Come ho perso la guerra

Come ho perso la guerra (Fandango, 2009)

di Filippo Bologna

 

La famiglia Cremona è da generazioni una delle più ricche del paese – un piccolo paesino toscano molto vicino a Siena. Il bisnonno aveva l’abitudine di frustare i contadini e si era fatto costruire un vero e proprio maniero, con tanto di passaggi segreti, come simbolo della sua potenza. La famiglia, nel corso delle generazioni, ha mantenuto parte della sua ricchezza ed ha un nome altisonante, da difendere ad ogni costo. La pace è bruscamente interrotta dall’arrivo di Ottone Gattai, un imprenditore spietato e senza scrupoli, cinico ed arrivista, arrogante e amico di «tutti quelli che contano». Scopo dell’imprenditore è di risollevare le sorti economiche del paese, costruendo – grazie alla sua società, la Acquatrade srl – un vero e proprio centro termale, modernissimo e dotato di piscine, un albergo extralusso e tutti i comfort che gli ospiti possano desiderare. Deturpare il paesaggio con questo enorme complesso, modificare il modo di vivere di un paese, non importa minimamente al Gattai: è il fatturato quello che conta. Per cui… che si sradichino alberi, che si scavi… che il progresso giunga finalmente trionfante anche nel cuore rurale della Toscana.

Come si finisce in una vera e propria guerriglia? Federico Cremona – protagonista del romanzo e ultimo erede della famiglia più in vista del paese – non saprebbe neppure spiegarlo. Trova insostenibile che tutto possa avere un prezzo, che tutto sia in vendita: anche l’acqua, anche le idee che per generazioni si sono tramandate nella sua famiglia. La famiglia Cremona è espropriata di parte della terra che appartiene loro. Eppure nessuno batte ciglio. Anzi. Pare che tutti, eccetto Federico, siano fiduciosi, pronti ad arricchirsi. Che resta da fare? Combattere. Resistere. Sabotare l’Acquatrade srl, sabotare Ottone Gattai. Al suo fianco ci sono i suoi amici e Lea, l’amore della sua vita.

Filippo Bologna esordisce con un romanzo dalla struttura complessa: passato e presente si intrecciano a creare un’opera difficile da catalogare. È una saga familiare, è una satira sul presente sempre più grottesco, è una critica alla commercializzazione di uno dei beni che mai dovrebbero essere messi in vendita: l’acqua. È un affresco a tutto tondo della Toscana di oggi. Un’intera generazione ha perso la guerra, ha smarrito i propri sogni, ha imparato a navigare a vista, ma ha mantenuto intatto il proprio sarcasmo, forse condito con il disincanto di chi è reduce da troppe sconfitte e si ferma a rifiatare. Solo un attimo. Solo per poi ricominciare una nuova battaglia. Solo per fallire di nuovo. Per fallire meglio. Tanto tutto ciò che è già accaduto scorre. È semplicemente acqua passata.

 

«Chissà dove, e quando, si formano i ricordi, chissà qual è il momento in cui il flusso della realtà si cristallizza, prende forma e vita, e diventa ricordo. In genere nevica tra -2 e +2 gradi centigradi, non dev’essere né troppo freddo né troppo caldo. È solo in quella precisa forbice che le molecole in sospensione nelle nuvole diventano cristalli di ghiaccio e si dispongono secondo misteriose geometrie che i matematici chiamano frattali. La stessa cosa secondo me avviene per i ricordi, dovrà pur esistere una forbice entro cui la realtà si cristallizza in ricordo. Non saprei dire quanto lunghe o affilate siano le lame di questa forbice, né quali mani la guidino. So solo che nel tessuto delle nostre vite viene ritagliato il banale, a volte il cruciale, a volte il doloroso, a volte il felice. Senza logica, per farne un assurdo abito da indossare tutta la vita».

Serena Adesso

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 17

[continua da qui]

Rubare le parole al Presidente, si era detto in principio; ma quali reali intenzioni si nascondevano dietro questo slogan da letterati dell’ultim’ora?

La maggior parte degli opinionisti pensò subito a un tentato rapimento, magari condito da rivendicazioni filmate e videointerviste; insomma, a una guerriglia combattuta con le stesse armi del potere mediatico tanto inviso a questi intellettuali del precariato.

Vorrei soffermarmi un poco su questo concetto, prima di passare alle altre ipotesi, poiché non è affatto roba di poco conto. All’epoca c’era chi ancora non accettava come “naturale” questa condizione d’instabilità lavorativa – e molto spesso, a rimorchio, anche sentimentale e psicologica: c’era cioè chi si prefiggeva ancora di ridare una coscienza di classe, o almeno una sua parvenza, a un insieme eterogeneo di persone. Per la prima volta, ad esempio, cinquantenni e ventenni si potevano ritrovare nella stessa poco invidiabile condizione – per chi ancora si ricordava dei posti sicuri nelle aziende e nel pubblico impiego – di dover firmare contratti brevi, anche della durata di poche settimane. A nessuno balenava in testa, all’epoca, che a essere poco “naturale” fosse l’ipotesi di uno stato che come una madre potesse continuare a nutrire a ufo i propri figli, né che l’uguaglianza fosse roba buona solo per i filosofi, poiché l’uomo è avido ed egoista, e di questa stessa risma sceglie i propri governanti.

Ancora legati a un’utopia di stampo tardo ottocentesco, questi scribacchini non intuivano che da tempo il mondo avesse già preso altre strade, e s’incaponivano per questo di riportarlo sulla retta via, a costo di dover ripercorrere all’indietro un cammino già lungo di decenni. Essi non si arrendevano all’ipotesi vincente, e convalidata col sangue nel corso di tutto il Novecento, della selezione naturale, dello spietato darwinismo che si rendeva necessario corollario del capitalismo. Sarebbe bastato loro di rileggere il Leopardi per arrivar più lontano di quanto potessero fare le loro stesse gambe, ma anche volendo, il vizio dell’ideologia avrebbe impedito loro di aprire gli occhi dinanzi alla realtà.

Come non considerare la letteratura roba buona solo per oziosi, quando quest’ultima si compiace a prescindere di difendere gli ultimi e i bighelloni? Quando si batte per un immobilismo sociale che equivarrebbe a un ristagno culturale?

Ecco perché suona strana l’ipotesi del rapimento o dell’attentato; perché una banda di siffatti rammolliti non sarebbe stata in grado né di pianificarla, né tanto meno di eseguirla.

Più verosimile risulterebbe invece la teoria del confronto pubblico col Presidente, attraverso un tentativo, seppur violento, di appropriarsi di una cassa di risonanza tale da acquisire quella visibilità che non avrebbero raggiunto attraverso i loro libri.

Essi ambivano quindi ai microfoni e alle telecamere di uno studio televisivo? Erano, cioè, davvero così sicuri del loro armamentario verbale da cimentarsi in uno scontro – per la verità ben poco democratico, visto il rapporto di uno a cinque – con quello che molti ormai ritengono – e lui stesso concorderebbe con l’interpretazione – lo statista, nonché comunicatore, più importante di tutta la gloriosa storia del nostro stivale?

Simone Ghelli