Quattro Visioni

di Francesco Quaranta

A metà del mio percorso mortale, come malattia, l’intolleranza per il mondo crebbe in me. La febbre inquieta calò una coltre di turbolento, formicolante fradiciume e mi gettò nel ventre del delirio. Quando questo si squarciò, partorì le visioni.

Nella prima ero solo sulla sconfinata Terra sovraffollata di uomini che brancolavano, ottenebrati e prudenti, in una tremenda nebbia lattea. Loro unica luce e direzione erano gli Idoli: costruzioni di organicità eterea commista a solidità cristallina, articolati palazzi di cerimoniali e imperativi. Protrudevano da loro cordoni fibrosi e guizzanti, s’affondavano nella nuca di ogni uomo a concedere loro un conforto sintetico. Così questi erravano, calpestandosi l’un l’altro nel timore di smarrire il Bene ed i beni. Ma proprio come tutti gli edifici, gli Idoli avevano delle pareti, dei limiti.
Senza indugio scelsi di spezzare questa gabbia: afferrai un paio di tentacoli che penetravano le spine di uomini maturi, strattonai e li liberai. Urlarono, sperduti, spaventati e senza guida, trasmutarono in infanti dalle proporzioni gigantesche che strillavano la loro disperazione raggomitolati a terra, sbavanti.
La visione non era tale, compresi, sussisteva la necessità di agire. Posi perciò le tremanti mani dei due lattanti l’una nell’altra. Il pianto cessò ed essi riacquistarono l’aspetto adulto, illuminati dalla certezza nata con quella stretta. A cascata, i due uomini liberi strapparono i vincoli di ogni Idolo dai loro simili per sostituirli con un legame paritario, mano per mano. La nebbia si diradò rapida e la vista fu invasa ovunque da una sublime luce e dalla natura rigogliosa; gli Idoli crollarono con nulla più che gran rumore per lasciare soltanto affascinanti leggende.
Gli umani, monolitica catena, si strinsero ancora, maggiormente consci e fiduciosi della loro unione. l’Umanità, messe radici nel terreno vivo e fertile. Crebbe fino alle nuvole come titanica simbiosi.

La seconda mi trovò solitario di fronte all’immenso Albero dell’Umanità interconnessa, immensa, maestosa e sicura. Ognuno aveva un Leggi il resto dell’articolo

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1° Maggio 2011

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

Se in effigie tramuti il corpo, e rendi
Carta l’effigie, plastica e cotone,
Io piango i tempi in cui si usava l’oro
Per forgiare vitelli, come grido,
oggi, all’idolo usato per frodare
la festa di quei corpi martoriati
dalle cave ombre di antichi tiranni,
larve per prime schiave
del loro stesso bramare.

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

È nel calice il sangue di settembre
Che su croce di piombo benedì
Con voce di metallo la sua gente?
È cileno quel corpo che spartisci?
Quali agnelli tu invochi perché accolgano
I peccati del mondo? Se tu màrtiri
Cerchi, sotto le zolle degli stadi
Irrigati dal rosso ti rivolgi?
O al silenzio distrutto dal supplizio
Che i boia inflissero alle sante carni,
carni di figli, che in piazza, le madri,
lucenti di grazia, nere di lutto,
Chiedono in nome del corpo e del calice?
Non vederli risorti è loro colpa?

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

Mentre le masse, raccolte per l’idolo,
Vestono i colli gravati da macine
D’asino, mentre nel tempio ai mercanti
Lo spazio si prepara,
Io testimonio con sommo timore:
Io testimonio per quanto di Cesare
Viene accettato o preso, e a Dio offerto,
Io testimonio la stirpe di Giuda,
Per la quale, domenica,
Il Salvatore verrà bestemmiato.

A chi appartiene il sangue dentro il calice
Che innalzi? E il corpo che spezzi e spartisci?

È di Augusto quel sangue,
È di Augusto quel corpo,
È del Giuda che un popolo tradì
Senza gettare quei trenta denari,
Senza conoscere albero e vergogna.
E nel tempo in cui l’idolo fu carne,
Anima e spirito, carne al servizio
Per sedere alla destra del Signore,
Quella carne, di bianco rivestita,
Il tuo gregge con scandalo mirò
Mentre stava alla destra,
Alla destra di Giuda, le cui nozze
Benedì tramutando in vino il sangue;
Quando il gregge mozzarsi preferì
Gli occhi, i piedi, e le mani,
Perché quell’uomo erede di quel Pietro,
Chiese che Giuda non fosse impiccato,
Lui disse al gregge di rendere a Dio
Grazia e perdono che primo non chiese.

Per chi innalzi quel sangue dentro il calice?
Per chi spezzi quel corpo che spartisci?

E queste mie, parole senza scandalo,
Saranno spreco e compagne di vento
Perché in ginocchio, pregando, a te affido
Il mio petroso pianto di straniero.
Io testimonio con sommo timore
Ed è per questo che infine ti chiedo:
In quale vigna, da umile, lavori?

Matteo Pascoletti