Confessioni qualunque – 15

#15 – Luciano

di Nicola Feninno

Che resti tra noi.

Potrei raccontarvi tutto di Salveria, potrei disegnarvi il reticolo delle sue vie, la piazza della chiesa, l’oratorio, i portici della nuova zona commerciale, i campi che digradano verso il fiume, con le barchette sgangherate che fluttuano nell’acqua legate agli alberi da funi di canapa e gli spiazzi verdi dove si siedono quei pochi vecchi che ancora pescano all’alba. Potrei elencarvi i nomi di chi è partito dal paese per cercare fortuna in città o all’estero, di chi è venuto al paese da fuori per sposare una delle nostre donne. Potrei dirvi i nomi e i trucchi di chi viene a giocare a poker il giovedì sera nel bar dietro la chiesa. Potrei dirvi i nomi di chi ha fatto il sindaco, qui a Salveria, da quando è finita la guerra, di chi ha fatto il medico, di chi ha fatto il prete. Dei giovani che sono finiti in comunità e non sono più tornati, potrei raccontarvi di Santina, che aveva un negozio di alimentari e che impazzì per il dolore, potrei raccontarvi di tutti i volti della mia infanzia sepolti sotto il cemento della nuova zona commerciale. Potrei raccontarvi tutto questo, per filo e per segno: ma di Salveria non vi avrei detto nulla se non vi parlassi di Gae, che qui a Salveria era venuto per pescare, cinquanta anni fa.

Di Gae si diceva che era un prete, venuto dalla città, che aveva rinunciato ai suoi voti per amore di una donna bellissima: poi era esplosa la guerra; Gae aveva combattuto tra i monti, in prima linea. Era tornato a casa, salvo per miracolo: una granata Leggi il resto dell’articolo

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Governa ogni cosa*

di Jacopo Nacci

Barbelo, il cielo di Cherania, è alta e gonfia di nubi, un drappo color grafite trapuntato d’indaco attraverso il quale posso vedere i bagliori delle scariche che si sfogano nel pleroma. Ma da questa parte della cortina il fulmine non si manifesta, e io non avevo contemplato questa eventualità mentre la frenesia serrava il mio corpo nella navicella, mentre poneva nelle mie dita la combinazione corrispondente alla rotta per Cherania. E ora la mia ignoranza delle cose del fulmine e della natura del pleroma mi fa vergognare.

Naturalmente sono al corrente fin dall’età della ragione del fatto che il fulmine è, ma ciò è differente dal comprendere cosa il fulmine è. Non inizia vera comprensione del fulmine se non è il fulmine a sceglierci, e la vergogna che provo ora mi ricorda che la comprensione del fulmine non si può mai esaurire. Fino a pochi anni fa, quando il fulmine aveva già cominciato a manifestarsi nella mia vita ma ancora non mi aveva scelto, la natura del fulmine mi gettava in un profondo imbarazzo: negarne la nobiltà mi sembrava biasimevole e Leggi il resto dell’articolo

“L’io so del mio tempo”. Il dilemma pasoliniano in “Gomorra” di Roberto Saviano

[Intervento di Matteo Pascoletti precedentemente pubblicato sul suo blog]

Nel romanzo Gomorra, c’è un episodio in cui il protagonista e voce narrante si reca presso la tomba di Pier Paolo Pasolini per recitare quello che definisce «L’io so del mio tempo». In questa espressione si possono notare due tratti: un tratto connesso ad una visione storicizzata del rapporto tra intellettuale e Potere (che in Gomorra è Potere economico e territoriale); un secondo tratto che, da questa visione storicizzata, isola un precedente illustre, ossia Pier Paolo Pasolini, e si pone su questa scia per denunciare, nel lasso di tempo che intercorre tra l’articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe? (1) e Gomorra, il processo di trasformazione del cittadino in consumatore, e le devastanti conseguenze a oltre trent’anni di distanza. Come si vedrà, il secondo tratto si palesa in relazione ad un altro precedente illustre, Luciano Bianciardi, che ne La vita agra ha ferocemente puntato il dito contro l’Italia del boom economico. È bene ricordare che il Pasolini dell’«Io so», impossibilitato a denunciare i responsabili di quei golpe che proteggono il Potere, è un intellettuale moralmente avverso al processo in corso, considerato un «nuovo fascismo»; ma come intellettuale, pena l’esautoramento del proprio ruolo o il suo tradimento, è eticamente impossibilitato a interagire con quel Potere che, scindendo la verità politica dalla pratica politica, favorisce il processo di trasformazione; un intellettuale non può separare la sfera dei valori da quella della prassi, dunque è impossibilitato, pur sapendo – e qui sta il dilemma – che ciò garantirebbe l’accesso a quelle prove o indizi. «Io so», dice Pasolini, «perché sono un intellettuale». «Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. […] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi» (2).«L’io so del mio tempo» rompe questo schema, e lo rompe perché Saviano lo considera rotto in partenza. Chi lo pronuncia è nato in terra di camorra, e nascere e crescere in terra di camorra è come avere a che fare con un “virus” inculcato dal proprio habitat sociale. Per fare un parallelismo con Pasolini, l’intellettuale Saviano è moralmente avverso a quel Sistema che agisce tramite la camorra, ma eticamente è impossibilitato a non interagire con esso: il connubio tra “virus” e “intelletto” fa sì che il virus agisca come un farmaco (ossia nell’accezione tanto di veleno quanto di medicina). Scrive Saviano, con un lessico in cui spiccano i riferimenti al corpo, alla carne e alle funzioni biologiche (3):

In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. […] E’ qualcosa di più essenziale, di più ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.
(Gomorra, pp. 330-331)

 

La consapevolezza di questo virus è parte stessa del romanzo, e caratterizza gli aspetti più autobiografici e intimi del protagonista. Sottintende un’architettura tragica, inoltre, poiché la colpa (il ‘virus’) è ereditata, frutto del fato. Il sintomo più evidente è quello di una rabbia che talvolta si mostra come vera e propria hybrys. Si pensi, ad esempio, al passo relativo alla villa del boss Walter Schiavone, progettata volutamente per essere una copia della villa di Tony Montana, il personaggio interpretato da Al Pacino nel film Scarface. Il protagonista, preso da una rabbia pulsante di fronte ad una simile manifestazione del Potere, di fronte a dei meccanismi che sfuggono alla logica apparente, come può essere per un crimine organizzato che guarda alla cinematografia hollywoodiana come ad un ipotesto da cui forgiare i propri simboli, si sfoga orinando nella vasca da bagno. «Un gesto idiota», dice, «ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio».
In precedenza, è sempre la rabbia, stavolta per l’ennesimo morto nei cantieri edili gestiti dai clan, a portare Saviano ad evocare il protagonista anarchico de La vita agra di Luciano Bianciardi, i suoi intenti dinamitardi contro il «torracchione», e a reagire con il già citato viaggio in treno a Casarsa, verso il cimitero dove è sepolto Pasolini:

Dovevo forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo.
(Gomorra, p. 232)

È proprio in seno a questa rabbia, che nei suoi momenti più impulsivi e ciechi ricorda la hybris dell’eroe tragico, che sgorga «L’io so del mio tempo». E sgorga da uno stato d’animo che precede la dimensione razionale o intellettuale: le parole di Pasolini infatti rimbombano come un «jingle musicale», una similitudine che, curiosamente, richiama un elemento della società dei consumi. A questo stadio, ci si trova ancora in una massa indistinta e astratta in cui i contenuti non sono codificati in forme e le parole non hanno consistenza logica: è un piano dunque viscerale, emotivo, non intellettuale. Ma ciò che segue permette al Saviano scrittore, attraverso la proiezione autobiografica e la catarsi narrativa, di porsi idealmente oltre il Bianciardi disintegrato da quei meccanismi del consumo che avversava, e oltre il Pasolini fermo di fronte ad un nodo gordiano che non sa sciogliere. Se per sciogliere il nodo gordiano Alessandro Magno usò la spada, Saviano usa la parola, e la usa per denunciare un golpe economico che ha la propria spina dorsale nell’edilizia, terreno privilegiato per l’amalgama di quel Potere in cui lecito e illecito sono categorie contigue, e non elementi in opposizione:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova […]. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra “È falso” all’orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di questa verità.

[…] Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni […]. L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna.

[…] Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento.
(Gomorra, pp. 234-240)

Per capire che cosa intenda Saviano quando afferma che «La verità è parziale», e non «riducibile a formula oggettiva», bisogna osservare il rapporto tra quei dati citati all’interno di Gomorra e la dinamica narrativa entro cui si manifestano. In Gomorra c’è un assioma deducibile alla base di questo rapporto, e che giustifica implicitamente la forma romanzo adottata dall’autore: conoscere il numero di morti prodotti dall’epidemia del crimine organizzato è diverso dal vedere quelle persone morire per effetto dell’epidemia. Per rendersi conto di come viva questo assioma all’interno del romanzo, si guardi il capitolo intitolato «La guerra di Secondigliano» (4): il dato relativo agli omicidi compiuti dalla camorra in quegli anni non presenta picchi rilevanti, mentre la narrazione di come abbia agito la guerra a Secondigliano mostra un clima in cui la mattanza è all’ordine del giorno e non risparmia niente e nessuno.
Alla luce di ciò, ci sono due considerazioni da fare. La rottura ideologica del dilemma pasoliniano agevola innanzi tutto un rischio, ossia che il messaggio contenuto in Gomorra, nell’arrivare al destinatario, non possa essere disgiunto dal mittente, facendo di quest’ultimo un simbolo (una coppia inscindibile emittente-messaggio): ma se il mittente predomina all’interno del simbolo, il messaggio si indebolisce, o viene ridotto a fenomeno di costume, addirittura ad epifenomeno. Il destinatario legge Gomorra, vede lo spettacolo teatrale o il film perché è di moda, perché attraverso quell’oggetto artistico costruisce un’autorappresentazione di sé, e disperde il messaggio in un meccanismo autoreferenziale; o, peggio ancora, si identifica emotivamente con un immaginario centrato sull’autore, e attraverso l’identificazione con l’autore identifica se stesso. Lo stesso Saviano è consapevole di questo rischio, come si evince da questo passo, tratto da un’intervista rilasciata a Internazionale:

Quello che ha messo in pericolo la mia vita non sono state le informazioni che ho dato, ma il fatto che queste informazioni sono arrivate a molte persone. Se ci raccontiamo queste cose solo tra di noi o in tribunale non facciamo paura. Oggi la comunicazione ha davvero – per usare una parola che tutti detestano – una missione. Basta raccontare al mondo cose che sono già agli atti. La mia vicenda spesso viene definita un fenomeno mediatico. Può sembrare riduttivo o offensivo, ma è esattamente così.
(Gomorra ai tempi della crisi, intervista a Roberto Saviano, «Internazionale» del 20 marzo 2009, p. 37)

La seconda considerazione riguarda la natura parziale di «questa verità», parzialità che fa retrocedere la possibilità di azione politica dell’intellettuale. Poiché i «nomi» che andrebbero fatti, secondo il dilemma pasoliniano, sono quelli di tutti i responsabili, a qualunque livello, e non soltanto quelli relativi a ciò che vedono gli occhi (i clan casalesi, in Gomorra). Quindi l’opera di denuncia può esaurirsi solo attraverso una composizione di visioni parziali che, come un mosaico, messe insieme restituiscano il quadro completo. Ma se il terreno si sposta dall’intelletto al piano emotivo e viscerale (un piano fondamentale nello stile di Saviano e che ha in Gomorra il suo esito più alto), fino a rendere più importante il secondo, se il contenuto veicolato dalla retorica diventa morale o ideologico, e se viene a mancare una prassi, allora, ritornando all’intervista, essere «fenomeno mediatico» per l’intellettuale-farmaco non è «riduttivo» né «offensivo». È piuttosto una pericolosissima degenerazione, poiché nel frattempo i responsabili che non sono stati denunciati avranno il tempo di mettersi al riparo, magari sfruttando l’attenzione rivolta dall’opinione pubblica a quelli denunciati, e poiché l’intellettuale-farmaco diventa rappresentazione di intellettuale ad uso e consumo delle masse. C’è un passo nell’articolo di Pasolini che parla proprio di ciò:

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si definisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
(Il romanzo delle stragi, p. 90)

Se si guarda alla recente iniziativa di Saviano degli “elenchi”, si nota come la degenerazione sia in fase assai avanzata. Con gli elenchi si è addirittura giunti al di sotto dell’ipocrita dibattito morale e ideologico di cui parlava Pasolini: tutto ora è emozione e bellezza collettiva in cui identificarsi, manca qualunque dimensione critica, intellettuale o razionale. Gli elenchi sono «carta costituente di se stessi» (5): domina un principio di identificazione in cui il soggetto che prova l’emozione e la scrive nell’elenco si autoreifica (ossia “io sono la cosa che mi piace”); quella con gli elenchi non è perciò una relazione basata sul gusto (“mi piace”). Addirittura agli elenchi si conferisce una capacità magica, poiché «i dettagli comuni inseriti negli elenchi smettono di essere cose trascurabili e divengono dettagli fondamentali».
Sono dunque all’opera i due rischi sopra indicati:

Sentimenti antichi, desideri vivi, lampi di gioie quotidiane irrinunciabili.
[…]
È da qui che mi piace pensare l’inizio di una possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono. Non il paese incattivito, egoista, in fondo disperato in cui ciascuno bada solo ai fatti propri, dove tutti sono ugualmente sporchi, compromessi, piegati, e quindi tutti uguali nella meschinità.

Come si può vedere, infatti, non è importante il messaggio codificato negli elenchi, ma l’esistere a-critico degli elenchi come oggetti emozionali: lo stesso Saviano è secondario, rispetto ad essi. Inoltre i nemici individuati, ora, non sono responsabili di un golpe secondo il dilemma pasoliniano, ma semplicemente persone al di fuori del meccanismo di identificazione, che lo rifiutano o non lo riconoscono:

Elenchi banali, diranno i cinici, pieni di ipocrisia e di falso buonismo, diranno i saccenti. Ma chiunque abbia ascolto sincero delle parole sa che sono loro a banalizzare, impauriti dalla semplicità quando diviene senso della vita e soprattutto punto fermo di felicità.

Si è perciò nella demagogica situazione in cui vengono additati come nemici degli eversori emotivi, la cui colpa non è politica, né morale o ideologica: la colpa è quella di non riconoscere la reificazione delle emozioni attraverso gli elenchi, il loro valore autofondativo.
Da notare che nel lessico usato da Saviano prevale ancora il richiamo e l’attenzione stilistica a ciò che è corpo e carne, parentela, legame. Tuttavia è sparito qualunque accenno alla propria condizione di intellettuale-farmaco, al provenire da una terra ‘infetta’. La malattia, il ‘virus’ è allontanato da sé, e proiettato sugli altri, così come sono presenti accenni a ciò che è cura e medicina, sempre esternalizzati:

[…] il sentimento dei legami va oltre la cerchia del sangue. L’amore per i genitori, anche malati […]. C’è il piacere di ridere, a crepapelle, sino alle lacrime: risate terapeutiche capaci di contagiare e curare chi è triste. […] la ricerca della felicità, che si fa corpo in questi elenchi. […] un’Italia integra, pulita […].

L’atteggiamento, dunque, l’ethos incarnato dalle parole di questo Saviano è quello del demagogo che crea un senso collettivo in cui ciò che è critico è potenzialmente una minaccia e va visto a priori con sospetto, poiché l’atteggiamento critico distanzia se stessi dalle cose; un demagogo particolarmente efficace, va detto, poiché popola questo senso collettivo con un immaginario che proviene “dal basso” e che si limita ad amministrare attraverso la retorica e l’autorevolezza conquistata in precedenza. Un procedimento la cui pericolosità è sintetizzabile in queste due frasi: «la dimensione privata di molti messa insieme può divenire pubblica. È da qui che mi piace pensare l’inizio di un possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono». Ciò che manca, oggi, è un aspirante tiranno in grado di fare sua questa visione populista, ma è chiaro che, rispetto alla visione populista berlusconiana, che è calata dall’alto (il mito della «discesa in campo»), quello degli elenchi è un populismo complementare.

 

NOTE

(1) Apparso sul «Corriere della sera» del 14 novembre 1974. Si è fatto uso del testo che compare in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2008, pp. 88-93, dove compare con il titolo Il romanzo delle stragi.
(2) Il romanzo delle stragi, p. 89.
(3) Si cita da R. SAVIANO, Gomorra, Milano, Mondadori, 2006.
(4) Gomorra, cit., pp. 71-150.
(5) cito dall’articolo Cinquantamila ragioni per vivere / Tutti gli elenchi della felicità linkato in precedenza.

Ti amo ancora

Riportiamo un racconto di Pierluca D’Antuono, bassista dei Vigo, del quale speriamo sentirete ancora parlare in qualità di scrittore (noi lo sappiamo che ha un bellissimo romanzo che attende di prender forma, per adesso solo abbozzato tra pagine e pagine di appunti vergati a penna, e che deve solo trovare il tempo e la forza per scriverlo).

Per primo è toccato ad Annio, poco più di un anno fa. Lo hanno trovato ai Cerchi freddo duro e sorridente. Sembrava uno scherzo o un tragico incidente. Hanno fatto di tutto per non farci capire niente. I grandi non ci dicevano nulla, appena ci vedevano cambiavano discorso o stavano zitti. Abbiamo cercato di vederlo ma non ce l’abbiamo fatta. Lo hanno portato subito via e hanno pulito tutto. Sangue a terra non c’era, era difficile capire il posto preciso dov’era.

Tutti pensavano a un caso isolato, tranne noi. Era troppo strano ma noi capivamo. Qualcuno a Castel Sinone stava ammazzando i nostri amici. E io e Nina abbiamo cominciato a cercare.

A Castel Sinone siamo milleeduecento. Siamo quasi tutti parenti. Sono tutti vecchi tranne quelli della mia scuola. Non ci sono edicole e i nostri genitori non ci fanno più vedere la televisione, da quando l’anno scorso è capitato il famoso caso di Alfredino il bambino che è caduto nel pozzo. E ora è anche peggio con quello che sta succedendo.

Anche io e Nina siamo parenti, le nostre mamme sono sorelle. Ma è solo un anno che stiamo sempre insieme. Prima io stavo con mio fratello Benito e i suoi amici grandi. Hanno tutti 18 anni e non vanno a scuola. All’inizio stavo bene mamma mi faceva uscire a tutte le ore con loro e usavamo la macchina di Gabriele. Era bello nei campi e in campagna e qualche volta mi hanno fatto pure guidare. Poi è successo che hanno cominciato a chiedermi dei giochi che non mi piacevano e non capivo perché dovevamo fare. La lotta è uno di quelli.

Dopo Annio c’è stato Michele. Un giorno comincia a non venire più a scuola ma nessuno dice niente. Io e Nina andiamo a casa sua era tutta chiusa e spenta. Vicino alla porta sentivamo la mamma che piangeva. Il padre si è accorto di noi e ci ha tirato una pietra. Le maestre hanno detto che Michele era andato a stare dai nonni in città, e per ora non tornava o forse non tornava proprio. Noi non ci crediamo e per sapere andiamo ai Cerchi, ma pure questa volta non c’è niente da vedere.

La lotta è diventato uno di quelli che tutti mi toccavano e stringevano e poi alla fine mi chiedevano di togliermi le mutande. Le toglievano anche loro e dovevamo toccarci. Poi hanno cominciato a dire che con le mani non era più divertente. Proviamo con la lingua hanno detto a mio fratello.

Nina ha capito subito che succedeva qualcosa perché ora i Cerchi sono sempre puliti. Prima neanche potevamo entrare. Dico perché a terra era tutto pieno di vetri bottiglie siringhe e immondizie. Questo è il posto più nascosto del paese e qua ci vengono a stare tutti. Doveva essere lo stadio del nuoto ma dopo che c’è stato il famoso terremoto non lo hanno più finito. Poi è successo che hanno arrestato tutti i politici del paese per i soldi che sono spariti e ora nessuno può decidere se finirlo o toglierlo proprio.

Io con la lingua proprio non volevo ma loro hanno insistito e hanno detto che almeno una volta dovevamo provare, una volta soltanto. Io ho chiesto almeno non tutti e loro hanno scelto mio fratello hanno detto che era meglio ma mentre lo facevo non mi piaceva per niente e gli ho dato un morso. Lui ha urlato poi si è girato per un po’ è stato di spalle e faceva strani versi. Quella è stata l’ultima volta che stavo con loro.

Vado via piangendo ma senza farlo vedere sennò ricominciano.

Nina è più grande di me di un anno, ha 12 anni. A lei soltanto ho raccontato questo perché una volta mi ha detto che anche a lei è successo quando era piccola che suo padre la sera la mamma la metteva a letto e poi lui andava a salutarla e l’accarezzava toccava baciava leccava stringeva tappava il naso e la bocca le tirava i capelli e le mordeva la schiena. Lei faceva finta di dormire perché pensava che lui la smetteva. Una volta è rimasta cogli occhi aperti ma suo padre le ha detto chiudi gli occhi Nina è più bello se dormi.

Anche Nina è stata fortunata come me perché suo padre poi ha smesso. È stato quando è nata la sorellina Adelina tre anni fa. Il padre è impazzito per lei e ora a Nina non la guarda nemmeno. All’inizio era un po’ triste ma poi ha pensato che era meglio così.

Anch’io ho una sorella più piccola e un altro fratello oltre a Benito. Ora è tanto che è andato via di casa, è stato circa cinque anni fa, nel 1977. Io non ho capito bene ma mia cugina Cesira a scuola mi ha detto che suo padre dice sempre che mio fratello è un terrorista ed è andato a Roma per uccidere i politici e fare come la Russia. A casa non possiamo parlare di Adolfo. Una volta al mese arriva una telefonata che sta zitto e non dice niente ma mia madre piange e capisce che è lui. Mio padre invece non è così che la vede a lui non gli piace e basta. Dice sempre meglio morto che rosso. Lui preferisce i fascisti. In casa abbiamo il busto di Mussolini e mio padre ha fatto la guerra infatti era paracadutista. Lui vuole che pure a noi ci piaciono i fascisti. Voleva convincere pure Adolfo, in quanto Benito non capiva perché è un po’ scemo e comunque diceva che già lo era. Ma Adolfo era contrario. Con alcuni suoi amici di Selce faceva delle riunioni e faceva le scritte rosse sui muri del paese. Una sera dopo una di queste riunioni mio padre con i suoi amici è andato a prenderlo e lo ha portato ai Cerchi. Lo hanno picchiato tutti insieme per fargli capire. Mio padre diceva lascia stà i comunisti a casa mia non esiste. A un certo punto zio Michele lo ha fermato perché Adolfo non si muoveva più. Lo hanno lasciato davanti all’ospedale di Selce. Da quella volta Adolfo non è più tornato a casa. Una settimana dopo mio padre ha trovato davanti alla porta una busta con sei proiettili e un po’ si è spaventato. Da allora non si sono più parlati. Ora mio padre quando parla con qualcuno dice che ha tre figli, Adolfo non lo conta più. A me mi dispiace perché Adolfo era bravo non come Benito e neanche come mio padre.

In estate sembrava che non moriva più nessuno ma poi è stato il turno di nostra cugina Maria. Quella volta io e Nina eravamo ai Cerchi. Stavamo giocando e poi Nina ha visto mio fratello Benito che si muoveva vicino ai tronchi morti. Guardava per terra e ha raccolto qualcosa poi è andato via senza vederci. Abbiamo aspettato che si allontanava e poi Nina è corsa solo per guardare e ha urlato. Maria era immobile schiumava dalla bocca ed era bianca sacrificio come non immaginavamo si poteva. Non sapevamo che fare è stato come vegliare una domenica mattina in chiesa ma per una cosa più vicina e seria. Un’ora dopo Nina si è alzata la luna incendiava già il cielo che stava per crollare da un momento all’altro esplodeva abbiamo corso la distanza che ci separava dalla prima casa di grandi e mezz’ora dopo hanno tolto Maria. Io pensavo che erano tutti contenti con noi che avevamo fatto una scoperta buona da adulti e invece ci hanno castigato sgridato e pure picchiato che infatti per i segni non potevamo neanche andare a scuola.

È da allora che io e Nina stiamo sempre insieme.

La prima volta con Nina non l’ho mai dimenticata. Eravamo a casa sua. Al piano di sotto c’era solo il padre con Adelina. Dalla finestra stavamo spiando nostra zia Adriana che stava a letto con uno che era uguale a Don Alfio ma era senza tonaca. Per me non era lui ma Nina era sicura perché ha detto che non era la prima volta che li vedeva. Lui aveva i vestiti mentre lei era nuda ma a un certo punto si è messa una busta di plastica in testa e ha cominciato a fare la pipì per terra. Nina rideva io guardavo più lei che loro perché avevo come una paura a vederli un peso sul petto che mi faceva respirare male. Nina si è accorta che la guardavo e si è avvicinata continuando a fissare zia Adriana. Più era vicina più quel peso che sentivo diventava forte ma era anche bello era come un dolore che non faceva tanto male. A un certo punto si è girata verso di me deve essere stato un attimo fortissimo che dura all’infinito e allora mi ha preso la mano. Io l’ho lasciata fare poi mi ha cominciato ad abbracciare. Nina era davvero bella e mentre lo pensavo mi ha passato le mani su tutta la schiena e allora quel peso che avevo si è come sciolto in un bruciore sotto la pancia nello stomaco che si muoveva sopra e sotto dentro e sotto si muoveva bene. Nina mi accarezzava i seni e mi dava dei baci sul collo poi mi ha detto che ero bella e che le piacevo un sacco e a quel punto ci siamo baciate sulla bocca muovendo forte la testa e ci toccavamo dappertutto e ci stringevamo molto. Nina mi accarezzava la testa e poi mi ha tirato i capelli e mi ha morso un labbro mi ha fatto male e mi sono arrabbiata ma lei ha detto che era solo per provare che forse era più bello. A un certo punto abbiamo sentito la mamma di Nina che entrava in casa e dopo un po’ ha cominciato a gridare ce l’aveva col padre gridava fortissimo e gli tirava tutto litigavano di brutto ma il padre non diceva niente. Nina ha detto che era strano che non parlava e allora voleva andare a vedere. Siamo scese ma ci siamo nascoste in un ripostiglio sulle scale. La mamma piangeva faceva davvero casino aveva in braccio Adelina e l’accarezzava dietro. Lui provava ad avvicinarsi e allora la mamma impazziva, tirava qualsiasi cosa trovava, mancava solo la bambina. Quando ha tirato un posacenere pesantissimo che è andato contro la tv e ha spaccato tutto, Adelina ha cominciato a urlare e noi ci siamo spaventate. Allora ho preso Nina per mano e ci siamo abbracciate e baciate e le mi ha detto ti amo ancora più di prima e abbiamo ricominciato come in camera mentre la zia ha cacciato di casa lo zio e pure dalla finestra gli tirava le cose.

La sera della finale dei mondiali tutto il paese era ai Cerchi. I genitori hanno organizzato come una grande festa con le salsicce e la brace e tante cose da bere. C’erano tutti i nostri amici e le nostre amiche. Era da un po’ che non capitava più niente e infatti ora qualche grande era più tranquillo perché pensava che tutto era passato come se non era mai successo niente. Quella sera c’erano anche Benito e i suoi amici che ogni volta che vedevano me e Nina facevano un risucchio con la bocca tipo un bacio strozzato per prenderci in giro e per tutto il tempo sono stati vicini a noi bambini che eravamo in disparte perché la partita non ci piaceva. Benito stava sempre insieme a Orlando, il fratello di Nina, erano i capi del loro gruppo, i più forti e rispettati. Quella sera i Cerchi erano silenziosissimi, si sentivano solo le radioline e le urla dei tifosi, erano tutti attentissimi ma a un certo momento abbiamo visto Orlando e Benito che se ne andavano correndo, inseguivano Graziella ma nessuno ci ha fatto caso. Nina si è alzata per seguirli, io non avevo voglia ma siamo andate lo stesso. Orlando e Benito correvano troppo per noi e infatti li abbiamo persi e siamo tornate indietro. La partita era finita ma i grandi erano preoccupati perché non trovavano Graziella. Ci siamo messi a cercarla finché qualche genitore ha detto che noi piccoli dovevamo tornare a casa. Graziella non l’hanno mai trovata e la mamma è impazzita.

Noi pensiamo che Orlando e Benito sanno cosa sta succedendo ai nostri amici, ma per ora non possiamo parlare ai nostri genitori perché tanto danno la colpa a noi e ci picchiano. L’idea di quello che faremo è venuta a me, ho convinto Nina. Ieri abbiamo chiesto a Orlando e Benito se possiamo andare con loro ai Cerchi. Facciamo che vado prima io e dico che lei non c’è, poi quando loro cominciano esce Nina. Per questo abbiamo rubato a casa un coltellino svizzero e una chiave inglese di mio padre. Quando siamo sicuri di quello che sanno o quello che fanno li uccidiamo poi scappiamo e scriviamo una lettera anonima a tutti i grandi del paese. A quel punto però non possiamo più tornare. Nina vorrebbe rimanere nascosta tutto il tempo. Ma io ho pensato che sarebbe bello andare a Roma da mio fratello Adolfo. Mi piace l’idea di andare da lui che se vuole possiamo aiutarlo a fare come la Russia la rivoluzione in cambio di niente.

In cambio di un posto dove io e Nina possiamo stare insieme per sempre.

Qui non vogliamo più restare.

Guerra: una raffinata forma di masochismo

Le sole persone di buon senso che incontriamo

sono quelle che condividono le nostre opinioni.

La Rochefoucauld

 

Mi riesce un po’ difficile convincermi che tutti

possano aderire al mio punto di vista, che si

trovino tutti sulla mia lunghezza d’onda, con

tanta compattezza, senza che qualcuno dissenta.

Fabrizio De André

 

Solo in due casi penso che una persona sia

cretina: quando non mi capisce o quando

mi capisce perfettamente. Io, ormai, non

cerco neanche più di capirmi.

Antonio Romano


Il concetto del doppio ha sempre affascinato l’umanità. Il doppio è la chance, l’ipotesi, l’alternativa (per Rank sei frocio, ma questo è un’altra questione): bianco o nero, alto o basso, vero o falso. Questi – che a prima vista possono sembrare degli opposti – sono dei clamorosi doppi. Il fatto che se non è bianco è nero, implica che l’oggetto in questione abbia la potenzialità intrinseca d’essere sia bianco che nero, cioè di poter modificare la propria colorazione senza cambiare la propria identità. Questa è doppiezza.

Il fatto che i miei calzini siano neri anziché bianchi non esclude che possano essere bianchi anziché neri, ma sempre calzini restano. Questa è doppiezza. Il fatto che un uomo dica una verità anziché una menzogna non esclude che possa dire una menzogna anziché una verità, ma sempre lo stesso uomo è. Questa è doppiezza. O meglio è la scelta, o la chance o l’ipotesi o l’alternativa che ci permette di mentire o di dire la verità oppure di cambiare calzini a seconda dei pantaloni.

Il concetto del doppio si è espresso per secoli anche sotto forme impensabili. Per esempio, una forma del doppio è l’antinomia. Il fatto che una frase possa contraddire se stessa è l’espressione della doppiezza del discorso. Il discorso dovrebbe servire a comunicare, ma, se finge di comunicare, la comunicazione va a farsi benedire. Se una frase si contraddice – e si dimostra non vera – diventa inutile. Una celebre antinomia della scuola megarica è la semplicissima frase: «Sto mentendo». Un attimo! Che vuol dire «Sto mentendo»? Evidentemente che sto mentendo sul mentire. Allora dico il vero? No, se ho detto che sto mentendo.

È interessante questa antinomia visto che, sotto le mentite spoglie della comunicazione, nasconde l’incomunicabilità (dovrei forse rammentare Lacan, che spiega il dramma del disavanzo fra desiderio e parola: ma non mi va di alzarmi a cercare in libreria). Questa frase non porta a termine il suo compito – la comunicazione – perché non serve a comunicare alcunché; ha lo stesso valore della domanda «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?»: il vero significato, l’essenza e la funzione della domanda vengono annullate e vanificate in quanto la domanda si risponde da sola. È incomunicativa, inutile. E anche in questo c’è doppiezza: in una domanda che è contemporaneamente risposta.

Un’altra antinomia, stavolta dei logici medievali, è: «Socrate dice: “Platone dice sempre il falso”, Platone dice: “Socrate dice sempre il vero”. Chi mente dei due?». Anche qui c’è doppiezza, visto che sia Socrate che Platone sono contemporaneamente bugiardi e sinceri.

Un caso interessante – e forse illuminante a proposito di questa tematica – ce lo dona il popolo dei Maya. Questo popolo straordinario, su cui ancora molto deve essere scoperto e detto, riuscì a sincronizzare il calendario solare con quello lunare creando un nuovo calendario di 364 giorni (il 365° avanzante fu dedicato alla Festa del Tempo: momento in cui i Maya si divertivano sfrenatamente. Tale giorno non veniva neanche computato, come se non fosse mai esistito… tipo Una notte da leoni); questa sincronizzazione potrebbe essere facilmente interpretata come il sintomo d’un’ossessione (non per nulla i Maya sono anche chiamati “Maniaci del Tempo”) oppure, meno facilmente e più costruttivamente, come il desiderio profondo d’annientare la doppiezza; scandire il tempo secondo il sole o secondo la luna è un caso eclatante di doppiezza. I Maya avranno così voluto cancellarlo. Sempre i Maya, in questo campo, offrono un secondo spunto di riflessione. Quando si salutavano usavano una formula che recitava: «In lak’ech», io sono un altro te stesso. Questo popolo doveva aver intuito che l’umanità soffre di doppiezza nei termini di “io” e di “altri”; teoricamente si potrebbe azzardare che avessero anticipato ideologie politiche come il comunismo prevedendo un abbattimento dei ruoli psico-antropologici; sempre teoricamente si potrebbe azzardare che abbiano abbattuto i presupposti per la lotta sociale, per le faide, per la rivalità e per l’invidia (difficile pensare che per un Maya sarebbero valsi gli ultimi due gradi della gerarchia dei bisogni di Maslow): anche in questo caso sembra quasi che abbiano voluto eliminare la doppiezza della società, le differenze fra “io” e gli “altri”. Però, cosa avrebbe risposto un Maya alla domanda: «Preferisci te o me?». Probabilmente non avrebbe saputo rispondere, se è vero che “io sono un altro te stesso” (si pensi alla coincidenza nell’etimo della parola “persona”). Fortunatamente a queste antinomiche doppiezze linguistiche pose una regola (dunque un limite) Russell, stabilendo che le proposizioni non devono essere autoreferenziali. Intendiamoci: Russell non ha eliminato le doppiezze del discorso, le ha solo arginate. Le doppiezze, cioè gli opposti all’interno di uno stesso soggetto o oggetto, implicano l’armonia; gli opposti che convivono sono, a loro modo, armonici. Ma l’armonia non è sempre positiva. Armonia, che ha la stessa radice di arma, comporta appiattimenti, e tutti gli appiattimenti comportano repressione (non soluzione) delle differenze e dei problemi. L’armonia è solo il paravento dietro cui combattono gli opposti. Tale “guerra” (bisogna giustamente intendere questa parola, senza vizi d’interpretazione) per Eraclito è il fulcro stesso dell’esistenza. Dico che bisogna giustamente interpretarla perché, attraverso i millenni, certe parole hanno perso via via il loro autentico significato e si sono dovute avvalere di vari aggettivi (guerra d’offesa, guerra di difesa, guerra preventiva, guerra intelligente, guerra espansionistica, guerriglia).

Biante di Priene, uno dei Sette Savi, diceva che il più pericoloso degli animali selvatici era il tiranno e di quelli domestici l’adulatore. Hobbes, invece, disse: «Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode». Il tiranno e l’adulatore, che per Biante erano animali pericolosi, si sono trasformati nelle due virtù cardinali della guerra per Hobbes: la forza e la frode.

Hobbes, si sa, non era un campione di pacifismo (non per nulla è sua la teoria del «Homo homini lupus». L’espressione, in realtà, è da far risalire alla seconda parte – verso 495 – dell’Asinaria di Plauto, in cui è possibile leggere «lupus est homo homini». Altre possibili fonti potrebbero essere ricercate nel settimo capitolo, paragrafo primo, dell’Historia naturalis di Plinio e nel primo paragrafo della centotreesima delle Epistule di Seneca), ma questo la dice lunga su almeno un dato: la guerra è la parte sporca della nostra coscienza, quella che vuole prevalere sull’altro.

Igiene del mondo una sega! Se Marinetti avesse perso qualche arto in battaglia o fosse stato costretto in un letto per tutta la sua esistenza (o sulla sedia a rotelle come Evola) non avrebbe detto cose del genere. All’inizio uno dei Savi disse che la forza (ovviamente la forza “cattiva”, impersonata dal tiranno) e la frode (impersonata dall’adulatore) erano pericolose, in seguito l’empirista del ‘600 le fece diventare le virtù cardinali della guerra e, infine, il futurista tramutò la guerra in una cosa necessaria e giusta. Non vi pare che ci sia una logica ferrea in questa follia? In ogni caso la guerra non è giusta, a prescindere dagli aggettivi con cui la si voglia accoppiare.

La cosa più folle, però, è che non sono sempre gli opposti a fare guerra. Spesso e volentieri sono proprio gli omologhi a combattere fra loro. Francia, Germania e Inghilterra non hanno fatto altro per secoli e non perché diverse, ma perché troppo simili. Questo dovrebbe far riflettere: se attacchiamo una persona che ci somiglia troppo (almeno quanto si somigliano Francia, Germania e Inghilterra) significa che abbiamo gravissimi problemi con noi stessi.

 

Antonio Romano

Metodica delle cose inutili – La felicità

Quanto sarei felice se solo fossi felice.

Trattando della felicità possiamo dire cose molto importanti. Tutti vogliono essere felici. Tutti farebbero qualsiasi cosa per essere felici. È per essere felici che la gente vive piena di infelicità.

La felicità rappresenta l’apoteosi tetragonica dell’inutilità.

Guardiamo da vicino le parole che le danno vita. Prima di tutto, felicità, che più o meno significa allattamento, nutrimento: l’uomo è felice quando ha a che fare con il cibo. Se prendiamo la parola gioia entriamo nel campo della goduria: tolti i surrogati, quando pensiamo al godimento, pensiamo all’amore. Poi abbiamo la parola lietezza, dove lieto non può nascondere di essere la stessa parola di letame: la fertilità, certo, ma anche quel finire in poltiglia e far nascere qualcos’altro: quella forma di eternità chiamata morte, insomma.

La felicità, dunque, riguarderebbe stati essenziali dell’esistenza. La felicità è uno stato dell’essere. Felici si può essere o non essere.

Il passo fondamentale che introduce la felicità nel nostra sistema dell’inutile, dunque, è l’instaurazione di una retorica che permetta alla felicità di essere degradata a oggetto, e, quindi, di essere posseduta.

Il primo effetto del decadimento da uno stato dell’essere è una nostalgia che la ridondante fantasia umana trasforma in vaste narrazioni teologiche. I greci preferivano pensare a dei da cui siamo separati a causa della dismisura fra la loro felicità e la nostra infelicità. Più bruscamente, la tradizione cristiano-giudaica preferisce immaginare che un dio collerico ci abbia cacciato dal bengodi per tenerselo a proprio esclusivo godimento. Il succo non cambia: grazie a queste fantasie l’uomo deve vivere per colmare la dismisura e riconquistare il paradiso.

Il paradiso è l’oggetto da ottenere. A tutti i costi. La vita è la lotta feroce per conquistare questa felicità. Le diverse modalità di questa lotta, nessuna manchevole di ferocia, fanno per intero la nostra storia.

Bisogna aggiungere, poi, che oggi la qualità di questa ferocia diventa particolarmente godibile così come lo diventa quella dell’oggetto felicità, sempre più vertiginosamente inutile. La religione ha finora posto un limite a se stessa: inventa una vita come gara, ma pone regole a questa gara. Gli antichi avevano un dio sommo, Zeus, che era ospitale. Che tu ci credessi, o ti attenessi semplicemente ad una regola, ma di fatto dovevi smettere di lottare davanti all’ospite, al più debole, all’altro: dovevi usare la pietas. La stessa attenuazione, più o meno, ha avuto corso nei monoteismi.

La diga, invece, ora è rotta. La lotta è senza quartiere. È una guerra disperata. Siamo nel regno della paura. Il nostro sistema è un sistema della paura. La nostra economia è un’economia della paura. Noi compriamo la felicità. Per comprarla dobbiamo lavorare tutto il giorno fino a sentirci male. Il nostro lavoro consiste nel non fare lavorare gli altri, in uno scenario diviso fra disoccupati cronici e superaffaticati. Chi può, compra la felicità. La felicità è non avere paura. Compriamo badanti per non avere a che fare con i nostri vecchi, con la vecchiaia che fa paura; per comprare bambinaie, e non avere a che fare con la paura che ci mette addosso la confusione creativa dei bambini; per comprare oggetti, televisori e nuovi strumenti tecnologici, che ci rendano facile il rinchiuderci a casa, dove stiamo bene, perché abbiamo paura dell’esterno.

La nostra vita è un’allucinazione, la quale, se non porta alla santità, è la cosa più maledettamente inutile del mondo.

Pier Paolo Di Mino

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 23

[Segue da qui]

Per quanto gli animali si dannassero nel rifornire con celerità i loro compagni, fu chiaro fin dall’inizio che quel diversivo avrebbe avuto vita breve. Le forze dell’ordine esibirono in fatti il loro corredo di scudi in plexiglas, col quale ripararono anche i politici e i giornalisti, che da dietro quel bel paravento tuonarono altre minacce condite con frasi di convenienza.

In un momento di pausa – ché d’altronde gli artisti, tra alcool e fumo, di fiato ne tenevano ben poco – dallo schieramento uscirono un paio di ardimentosi volontari, imbottiti di tutto punto e muniti di tenaglie, con le quali si apprestarono a rompere i catenacci che tenevano chiuso il colorato cancello della Repubblica indipendente.

Il nemico avanzava, spronato anche dalle parole del Presidente, che dal megafono lanciava la promessa di detassare gli straordinari per incentivare l’iniziativa dei suoi soldati. Più l’azione si faceva serrata e più le sparate aumentavano di calibro: si parlò di abbattere l’ici sulle seconde case di tutti i familiari di primo e secondo grado appartenenti all’arma, mentre ai giornalisti, per tenerseli buoni, venne fatta solenne promessa di ristabilire la libertà d’informazione. Addirittura, pare venne persino ventilata l’ipotesi di sconfiggere alcune tra le più gravi malattie che da decenni flagellano il corpo umano.

Insomma, tutti, dagli operai agl’imprenditori, si strinsero intorno al proprio governo nella caccia agli spietati parolieri, che non possedevano la necessaria e cieca fede per risollevare le sorti del mondo. Grazie alla magia del montaggio e all’arte dell’inquadratura, le televisioni seppero poi fare il resto: quella trasmessa in diretta sembrò ai più una vera e propria azione di guerra, necessaria per sventare la minaccia di una nuova terribile banda di terroristi.

Messi alle strette, con tutto il popolo contro, gli scrittori si decisero a usare quella che da sempre è la loro arma migliore, l’unica che avrebbe potuto ancora salvarli: la parola.

A tal proposito, il vegliardo intellettuale teneva in serbo un’arma segreta, di cui nessuno, neanche la fidata compagna, era a conoscenza. Egli raccontò ai suoi compagni che nascondeva in una stanza un grosso baule, dove erano stipate centinaia di copie di libri insulsi, ch’egli andava sequestrando in giro. In pratica, l’uomo aveva passato diversi anni a convincere le persone che uscivano dalle librerie con in mano un’opera, a suo dire indegna, ad accettare il cambio che proponeva loro: un altro libro, la cui lettura avrebbe cambiato per sempre la loro vita, purché avessero acconsentito a consegnargli la porcheria che avevano appena acquistato, attratti più dalla pubblicità che dal vero contenuto dell’opera.

“Finalmente”, esordì l’artefice della Repubblica indipendente, “è giunta l’ora di dare un senso a tutta questa robaccia!”.

Insomma, il piccolo battaglione si sbizzarrì non poco nel rendere utili quei libri. Di alcuni strapparono le pagine, intrise di pessimo romanticismo e retorica da quattro soldi, per farne delle grosse palle di carta a cui dar fuoco. Di altri usarono invece i dorsi, che con i loro spigoli erano armi contundenti alquanto dolorose.

Mentre si provvedeva al lancio di palle infuocate e di copertine rigide, il canuto autore di satira si lasciò andare a teneri ricordi: “Non avete idea, voi altri, di quanti Bianciardi, Gadda e Landolfi sia riuscito a far leggere con questa semplice tecnica pedagogica…”.

Simone Ghelli

Come avrete intuito, questa storia non finisce qua, ma l’autore si riserva d’infliggervi quella giusta punizione chiamata attesa, che renderà ancora più gradita la lettura quando i pezzi della vicenda saranno stati rimontati a dovere, come si conviene a ogni finzione che si rispetti. Nel frattempo, tutto questo potrebbe essere accaduto davvero…

I Cariolanti

I Cariolanti (Elliot, 2009)

di Sacha Naspini

Fame. E’ il grugnito di quella scrofa chiamata vita. Un verso che spezza il silenzio dei pensieri, che lascia attoniti i sospiri e che divora ogni azione. Fame. Nell’allargarsi delle vocali c’è qualcosa che aspira, che succhia avido dal midollo stesso dell’esistenza. Un rivoltante sapore di nulla che non permette di lasciarsi andare alla contemplazione degli uomini, all’apprendimento dei loro usi, regole, ragioni. Quel gusto privato di odore rende tutto semplice. Vuoto. Colmare. Riempire.


Vuoto. Colmare. Riempire. Come nella buca nel terreno dove tutto comincia, dove per la prima volta Bastiano si sente raccontare dei Cariolanti, che se non mangi tutto ti vengono a prendere e ti portano via per divorarti.

Nel terreno sente i rumori della vita che si smuove attorno a lui, che viene scossa dal tremito dei corpi che muoiono per la guerra del ’18, un conflitto di cui non sa nulla perché il padre, imboscato, non ne parla. Il padre lo tiene rinchiuso con la moglie in quell’angusta fossa, coperta da tavole e sterpi, dove devono accendere il fuoco al coperto, rischiando il soffocamento, dove quando piove l’acqua e il fango invadono i capelli, li sfibrano, come il fisico che non riesce a sostenere i morsi della fame.

E quando arriva l’inverno e le bestie non si possono cacciare con la solita trappola (una lancia appuntita che sfonda il cranio da un foro sottoterra) cosa si mangia? Come si mangia?

La fame. Fa sporcare le unghie nello sforzo di scavare in cerca di una radice, di un verme, di qualsiasi cosa. La fame tramuta “il qualsiasi cosa” in una parte della coscia della madre. Una piccola parte però, quel tanto che basta, magari solo un pezzettino da dividere poi anche con la povera donna che al risveglio, grazie a un cinghiale ucciso, neanche si assaggia.

Da quel momento tutto cambia perché quello che Bastiano vive è una realtà amplificata. Disumana nell’accezione animalesca. È un uomo che ragiona a quattro zampe, che respira con le orecchie dritte le voci dei paesani nel momento in cui il conflitto termina e finalmente si può costruire una casa per abitarla.

Un crudele scherzo della natura umana che non scende a patti con l’evoluzione. Bastiano è questo. Istinto puro trattenuto a fatica dalle regole sociali, istinto legato alla fame ereditata dal padre, uomo pragmatico, essenziale, nudo nella sua terribile presenza, in tutta la sua terribile e lontana presenza è dentro il figlio a spingere contro le pareti delle sue vene per farlo diventare più grande, più uomo, ma senza spiegargli il perché. Senza dimostrazioni d’affetto per quel tardo che si mena l’uccello dietro le siepi.

Ma il retaggio famelico non è soltanto paterno perché la madre nella sua silenziosa coerenza di conservatrice di vita è amorevolmente glaciale nello spiegare al figlio come funziona il mondo. Una donna marziale che insegna anche come si devono toccare le donne, che sacrifica ogni pudore per la carne della sua carne, che vuole appagare quegli occhi giovani che chiedono un pasto di risposte. Madre che addenta la sopravvivenza da ogni lato.

La storia di Bastiano è un incredibile viaggio nell’Italia delle due guerre, nella campagna, tra boschi e branchi di cani, innamoramenti violenti e incoscienti, fughe dalla realtà, da sé stessi, avvinghiati alla bella penna di Sacha Naspini, che mette insieme il passato e il futuro della nostra letteratura con bravura disarmante. Nello stile del trentatreenne autore toscano si ritrova un Collodi privo della fiaba, un realismo moderno che riesce a gettare il lettore in vicende accadute più di novant’anni fa senza creare distanza temporale, senza renderle anacronistiche o passate.

La vita di Bastiano è un tuffo nel vortice della fame e della disperazione umana. Una disperata consapevolezza di essere nato per traverso e di non riuscire a trovare un pasto che sappia saziare quella bocca interiore spalancata che porta il nome del protagonista. Che trancia i tessuti di ogni illusione sporcandoli del sangue e della merda della storia di un uomo.

In tre righe? Sporco come la faccia di un bambino affamato.

Alex Pietrogiacomi

Qui l’intervista a Sacha Naspini.