Storia d’amore a sud di nessun nord

[Riproponiamo il racconto del nostro Gianluca Liguori pubblicato su Prospektiva 51. Inoltre ricordiamo che è uscito, interamente dedicato al tema La Traversata, il numero cinquantadue dove, sotto la direzione editoriale dello “sforbiciatore” del lunedì Fabrizio Gabrielli, troverete i racconti dei precari Gianluca Liguori e Alex Pietrogiacomi, in compagnia, tra gli altri, di alcuni autori che abbiamo avuto il piacere di leggere su questo blog come Domenico CaringellaDario Falconi, Marco Marsullo, Roberto Mandracchia, Gianluca Morozzi, Sacha Naspini, Eduardo Olmi e Stefania Segatori. Buona lettura]

 

Io non lo so se quella cosa di averci un burrone
stomaco capita a tutti, mammina cara.
Però in quel momento mi sembrava di cascarci a me,
dentro quel burrone.

Sacha Naspini, I Cariolanti

 

Per esempio la luna. Quando guarda la luna, Adele scoppia a piangere. Io mica la capisco questa cosa qui. Vedi tu se si può piangere a guardar la luna. Questa cosa della luna io l’ho scoperta tardi, perché prima, fino a quella sera, poteva essere un mese fa, io e Adele ci incontravamo solo di giorno. Ci guardavamo di lontano e lei sorrideva. Sorridevo anche io, poi mi sentivo il fuoco sulla faccia e scappavo via.

È più forte di me, mi commuovo, ha detto quella sera che l’ho trovata sul ponte a guardare la luna e l’ho avvicinata. Io non ho potuto far altro che offrirle una carezza. Lei ha cominciato a raccontarmi tante cose. Parlava, parlava. Io non sono scappato fino a quando lei ha detto che s’era fatto tardi e doveva tornare a casa, se no i suoi non l’avrebbero fatta più uscire a guardar la luna.

Io vorrei pure baciarla, Adele, ma mica lo so come si fa. La mamma mica me l’ha spiegato: la mamma dice che di ragazze ne devo baciare solo una, quella che sposo. Che se no, dice, mi prendo le malattie e non mi sposa nessuna, che già c’abbiamo poco da offrire noi. La mamma dice che ci sono tante ragazze cattive, che devo stare attento. Io ci ho un po’ paura delle ragazze e non parlo mai con loro. Tranne che con Adele, perché con lei è diverso. Adele è lei che mi parla. Io sto zitto. Cioè, non è proprio che sto zitto, mi limito a dire “Sì” “Certo” “Bene”. Mai detto altro. Io le parole che vorrei dire le cerco, me le immagino sempre quando sono a pascolar le pecore, quando mi siedo sulla pietra penso tante parole; ma quando Adele mi parla dico solo “Sì” “Certo” “Bene”. Non le so dire altro.

Questa cosa che non riesco a parlare è proprio strana. Mi si crea una sensazione di vuoto tra lo stomaco e il cuore, come se un topino mi rosicchiasse da dentro. Io questo topino me lo immagino davvero, una volta l’ho pure sognato che mentre dormivo mi entrava in bocca. Forse mica che non era un sogno e che il topo m’è entrato dentro e lì vive. E siccome quando vedo Adele il cuore comincia a battermi forte, il rumore del cuore lo spaventa e comincia a mordermi, povero topino.

Io alla mamma mica posso dirglielo che c’ho il topo di dentro. Io lo so che lei prenderebbe il mattarello della pizza e comincerebbe a menarmi sulle braccia e sulla schiena. Io lo so che va a finire così, e siccome le botte non le voglio, ché già il babbo quando beve troppo vino dice che è colpa mia se non è riuscito a combinare nulla e me le dà di santa ragione. Il babbo beve tutte le sere. Certe volte me la scampo, che me ne vado a dormire prima che lui si ubriaca. Però poi è peggio, perché mi sveglia nel sonno il pianto di mia madre. E capisco che mio padre se l’è presa con lei. Io questo lo so perché una volta ho finto di dormire e poi mi sono affacciato e ho spiato mio padre che dava mia madre con la cinta. Io guardavo e mi faceva male pure a me, era come se picchiasse anche su di me. È da quella volta che ho deciso che in camera ci vado solo quando ho sonno da non star sveglio. Preferisco prendermi le botte io, piuttosto che la mamma. Che poi il babbo lo dice pure lui che io c’ho la pelle di ciuccio. E quando hai la pelle di ciuccio il dolore lo sopporti bene, mica come quei bambini che vanno a scuola e sono tutti belli lindi e puliti, bianchicci, che una sola cinghiata del babbo e sarebbero un lago di sangue. Io lo so che il babbo me le da perché mi vuole bene. Oramai non piango nemmeno più. Mi chiudo come una palla e aspetto che finisca. Tanto finisce sempre. Mica può stare sempre a picchiarmi, dopo un po’ si stanca, gli viene a noia, o peggio comincia a piangere lui e dice che non voleva, si scusa. Io il babbo quando fa così mica lo capisco. Io quando piangono i miei genitori non piango mai. Le lacrime sono dei deboli, diceva la nonna. Io voglio esser forte ché devo proteggere Adele. Adele è debole, e di certo non è una cattiva ragazza. Una cattiva ragazza non più piangere a guardar la luna. Sono sicuro che alla mamma piacerà tanto, Adele. Io però alla mamma non gliela voglio raccontare questa storia della luna, chissà cosa penserebbe, direbbe che Adele non fa per me, che per me ci vuole una donna di campagna che sappia badare alla casa, che mica quando invecchia c’avrà le forze, dice lei. La mamma non capirebbe mai perché Adele piange alla luna. Non lo capisco nemmeno io.

Gianluca Liguori

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I Cariolanti

I Cariolanti (Elliot, 2009)

di Sacha Naspini

Fame. E’ il grugnito di quella scrofa chiamata vita. Un verso che spezza il silenzio dei pensieri, che lascia attoniti i sospiri e che divora ogni azione. Fame. Nell’allargarsi delle vocali c’è qualcosa che aspira, che succhia avido dal midollo stesso dell’esistenza. Un rivoltante sapore di nulla che non permette di lasciarsi andare alla contemplazione degli uomini, all’apprendimento dei loro usi, regole, ragioni. Quel gusto privato di odore rende tutto semplice. Vuoto. Colmare. Riempire.


Vuoto. Colmare. Riempire. Come nella buca nel terreno dove tutto comincia, dove per la prima volta Bastiano si sente raccontare dei Cariolanti, che se non mangi tutto ti vengono a prendere e ti portano via per divorarti.

Nel terreno sente i rumori della vita che si smuove attorno a lui, che viene scossa dal tremito dei corpi che muoiono per la guerra del ’18, un conflitto di cui non sa nulla perché il padre, imboscato, non ne parla. Il padre lo tiene rinchiuso con la moglie in quell’angusta fossa, coperta da tavole e sterpi, dove devono accendere il fuoco al coperto, rischiando il soffocamento, dove quando piove l’acqua e il fango invadono i capelli, li sfibrano, come il fisico che non riesce a sostenere i morsi della fame.

E quando arriva l’inverno e le bestie non si possono cacciare con la solita trappola (una lancia appuntita che sfonda il cranio da un foro sottoterra) cosa si mangia? Come si mangia?

La fame. Fa sporcare le unghie nello sforzo di scavare in cerca di una radice, di un verme, di qualsiasi cosa. La fame tramuta “il qualsiasi cosa” in una parte della coscia della madre. Una piccola parte però, quel tanto che basta, magari solo un pezzettino da dividere poi anche con la povera donna che al risveglio, grazie a un cinghiale ucciso, neanche si assaggia.

Da quel momento tutto cambia perché quello che Bastiano vive è una realtà amplificata. Disumana nell’accezione animalesca. È un uomo che ragiona a quattro zampe, che respira con le orecchie dritte le voci dei paesani nel momento in cui il conflitto termina e finalmente si può costruire una casa per abitarla.

Un crudele scherzo della natura umana che non scende a patti con l’evoluzione. Bastiano è questo. Istinto puro trattenuto a fatica dalle regole sociali, istinto legato alla fame ereditata dal padre, uomo pragmatico, essenziale, nudo nella sua terribile presenza, in tutta la sua terribile e lontana presenza è dentro il figlio a spingere contro le pareti delle sue vene per farlo diventare più grande, più uomo, ma senza spiegargli il perché. Senza dimostrazioni d’affetto per quel tardo che si mena l’uccello dietro le siepi.

Ma il retaggio famelico non è soltanto paterno perché la madre nella sua silenziosa coerenza di conservatrice di vita è amorevolmente glaciale nello spiegare al figlio come funziona il mondo. Una donna marziale che insegna anche come si devono toccare le donne, che sacrifica ogni pudore per la carne della sua carne, che vuole appagare quegli occhi giovani che chiedono un pasto di risposte. Madre che addenta la sopravvivenza da ogni lato.

La storia di Bastiano è un incredibile viaggio nell’Italia delle due guerre, nella campagna, tra boschi e branchi di cani, innamoramenti violenti e incoscienti, fughe dalla realtà, da sé stessi, avvinghiati alla bella penna di Sacha Naspini, che mette insieme il passato e il futuro della nostra letteratura con bravura disarmante. Nello stile del trentatreenne autore toscano si ritrova un Collodi privo della fiaba, un realismo moderno che riesce a gettare il lettore in vicende accadute più di novant’anni fa senza creare distanza temporale, senza renderle anacronistiche o passate.

La vita di Bastiano è un tuffo nel vortice della fame e della disperazione umana. Una disperata consapevolezza di essere nato per traverso e di non riuscire a trovare un pasto che sappia saziare quella bocca interiore spalancata che porta il nome del protagonista. Che trancia i tessuti di ogni illusione sporcandoli del sangue e della merda della storia di un uomo.

In tre righe? Sporco come la faccia di un bambino affamato.

Alex Pietrogiacomi

Qui l’intervista a Sacha Naspini.

Face to Face! – Massimiliano Governi

Massimiliano Governi è nato e vive a Roma. Ha pubblicato per Baldini&Castoldi Il calciatore (1995). Per Einaudi Stile libero L’uomo che brucia (2000) e Parassiti (2005). Un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Gioventù cannibale (1996). Come editor della narrativa italiana ha lavorato alla Fazi editore dal 2004 alla fine del 2007. Da maggio del 2008 è alla Elliot edizioni.

Andiamo a fare quattro chiacchiere con l’editor delle collana Heroes di scrittori italiani della Elliot.

Perchè hai scelto di fare l’editor?

In realtà non l’ho scelto io, ma Sandro Veronesi. Gli ho sempre dato delle gran dritte per i suoi romanzi, che lui mi faceva leggere in anteprima. Finché un giorno mi ha detto: ma perché non fai l’editor? Io ci ho pensato un attimo e poi ho detto: Uhm.

Quali sono state le difficoltà iniziali e quali i punti forti che ti portavi dietro?

La vera difficoltà all’inizio è stata l’esposizione. Dover parlare, incontrare gente. Le riunioni. Ma poi si trattava per lo più di calarsi nei libri. E quello lo sapevo fare bene, meglio degli altri.

Cosa hai pensato quando hai visto il tuo primo libro (scelto) pubblicato?

Ho pensato che c’era la mia firma su quel libro. Avevo fatto un editing d’autore, ricordo.

Cosa dovrebbe non avere un editor?

Se è anche uno scrittore, non dovrebbe avere paura di svuotarsi. Non dovrebbe risparmiarsi e dare idee, anche geniali, senza sentirsi frustrato.

Riprendendo la recente questio tra Lish e Carver: quanto un editor fa lo scrittore? E tu intervieni molto sui tuoi autori?

A volte intervengo molto. Alcuni testi, forse preso da un delirio di onnipotenza, li ho riscritti. Altre volte ho avuto un rispetto e uno strano timore dell’opera, e per paura di rovinarla mi sono limitato a segnalare piccole cose. Un editor non fa uno scrittore. Uno scrittore fa un editor, però. Parleremmo ora di Gordon Lish se non avesse lavorato con Carver e Richard Ford?

Il libro su cui vorresti mettere le mani per provarti?

Uno del passato. Forse Menzogna e sortilegio di Elsa Morante. Pieno di cliché e ripetizioni e storie intrecciate che però non vanno da nessuna parte.

Tu sei anche uno scrittore. Quando sono gli altri a fare l’editing sul tuo lavoro come ti comporti?

Devo dire che sono così severo con me stesso che quando consegno un testo c’è molto poco da fare. Le mie parole sono pietre che ho impiegato anni per poggiare sulla pagina. Credo sia difficile toglierle, o anche solo spostarle.

Consigli a chi vuol farsi pubblicare. Cosa fare e cosa non fare.

Non mandate il libro via email, pieno di indirizzi e numeri di telefono. Lasciate piuttosto il malloppo sulla scrivania dell’editor, senza firma e senza recapiti. Come ha fatto mi pare Celine. Farete impazzire l’editor, che verrà preso dall’ansia di rintracciarvi ancora prima di iniziare a leggerlo.

L’incipit più bello che hai letto?

Dei classici, quello de Lo Straniero di Camus. “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”.

Dei libri che ho pubblicato io “Se non mangio tutto poi arrivano i Cariolanti”. Di Sacha Naspini.

Il finale ideale di questa intervista?

La cosa che ho detto sulle parole dei miei libri che sono come pietre è davvero pretenziosa. Sembravo Alessandro Baricco.

Alex Pietrogiacomi

Face to face! – Sacha Naspini

Con I Cariolanti (Elliot Edizioni), Sacha Naspini prende il lettore e lo trascina nel famelico mondo di Bastiano. Un gorgo emozionale che prende alla gola e trascina giù, fino all’ultima pagina.

Cos’è per te la fame?

Ci sono persone che vivono tutta la vita con un languorino appeso alla gola, altre che se ne vanno in giro abbastanza satolle di tutto e gli va bene così. Poi c’è quella gente che non gli basta mai, e io penso di far parte di questa categoria. Sono schifosamente curioso, mi piace mettere bocca, naso e mani in qualsiasi pertugio che mi capita a tiro. La fame è quella cosa che fa rompere i giocattoli ai bambini, per vedere come sono fatti dentro. È quando ti metti in bocca una cosa per capire che sapore ha, senza pensare al fatto che potrebbe farti male. È quella cosa che non mi fa stare tranquillo mai, e la reputo una grandissima fortuna. Certo, a volte ti porta davanti a degli strapiombi ripidissimi, perché la fame di cose ti può schiaffare in prima fila sull’osso di una questione dal niente. Può distruggere rapporti, anche, e magari a un certo punto schizzi via con la coda tra le gambe. Ma sempre per tornarci dentro un po’ più corazzato. Sempre. Insomma, per me la fame è quella roba che ho piantata in mezzo alle costole e non so come farla stare zitta un minuto. Proprio senza requie, sempre lì a cercare di darle almeno un nome. Fico, no?

Bastiano è nato in quale antro della tua mente? E perché?

Bastiano è nato da lì, da quel coltellino che scava, e scava… Come del resto ogni singola parola che butto sulla carta, credo. I Cariolanti l’ho scritto con la pancia, la mente guidava quelle due scorie di “mestiere” che ho imparato in questi anni. Me ne sono stato a vena aperta per tutto il tempo, a lasciarmi dissanguare felice e contento. La voce che ne è venuta fuori è una cosa davvero poco pensata, che ho scoperchiato in maniera abbastanza brutale. Il perché è semplice: non potevo fare altrimenti.

Ti sei confrontato con un periodo storico molto distante dal nostro e dal tuo, quali sono stati gli ostacoli e le difficoltà?

Se devo essere sincero, non ho avuto nessuna difficoltà. Il periodo storico in cui si svolge la storia compie un arco che va dalla Prima Guerra alla fine degli anni sessanta, decenni che ho incamerato largamente stando ad ascoltare le storie di mia nonna. Mia nonna è una grandissima raccontatrice di storie. Te le fa vedere. Sin da ragazzino ho avuto cucchiaiate e cucchiaiate di quella roba lì, la sera mi ci addormentavo, tanto che in qualche modo adesso lo sento un periodo mio. La grazia con cui mia nonna tutt’oggi mette un piatto di pasta e fagioli in tavola, mi lascia ancora senza fiato. Parte dalle cose “piccole”, e questo approccio, negli anni, un po’ si è sicuramente radicato anche in me. È difficile che mi disperi per qualcosa di inutile, come per esempio una multa; tendo sempre a ridimensionare l’importanza delle cose secondo un metro che oggi è certamente antiquato, ma a me va bene così. Gli anni delle due guerre, della ricostruzione d’Italia, è un periodo storico che mi ha sempre affascinato moltissimo, soprattutto per gli obblighi – catastrofici – che hanno dovuto affrontare i nostri nonni e bisnonni, che all’epoca avevano molto meno dei miei trentatre anni. La loro vita è capitata al centro di un turbine di eventi pazzeschi, e la loro identità si è costruita lì. Guardata da dei noiosissimi anni ’80, da ragazzino mi faceva quasi rabbia, questa cosa. Quando avevo vent’anni non andava meglio, mi chiedevo: e io che faccio? Certo, non è che avrei preferito imbarcarmi per la campagna di Grecia, ma anche tutto quel vuoto… Tornando alla domanda, gli anni in cui si sviluppa la storia sono anni che ho – non mi vergogno a dirlo – anche un po’ rimpianto. Ho letto moltissimo, visto un casino di film, documentari. Al momento della stesura del libro mi sono semplicemente già trovato in mano le cornici che mi servivano; io le ho prese e ci ho disegnato dentro una cosa.

Il tuo è un romanzo dicotomico che gioca tra un lessico quasi infantile e collodiano e una violenza vitale incontrastata. Come hai coniugato questi due lati?

Lo dicevo sopra: alla fine è una voce spontanea, pensata neanche da lontano. Per me il registro narrativo, l’intonazione con cui si affronta una storia, ha un’importanza enorme. Per certi versi anche più della trama. La voce. Quella di Bastiano è uscita da sé.

Chi sono il padre e la madre per te?

Questa è una domanda tremenda. Il padre e la madre sono due figure orribilmente importanti, che ti possono in parte mangiare la vita, nel bene e nel male, dipende da quale stella vieni giù. I genitori ti possono dare tanto, ma anche togliere tanto. Conosco persone letteralmente schiacciate da padri e madri semplicemente impreparati. Impreparati alla vita in generale, soprattutto, e che rovesciano tutta la loro incapacità sui figli, annientandoli. Il gioco a stabilire le colpe non porta mai a niente. Ma i cicli di rancore che possono scatenarsi sono terrificanti, e originano mostri di grandezza inaudita. Per me, un genitore, dovrebbe essere qualcuno di vagamente risolto, o che nella vita si è posto seriamente delle domande importanti. Perché poi sono le domande a stabilire il calibro di una persona, non tanto le risposte. Le domande che ti poni sono un indizio di quel che potresti riuscire a dare in termini umani, soprattutto a un figlio.

Credi che l’istinto primordiale sia ereditario?

Ho sempre pensato che tutte le persone hanno una loro base ancestrale pura, che poi è quella da cui si dovrebbe sviluppare un’esistenza almeno un pochino in sintonia con le proprie qualità. Il problema è che appena ti becchi quel paio di scapaccioni e ti metti a frignare, cominciano a depositarti roba sulla testa. Un dio, un’educazione sociale, la differenza dei sessi eccetera. È paradossale, ma forse l’urgenza silenziosa di ogni uomo è come quell’uggetta di cui si parlava prima, che ti rosicchia dal fondo, e che magari punta dritta allo smantellare tutto il sudiciume che ti ammucchiano sul cranio dopo il tuo primo strillo. Forse proseguire con gli anni non è costruire, ma scavare. Forse non è andare avanti, ma tornare indietro, alla ricerca di quella specie di strada di casa che avevi quando eri a zero. Ecco, probabilmente a zero c’è l’istinto primordiale. Peccato che debba subito andare perso nel fondo del fondo del fondo della tua botola segreta al primo gne. Allora ci si deve accontentare di sognarlo, ogni tanto.

Ci sono inconsapevoli sensi di colpa che animano Bastiano. Ma la colpa gli appartiene?

Ha la colpa di essere quello che è, un po’ come tutti. Ma il suo imprinting è qualcosa di veramente trasversale, lo spara in mezzo alla gente come una pallottola impazzita, schizzata via da una canna tutta storta, senza una traiettoria definita e prevedibile.

Un uomo dei boschi. Qual è il tuo rapporto con la natura?

Bellissimo, ovviamente. Sono uno che si sporca con la terra, che pesta le pozze. Al mare non porto asciugamani, mi rotolo nella sabbia. Ho un rapporto carnale con tutto, anche con gli animali, fino a quelli più piccoli e schifosi che nessuno vuole toccare, compresi gli uomini. Sono uno che ti abbraccia e ti bacia, che ti parla a un centimetro dal naso. È una cosa che non tutti amano, ma a me piace stuzzicare questi scudi scemi che ha la gente. Perché per me sono scudi scemi. Sulle spiagge ci sono persone che vanno in crisi di panico se due granelli di sabbia invadono il loro stoino. Di solito sono tipi che parlano di Sharm e se li sposti un secondino dal cemento e dalla televisione, chiamano mamma.

A chi hai regalato di più di te nel romanzo?

Certamente a Bastiano, per tutto. Diciamo che ho portato all’ennesima potenza tutte le mie confusioni private, le mie smanie e il senso di rivalsa che provo e con il quale convivo, sopportandolo. Ho preso quel motore lì, l’ho truccato e poi l’ho sparato a tremila. Dopo mi sono sentito mooolto meglio.

Hai lavorato con Massimiliano Governi (l’editor per la narrativa italiana di Elliot e curatore della collana Heroes), che tipo di confronto c’è stato? E come ne sei uscito?

Ne sono uscito con un bel bottino che mi sono portato a casa e che mi rigiro tra le mani tutti giorni. Sul testo – a parte un capitolo che ho inserito successivamente alla presentazione del libro – non ci sono stati molti interventi. Massimiliano Governi ha individuato con minuzia e grande rispetto tutte le rugosità del testo fresco di prima stesura. Per me è stato stupefacente vedere che proprio lui – un anno fa neanche immaginavo lontanamente che un giorno ci avrei lavorato insieme – si entusiasmava e aveva a cuore la perfetta riuscita del libro, in tutto il suo potenziale. Un’esperienza clamorosa, che conto di ripetere al più presto.

Cosa ne sarà ora di Bastiano? Dove si accamperà?

Con un po’ di fortuna è ancora lì che aspetta ciccia per l’inverno, o una bimba bella da tenere là sotto per un po’ come sposa. Attenzione, in questi giorni, mentre andate a funghi.

Alex Pietrogiacomi