bergamasco e, stringendo di diverse tacche sulla mappa, con il pezzo di campagna orobica che mi sprona ad attraversare. Nell’urheimat si trovano, oltre al campo trebbiato e a un boschetto, qualche filare di vigna, una cascina ristrutturata che ha oltre due secoli di vita e la casa a due piani che divide con i genitori. Si respira a stento, è un pomeriggio afoso, e tra l’erba schiacciata chiedo un commento sulla morte di Gaetano Tuccillo, il caporalmaggiore da poco ucciso in Afghanistan in seguito all’esplosione di un ordigno. “La maggior parte dei militari sono meridionali, volontari e al soldo degli Usa”, dice, “quindi non posso dire di provare grande compassione”.

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1° Maggio 2011

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

Se in effigie tramuti il corpo, e rendi
Carta l’effigie, plastica e cotone,
Io piango i tempi in cui si usava l’oro
Per forgiare vitelli, come grido,
oggi, all’idolo usato per frodare
la festa di quei corpi martoriati
dalle cave ombre di antichi tiranni,
larve per prime schiave
del loro stesso bramare.

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

È nel calice il sangue di settembre
Che su croce di piombo benedì
Con voce di metallo la sua gente?
È cileno quel corpo che spartisci?
Quali agnelli tu invochi perché accolgano
I peccati del mondo? Se tu màrtiri
Cerchi, sotto le zolle degli stadi
Irrigati dal rosso ti rivolgi?
O al silenzio distrutto dal supplizio
Che i boia inflissero alle sante carni,
carni di figli, che in piazza, le madri,
lucenti di grazia, nere di lutto,
Chiedono in nome del corpo e del calice?
Non vederli risorti è loro colpa?

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

Mentre le masse, raccolte per l’idolo,
Vestono i colli gravati da macine
D’asino, mentre nel tempio ai mercanti
Lo spazio si prepara,
Io testimonio con sommo timore:
Io testimonio per quanto di Cesare
Viene accettato o preso, e a Dio offerto,
Io testimonio la stirpe di Giuda,
Per la quale, domenica,
Il Salvatore verrà bestemmiato.

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

È di Augusto quel sangue,
È di Augusto quel corpo,
È del Giuda che un popolo tradì
Senza gettare quei trenta denari,
Senza conoscere albero e vergogna.
E nel tempo in cui l’idolo fu carne,
Anima e spirito, carne al servizio
Per sedere alla destra del Signore,
Quella carne, di bianco rivestita,
Il tuo gregge con scandalo mirò
Mentre stava alla destra,
Alla destra di Giuda, le cui nozze
Benedì tramutando in vino il sangue;
Quando il gregge mozzarsi preferì
Gli occhi, i piedi, e le mani,
Perché quell’uomo erede di quel Pietro,
Chiese che Giuda non fosse impiccato,
Lui disse al gregge di rendere a Dio
Grazia e perdono che primo non chiese.

Per chi innalzi quel sangue dentro il calice?
Per chi spezzi quel corpo che spartisci?

E queste mie, parole senza scandalo,
Saranno spreco e compagne di vento
Perché in ginocchio, pregando, a te affido
Il mio petroso pianto di straniero.
Io testimonio con sommo timore
Ed è per questo che infine ti chiedo:
In quale vigna, da umile, lavori?

Matteo Pascoletti