Atomic Kiss 3/3

Terza e ultima parte del prologo di Atomic Kiss, del giovane Iacopo Barison.
Qui trovate la prima parte.
Qui la seconda.
Buona lettura. 

Mi sveglio rannicchiato sul futon mentre i raggi solari segmentano il muro in diversi quadri geometrici. Controllo il cellulare ma è spento, quindi sbrigo faccende come la doccia e la colazione proteica e poi torno dal cellulare per controllare eventuali messaggi. Il mio agente, dopo la buca dell’altro giorno, scrive di volermi vedere e di avere novità importanti. Dice di chiamarlo al più presto per stabilire il luogo e l’ora dell’appuntamento. Cerco il telecomando per aprire le tende. La luce inonda gran parte della casa, composta principalmente da una camera da letto e un ampio open space arredato secondo i canoni delle riviste. L’open space include una cucina estranea dove non consumo pasti, tranne la colazione. Di solito mangio fuori, a pranzi e cene di lavoro in cui discutiamo di arte e previsioni meteorologiche e attori e attrici dipendenti dagli ansiolitici.
Torno in camera da letto e prendo una giacca e dei pantaloni puliti. L’idea di assumere una donna delle pulizie mi intriga, così mi riprometto di informarmi e magari chiedere a qualche amico, oppure di leggere le inserzioni sui quotidiani ed evidenziare le migliori eccetera. Valuterò il modo più semplice per sottrarmi dalle responsabilità domestiche.
Una volta vestito, accendo la televisione e seguo alcuni minuti del notiziario. Parlano di una proposta di legge che liberalizzerà ogni forma di pubblicità. Mi perdo nei pro e nei contro elencati da un uomo in cravatta nera, occhiali a metà strada fra il naso e gli occhi ed espressione corrucciata tipica di questa fase storica.
Lo sguardo mi cade sul manoscritto che lei, durante il diverbio notturno, ha fatto a brandelli in preda a una crisi isterica. C’era molto di cui parlare eppure non parlavamo. Fissavamo il vuoto e ogni tanto lei tirava su col naso, asciugava una lacrima e si commiserava aspettando il taxi. Respiravamo con discrezione. Poi, quando è arrivato il taxi, ha preso il suo manoscritto intendendo che non l’avrei mai letto e si è avvicinata alla porta e l’atmosfera era quella di una resa dei conti. Si è fermata sull’uscio. Cercava modi per vendicarsi ma ha subito realizzato di non averne, dunque ha singhiozzato e distrutto il suo romanzo di formazione, facendo piovere lettere e spazi bianchi sul pavimento di ardesia.
L’appartamento si affaccia sul lato interno di un hotel di lusso. Finestre con doppi vetri incorniciano clienti in pigiama e bagni in ceramica e televisori al plasma. Una donna di mezz’età fuma in silenzio ispezionando il vicolo. Per un attimo incrociamo gli sguardi – lei dall’hotel, io dall’appartamento – per poi distoglierli e concentrarci altrove.
Controllo l’ora. L’ultima lezione inizierà alle 09:00. Ho ancora un po’ di tempo, quindi leggo le nuove email e rispondo a un ragazzo che vorrebbe farmi leggere i suoi lavori. Gli scrivo dove inviarli (una casella di posta che svuoto una volta al mese) e bado a mantenere un profilo basso e informale, preoccupandomi di risultare arguto. Rispondo a mio padre e gli assicuro che telefonerò al più presto. Leggo squallide proposte di lavoro e critiche anonime e infine spengo tutto ed esco di casa.
Nel tragitto verso la metro, mi pento di non aver preso i guanti ed evito persone che camminano svelte in direzione di un autobus o di un treno in partenza. Mi fermo da Dunkin’ Donuts e prendo un cappuccino e una ciambella glassata e la cassiera è molto sorridente. Decido di telefonare al mio agente. Una voce preregistrata mi informa che il numero non è più attivo. Non capisco, allora riprovo a chiamare ma il risultato è lo stesso. Scendendo le scale della metro, qualcuno mi passa un giornale gratuito.
In piedi sulla banchina, penso ai quattro mesi di relazione clandestina e la modella di una pubblicità di cosmetici mi sorride nelle due dimensioni di un poster gigante.

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Atomic Kiss 2/3

Qui di seguito la seconda parte del prologo di Atomic Kiss, del giovane Iacopo Barison.
Qui trovate, accompagnata da due righe introduttive, la prima parte. La terza e ultima parte venerdì 18 ottobre.
Buona lettura.

Finita la cena, mi alzo e vado a pagare il conto. Prendendo la carta di credito, realizzo di non aver mai accennato al problema. Usciamo dal ristorante e lei si ferma sul marciapiede antistante. La guardo fumare mentre lei guarda il cielo e la pioggia si accumula in fiumi e laghi in miniatura e un cartellone pubblicitario immola una coppia giovane in cerca di emozioni stabili – sono sdraiati in spiaggia e indicano la luna piena e una scritta dice VACANZE DA SOGNO A PREZZI IMBATTIBILI. La guardo avvolgersi nel cappotto e sparire fra cuciture e lana pregiata. La sigaretta si accorcia e finisce in un rigagnolo d’acqua. Lei soppesa il mio stato d’animo con la solita espressione turbata, rimandante a problemi più grandi e astratti, fuori portata perfino per noi.
“Vuoi prenderti una pausa?”, mi chiede.
Sussulto e per un attimo immagino che stia parlando di me e di lei, della nostra relazione.
“Be’”.
“Sei stanco? Vuoi smettere di lavorare?”
“No, non ho detto questo”.
“Nessuno smette di lavorare a trentadue anni. Hai troppo talento per…”
Lei cerca con gli occhi la mia automobile ed esprime in silenzio il desiderio di andarsene. Prendo le chiavi e faccio scattare l’apertura a distanza e un suono breve e impersonale si propaga nel parcheggio all’aperto.
“Sei venuta in autobus?” Leggi il resto dell’articolo

Atomic Kiss 1/3

Oggi vi proponiamo la prima di tre parti del prologo di Atomic Kiss, di cui il giovane autore Iacopo Barison ci ha detto: “AK non so cosa sarà né quando finirà, so solo che si tratta di un mio romanzo”.
La prossima uscita editoriale di Barison è prevista per maggio 2014, quando sarà pubblicato, per la nuova collana di narrativa di Tunué diretta dal nostro amico e collaboratore Vanni Santoni, il romanzo dal titolo di lavorazione Stalin.
Intanto, dandovi appuntamento con la seconda parte a venerdì prossimo 11 ottobre, vi auguriamo una buona lettura. 

Aspetto in silenzio al tavolo, guardando la strada oppure controllando ossessivamente l’ora. Ammiro i movimenti dei camerieri, la loro coscienza delle traiettorie e delle ordinazioni da prendere. Il caposala resta immobile a fissare il vuoto. Rumori di posate d’argento. Un’automobile parcheggia fuori dal ristorante, ma non è la sua, e il cono luminoso dei fari si specchia nella vetrata su cui si affacciano alcuni tavoli.
Ripercorro brevemente la mia giornata. Poi ripenso agli ultimi mesi, alla relazione clandestina che troncherò stasera e al modo in cui lei mi guarderà quando, fra il primo e il secondo piatto, esordirò dicendole che c’è un problema. Fuori, un connubio di pioggia e smog riempie gli spazi vuoti.
Le darò il tempo di ambientarsi, di sedersi al tavolo e guardarmi e dirmi che ho una brutta cera. Mi chiederà quante ore ho dormito. Mi chiederà quando ho dormito, se di notte o di pomeriggio. Vorrà sapere le ultime novità. Fingerà di ascoltarle, quindi archivierà i convenevoli e si dilungherà a parlare del suo romanzo, delle recenti modifiche e di fulgide intuizioni avute quando meno se l’aspettava (sotto la doccia, in coda da Starbucks, durante una corsa al parco) finché non Leggi il resto dell’articolo

Primo giorno

di Iacopo Barison

L’ultima parola che ha detto è stata “Casablanca”, poi si è alzato da tavola senza finire la cena ed è andato in camera sua e il giorno dopo l’abbiamo trovato morto ma apparentemente felice, forse è morto sorridendo, e quando mia madre è entrata e ha capito la situazione diciamo che si è messa a piangere, anche se non avevo mai visto nessuno piangere in quel modo, e io non guardavo il corpo di mio fratello né la coperta su cui era disteso ma osservavo il pavimento e
“Siamo arrivati”, dice una ragazza bionda con cui prima ho parlato di cinema. Anche lei sta andando al festival della città di S. e mi informa che scenderà adesso, a questa fermata, e io le rispondo che non è ancora la fermata giusta perché la città di S. inizierà a intravedersi soltanto fra qualche chilometro e lei mi dice che Leggi il resto dell’articolo

Biglietto, prego

Tre racconti di Gianluca Liguori, Simone Ghelli e Luca Piccolino all’interno dell’antologia Biglietto, prego, a cura di Alex Pietrogiacomi, con introduzione di Filippo Tuena, postfazione di John Vignola e fotografie di Gianluca Giannone, dal 5 luglio in tutte le librerie per i tipi di Zero91.

21 scrittori italiani, sempre in bilico su una strada incapace di essere definita per colpa di un quotidiano pieno di trappole e sorprese, raccontano la vita dei pendolari, dei precari, dei viaggiatori forzati, attraverso i propri occhi e quelli di un fotografo, creando percorsi alternativi, tracciati da chi non vuole nascondersi tra i binari imposti dall’esigenza né tantomeno arrendersi a una società menefreghista.
Racconti brevi, capaci di essere compagni di percorso per una o più fermate oppure per tutto il tragitto desiderato, che hanno per protagonisti i pensieri, i sogni e i volti di chi abitualmente timbra il suo biglietto per la propria esistenza non rassegnandosi all’idea di essere uno sconosciuto da incontrare puntualmente a una fermata.
Un viaggio solitario o in gruppo, che comincia voltando pagina, da uno scorcio di irrealtà che ogni giorno chiamiamo vita.
Tra gli autori, oltre ai tre “Scrittori precari”, tante firme che hanno animato il nostro blog in tutti questi anni: Gianluca Liguori, Simone Ghelli, Luca Piccolino, Alex Pietrogiacomi, Fabrizio Gabrielli, Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Roberto Mandracchia, Iacopo Barison, Alessandro Hellmann, Gianfranco Franchi, Raffaella R. Ferré, Matteo Trevisani, Alessandro Raveggi, Lorenza Fruci, Matteo Bortolotti e Micol Beltramini, Francesca Bellino, Marilena Renda, Adriano Angelini, Alfredo Ronci e Ernest LeBeau.

Qui di seguito il booktrailer: Leggi il resto dell’articolo

SINFONIA N. 4 IN MI MINORE *

Allegro non troppo

I buyer londinesi tardano ad arrivare e fuori vedo la nebbia, dappertutto, e la città sembra Londra ma non è Londra – è qualcos’altro – e le luci di un Burger King si confondono in mezzo a questa squallida alternativa a Londra, UK, e tutto si manifesta nascosto e un cinese mangia un Whopper con espressione estatica e potrebbe essere una vetrina vivente perché la gente passa e lo guarda e poi continua a camminare, indifferente, distratta dalle porte automatiche del Virgin Store. Leggi il resto dell’articolo

Il nuovo Collettivomensa: CAPEZZONE

Sorry but Juliet is dead di Vanni Santoni

“Sorry but Juliet is dead. Please stop that.”

Lo sapevo che a frequentare i siti di appuntamenti non se ne cavava nulla di buono. Ore a fare test, ore a spulciare profili, finalmente trovo una che mi piace – e anche l’affinità, non vi dico: uno spettacolo, a sentir loro – le mando i messaggi privati e non mi risponde. Ora i miei messaggi privati sono carini, divertenti, insomma, non è che copio-incollo una cazzata e la invio a tutte, scrivo solo a quelle che mi piacciono, faccio dei riferimenti alle cose che hanno scritto nel loro profilo, lancio degli spunti ariosi, evoco, intrattengo, faccio pensare, mi impegno insomma, è normale che una mi risponda. Lei invece niente. Io allora – Internet, si sa, ci ha resi tutti così – ne ricostruisco i dati essenziali, le becco il MySpace – bello trovarlo c’erano tipo quattro foto nuove che non aveva messo sull’OkCupid – insomma lo trovo e subito le scrivo, e lei non risponde, le lascio allora un messaggio pubblico, un commento: niente. Ne lascio un altro, un altro ancora, e poi mi arriva quel commento là, da una sua amica. Una ragazza che mi piaceva, ed era morta.

Mi era capitata una cosa simile a inizio anno, a dire la verità: c’era questa ventenne androgina, che prendeva a volte il treno quando lo prendevo io. Erano ore da gente che si sveglia tardi e alla stazione eravamo spesso soli. La prima volta ci notammo perché avevamo le stesse scarpe, Osiris da skate, nere, a panettone. Di solito quando arrivavo al binario lei c’era già, allora ci guardavamo. A volte anche solo a cinque o sei metri l’uno dall’altra, se avevamo un libro da leggere. Certi giorni sembrava un ragazzo ed era molto bella, gli occhi e le ciglia affilate. Parlammo una volta sola, il tempo di sapere che si chiamava Elena. Poi un giorno, sulla Nazione, proprio al bar della stazione, vidi la sua faccia (sembrava ritagliata da un album scolastico, di certo non l’avevo mai vista coi capelli così lunghi): l’occhiello, sotto al titolo Ketamina: dose mortale per una valdarnese, diceva Aveva vissuto a Bologna, frequentava un giro di “punk-bestia”. Scritto così. A ripensarci oggi, vive nella mia memoria come uno di quei primissimi, timidi amori che si hanno da bambini.   Leggi il resto dell’articolo

Appunti per un racconto di (max.) cinquemila battute

Mi hanno dato cinquemila battute per scrivere un racconto e quindi ho cinquemila battute – massimo! – per parlare di una donna che si chiama Ludovica, trentadue anni, scrittrice e giornalista di Marie Claire – “una rivista che parla di tutto, anche di te”, come recita lo slogan dell’imponente campagna pubblicitaria, quella campagna che ha puntato sulla donna media e sulla precaria sicurezza interiore della donna media, una donna che Aristotele definirebbe “astratta” – e questa Ludovica, in effetti, oltre che essere astratta, oltre che essere giornalista, dev’essere una scrittrice che non si prende (mai) troppo sul serio, perché il giornalismo è un affare impegnativo, dice, ma la scrittura, no, così ha scritto un libro la cui stesura è durata un mese – ventisette giorni, come testimoniano le croci sul calendario della Cassa di Risparmio SpA – e il suddetto libro (357 pag., rilegato) è riuscito ad aggiudicarsi un importante premio nazionale – tra l’altro, è in corsa per vincerne degli altri: ennesimi riconoscimenti che fanno curriculum, altre premiazioni dove guardi la prima fila e ti chiedi chi siano, questi vecchi col catetere che votano e, intanto, si proteggono dal sole romano con cappelli che aderiscono a vecchie mode recessive – ma il premio più importante, appunto, Ludovica l’ha già vinto e Rosalba, la madre cinquantacinquenne, è stata contentissima, tanto che ha organizzato una festa a casa sua (sua, della madre) e ha invitato tutte le sue amiche (sue, della madre) per pubblicizzare la notizia e prendersi quei meriti cromosomici (fonte d’ispirazione: la tara ereditaria di Zola) che son riusciti a impressionare le amiche e le amiche delle amiche, rendendole gelose e un poco ciniche, caustiche al punto da sottolineare, con tono polemico, che alla festa della figlia mancava qualcuno d’importante, ossia la figlia, e la madre, allora, non sapendo quale scusa inventare, aveva elaborato una tragedia in due atti che, nel primo atto, introduceva Ludovica e un treno Eurostar Frecciarossa, e poi, nel secondo atto, si focalizzava sull’educata rabbia di Ludovica e sulla rottura del treno, che giaceva immobile nel mezzo della campagna senese – “Siena è una città stupenda, piena di monumenti”, aveva detto alle amiche – e questa divagazione le aveva permesso di narrare una considerevole porzione del suo viaggio di nozze, aneddoti matrimoniali che, grazie a una certa abilità espositiva, erano riusciti a oscurare il precedente filone narrativo, facendolo scivolare nell’oblio (possibile domanda: la tara ereditaria esiste davvero?) e insomma, durante la festa, Ludovica era uscita con un letterato che aveva apprezzato il suo libro (possibile sviluppo: definire le caratteristiche di un letterato) e adesso, a distanza di qualche giorno, il letterato le scrive lunghe e-mail in cui profetizza il ruolo che Ludovica [correzione: “l’incredibile libro di Ludovica”] potrebbe ritagliarsi nel panorama letterario italiano, e ognuna di queste e-mail si chiude con un saluto d’amor cortese che potrebbe fare colpo, chissà, magari il letterato riuscirà a sedurre Ludovica, portandosela a letto, sfoderando certi addominali da modello-d’intimo-maschile, o forse no, chissà, comunque, dato che i soli appunti stanno per raggiungere le cinquemila battute, son costretto a fermarmi qui.

Iacopo Barison