Intervista multipla agli “scrittori precari” /3

Tentativo parzialmente scorretto di seminare discordia (parte terza – qui la seconda)

di Carlo Sperduti

Carlo Sperduti: Qual è, tra quelle che hai scritto, la cosa di cui più ti vergogni, e perché? Ma soprattutto qual è, tra le cose che hanno scritto gli altri membri di Scrittori precari, quella di cui più l’autore si dovrebbe vergognare, e perché?

Andrea Coffami: Di cose vergognose che ho scritto ce ne sono parecchie, tipo una poesia d’amore che io proprio non ci riesco a scriverle e soprattutto a recitarle. Mentre la leggevo dicevo a me stesso “ma che cazzo è ’sta robba!”. Ma il problema della vergogna arriva sempre (e dico sempre) ogni volta che magari rivedo un mio video dove leggo. Sai la vergogna riflessa? Vedi uno che fa una cosa che ti fa vergognare. In quel caso è doppia vergogna riflessa, perché poi capisco che il tizio sono io. Cazzo! La cosa che più mi ha fatto vergognare degli altri membri è stata scritta da Gianluca Liguori, un racconto con dei pesciolini volanti e il circo in mezzo. Una roba imbarazzante che sto cercando di rimuovere dal mio cervello. Era un racconto così tenero che si poteva spezzare con il grissino.

Simone Ghelli: Se intendiamo scritte (e non pubblicate), direi che sono tante le cose di cui mi vergogno; difatti il mio computer è pieno zeppo di racconti o aborti di romanzi che conosco solo io. Quanto agli altri, direi che anche loro non scherzano… in fondo è giusto così: l’orrido è la strada più adatta per scalare le vette del sublime. Certi racconti di Zabaglio, ad esempio, ne sono una dimostrazione perfetta…

Gianluca Liguori: Vergogna? Bah, non credo uno debba vergognarsi. Si scrivono un sacco di puttanate. Tutti. Fa parte dell’esercizio. In genere, una volta scritte, le mie cose non mi piacciono più. Ma è sentimento abbastanza diffuso. Occorre tempo, lasciar decantare, pulire, limare, sistemare, eventualmente riscrivere… è un lavoro che ha bisogno di molta pazienza, la scrittura. Più passa il tempo e più mi convinco che i romanzi non si scrivano quando si scrivono, ma quando si correggono.

Quanto agli scritti degli altri precari, il testo più ignobile è stato sicuramente quello sulla fantasia nel calcio per Il mondiale dei palloni gonfiati, la rubrica sportiva del nostro blog in occasione dello scorso mondiale. L’aveva scritto Luca, ma non lo abbiamo pubblicato.

Luca Piccolino: Provo imbarazzo per dei miei scritti molto antichi, ma non vergogna. Nel corso degli anni, per l’impegno che ci ho messo, l’applicazione, la ricerca di evoluzione ritengo di non meritare di vergognarmi, anche se ci sono un bel po’ di cose che ho rinnegato. Anche se è uno dei miei pezzi preferiti, credo che Zabaglio dovrebbe vergognarsi del racconto Paolo il Caldo. Chi non lo ha mai letto o sentito lo faccia al più presto, lo trovate sul blog.

Alex Pietrogiacomi: Credo che sia fisiologico e abbastanza naturale per tutti, ma c’è sempre qualcosa che rileggi e ti vergogni come un cane di aver scritto. Per quel che mi riguarda è una vecchia canzone: ’na roba terribile e melensa. Per me si dovrebbe vergognare il Ghelli, ma non per quello che scrive e perché è “roscio”, ma per le barzellette che ogni tanto propina a microfono acceso durante i reading. Comunque sappi che ti vergognerai quando rileggerai queste tue domande, e io ne avrò sempre una copia…

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ZUCCHERO

Metà del mondo se lo è dimenticato, ma la verità è che noi e gli insetti siamo legati in un modo indissolubile. Soprattutto per quanto riguarda il lato alimentare. Per migliaia di anni li abbiamo mangiati, e non solo. Non ci siamo fermati alla superficialità dell’ingoio, li abbiamo anche trovati gustosi, nutrienti, in qualche modo sani, dolci. L’uomo non sapeva ancora parlare se non a gesti e a grugniti, si accoppiava senza provare nessun tipo di piacere, il concetto stesso di piacere era una cosa nebbiosa e fluida che arrancava tra un fuoco che scoppietta all’improvviso e una stagione buona, piena di sole, che già avevamo ricacciato il carattere schizzinoso dell’uomo di oggi dietro all’inevitabilità della sopravvivenza.

Io ci faccio caso perché l’ho imparato ma è provato e riprovato che la carne che oggi troviamo più dolce, più succulenta, proviene da quegli animali che si cibano di insetti. Lo ripeto perché lo teniate a mente e non ve lo dimentichiate: l’insetto è dolce.

***

Le zucchine sono ancora crude. E dire che sono sul fuoco da un quarto d’ora e secondo me il fatto che debbano perdere acqua assomiglia a una leggenda inventata da una casalinga annoiata in cerca di successi culinari. Le guardo rosolare insieme alla cipolla che ormai è diventata completamente nera, ma mi continuo a ripetere “ben colorata” semplicemente per il fatto che quello che sto cucinando lo devo mangiare io e nessun altro.

Può sembrare stupido ma ho iniziato a cucinare dopo aver letto qualche libro di Murakami Haruki. A volte le trame non mi convincevano e ho sempre avuto qualcosa da ridire sulla rigidità di certi passaggi o sulla testardaggine dei protagonisti, ma una cosa bisogna dirla: quando i personaggi dei suoi libri si mettono a cucinare, l’ordine giapponese del cibo, pietanze con nomi strani che diventano in un colpo solo facili da preparare e anche buone, il silenzio di una piccola cucina affacciata su una luminosa strada di Tokyo, sono raccontate in un modo che riesce a fare ordine anche dentro di me, teorizzano le ansie, le decodificano, le categorizzano. Quando Murakami cucina mi mette dentro una tranquillità e una serenità difficile da descrivere.

Farlo col cibo italiano è simile, ma meno soddisfacente: nulla di nuovo nei sapori (il massimo che puoi fare è tendere al gusto del pranzo che ti faceva tua nonna, non di più), ed è per questo che al ristorante giapponese sotto casa prendi uguale tutte le volte la mini insalata di alghe che costa 3 euro e ti fa schifo solo per avere in bocca un sapore nuovo, che non riesci a decifrare.

L’ultima volta che sono stato invitato a cena sono stato anche costretto a cucinare. Lo accetto di buon grado, anche se so benissimo che non è perché sia più bravo degli altri (il mio piatto forte è e rimarrà per sempre gli spaghetti aglio olio e peperoncino), è che credono di farmi contento facendomi sentire in qualche modo più attento di loro a certe cose. Ho appoggiato le due bottiglie di vino economico ma gradevole che ho comprato al supermercato giusto cinque minuti prima che chiudesse sopra il tavolo di formica di casa di Giulia e sono andato a lavarmi le mani. Fare la spesa la sera tardi, di fretta, mi piace, mi fa sentire metropolitano, pieno di impegni inderogabili, anche se il più delle volte il pomeriggio ho bighellonato come un deficiente tra internet, libri di cucina e il cellulare.

Mi sono messo a cucinare alla fine, e come al solito è andato tutto liscio.

Mentre alla fine mangiavano tutti di gusto, ho tirato fuori la storia degli insetti.

Marco, Giulia e Claudia mi hanno guardato storto, Filippo ha fatto finta di non sentire e solo Stefano, mi pare, si è mostrato leggermente interessato alla storia.

Ora, parliamo chiaramente. Gli insetti hanno un sapore dolce perché l’ho sentito dire e perché ci voglio credere ma comunque non ne assaggerei mai uno di mia spontanea volontà.

***

Domenica mattina il telefono ha squillato che ero ancora a letto. Di solito non mi disturba, non sono uno che si lascia svegliare di soprassalto, è tipo una virtù, secondo me, il fatto di mantenere il controllo in ogni situazione.

In camera era buio, quindi rispondo senza riuscire a vedere chi stesse chiamando.

«Pronto,» rispondo cercando di dissimulare e confondere la voce infernale in cui ho riconosciuto la mia.

Non ci riesco, a quanto pare.

«Dormivi,» esordisce lui con un tono abbastanza duro, col tono in cui ti chiamerebbe tua madre o il tuo datore di lavoro che stai facendo aspettare in ufficio.

Io mi metto subito sulla difensiva, ma ho la netta sensazione che sarebbe meglio troncare subito la conversazione.

«No no macché, mi sono appena alzato. Ciao Stefano, dimmi».

«Mi hai mentito».

«Scusami?» faccio io ormai completamente sveglio.

«Sì, su quella storia degli insetti».

«Cioè?»

«Non sono dolci come dicevi».

«E che ne sai? Non ne avrai mica assaggiato uno?»

Ma Stefano ormai non risponde più. Attacco il telefono cercando di vestirmi e di darmi una raddrizzata più in fretta possibile e durante il caffè che bolle, l’acqua del lavandino che scorre, un’ingrata erezione mattutina che mi preme dalle mutande sul pigiama, cerco di chiamare Giulia per avvertirla che il suo fidanzato è impazzito, ma invano, il suo cellulare, testuali parole, potrebbe essere spento o irraggiungibile. Alla fine, con l’ansia che mi monta dentro lenta ma inesorabile come la preparazione di un’anatra alla pechinese (ci vogliono due giorni, e il risultato di solito è assolutamente insoddisfacente) mi butto nella selva delle strade con la luce del sole che ancora mi irrita gli occhi a prendere degli autobus che mi porteranno dall’altra parte della città, a casa di Stefano.

***

Per fortuna becco subito Giulia fuori dalla portone del palazzo dove Stefano abita.

«Ciao Andrea!» fa lei sorridendo, «ho visto che hai chiamato».

«Sì, ciao Giulia, sai che fine ha fatto Stefano?»

«Lo sto andando a prendere che stamattina abbiamo un Brunch».

Io adoro il Brunch. Specialmente la domenica, anche se secondo me sarebbe il pasto perfetto per pranzi e cene noiose, merende in piedi, colazioni dolci, colazioni salate, colazioni americane inglesi italiane della mulino bianco o coi cereali del discount.

Il Brunch è il pasto perfetto.

Sbigottito chiedo a Giulia

«Da quand’è che andate ai Brunch senza di me?»

«Mannò,» fa Giulia, «è una cosa tra noi, e abbiamo scoperto questo posto solo da un paio di settimane».

Mi tranquillizzo e chiedo:

«Saliamo a salutarlo?»

Per tutta risposta Giulia si volta e attraversiamo il portone del condominio, poi il cortile interno, poi la scala B e infine il quinto piano. Per fortuna Giulia è una sportiva e decide di emanciparmi dall’imbarazzo di una lunga e silenziosa salita in ascensore. Io arrivo davanti alla porta dell’appartamento di Stefano col fiatone, Giulia no.

Mentre lei prima suona il campanello, poi bussa, poi all’assenza di risposte inizia a cercare le chiavi di casa, io ancora respirando affannosamente inizio a toccarmi la pancia, e penso che devo essere ingrassato almeno almeno cinque chili dall’ultima volta che mi sono pesato, cosa che deve essere successa intorno ai quindici anni, mi pare.

Per fortuna Giulia trova le chiavi e mi salva da questa cosa del dover saggiare la mollezza del mio fisico, infila la chiave nella serratura ma si blocca un attimo prima di girarla perché entrambi sentiamo un veloce rumore di passi sulle scale che vengono verso di noi.

Dalla voce lo riconosco subito, è l’unico maschio eterosessuale che conosco ad avere un tono di voce così alto. È Filippo, che ancora prima di alzare lo sguardo e vederci fa:

«Pronti per il Brunch?»

Giulia sbianca e cerca in tutti i modi di non guardarmi, il sorriso di Filippo che deve aver avuto mentre saliva le scale scompare all’istante dalla sua spigolosa faccia del cazzo e senza che io avverta il minimo segno di affaticamento si ferma davanti a noi. Giulia si è cristallizzata sulla porta, con la chiave mezza dentro.

«Ah, ciao Andrea,» fa Filippo abbozzando un sorriso.

«Ciao,» faccio io, cercando nella mia testa l’espressione più falsa che riesca a fare. La trovo, i muscoli della faccia si muovono e si contraggono, gli occhi si aprono di scatto.

Filippo capisce ma per fortuna allo scatto della serratura mossa dalle chiavi di Giulia entrambi ci voltiamo per entrare nell’appartamento.

***

Troviamo Stefano seduto sul tavolo della cucina. Assolutamente composto, quasi rigido, con i palmi della mani appoggiati sulle cosce. Ha gli occhi aperti e guarda dritto davanti a sé. Non mi pare che si sia accorto di noi.

Giulia corre verso di lui e gli mette una mano sulla spalla e dice:

« Sté, che c’hai?»

Ma lui non risponde, nemmeno quando lei si mette ad accarezzargli i lunghi capelli biondi, spostandoglieli dietro l’orecchio. Anche Filippo si avvicina e si siede dall’altra parte del tavolo, proprio di fronte a Stefano e cerca di guardarlo negli occhi, assumendo la stessa posizione. Ma lo sguardo di Stefano sembra oltrepassare l’esigua corporalità di Filippo, sembra letteralmente attraversarlo. Poi con la sua voce stridula dice:

«Oh! Amico mio! Tutt’apposto??»

Lo dice con un tono forzatamente preoccupato che se si stesse rivolgendo a me farei abbattere su di lui tutta una vita di ingiustizie e battute subdole mandate giù ed ingoiate come insetti, senza masticare ma solo percependo esattamente il movimento delle zampette di una blatta sopra la lingua, con le lunghe antenne che mi sfiorano il palato provocando una piccola sensazione di solletico interno, non piacevole ma nemmeno spiacevole. Cazzate deglutite rifugiandomi nell’incosciente speranza corrosiva dei miei succhi gastrici, che sappiano riconoscere almeno loro il nutrimento e dividerlo dallo schifo, visto che io non ne sono capace. Non sono bocconi amari questi. Se uno avesse il coraggio di porre fine alla vita dell’insetto nel buio del cavo orale, serrando le mascelle, avvalendosi della forza esplosiva dei molari, il sapore delle cose sarebbe diverso. Se uno potesse impastare con la lingua quella carne e quei succhi con un sapore allucinante sconosciuto in qualche modo riservato a pochi quindi mistico, al limite dell’esoterico, la consapevolezza del cibo, del gusto, cambierebbe definitivamente.

Guardo Stefano, mi avvicino anche io. Con tranquillità gli metto una mano sopra la coscia e in modo chiaro e dolce gli dico

«Ingoia, amico mio. Ingoia».

Lui si gira, mi guarda con gli occhi spaventati. Io annuisco con la testa, tra lo sbigottimento di Giulia e Filippo. Stefano serra gli occhi e il suo viso assume l’espressione di uno stitico sulla tazza del cesso, riconoscendo la durezza, l’inevitabilità e l’inutilità di quello sforzo. Il pomo d’adamo di Stefano va su e giù, si sente il classico rumore di qualcosa che ormai è sceso giù per l’esofago.

Il citofono squilla, devono essere gli altri credo, staranno facendo tutti ritardo a causa mia. Ora Stefano si è rilassato, la sua postura è meno rigida e sta iniziando a sudare, ma penso che sia solo a causa del lungo incordare i muscoli. Sembra molto stanco.

Stefano e Giulia scompaiono in bagno, Filippo nemmeno mi guarda. Decido di salutarlo con una pacca sulle spalle che ormai non me ne frega più un cazzo delle loro uscite la domenica mattina, che mi sa che all’improvviso sono tornato dall’altra parte del mondo e ho smesso di mangiare insetti. Me ne esco dall’appartamento e decido di tornare a casa a piedi. Nel tragitto decido di fermarmi a mangiare in una trattoria, che ormai s’è fatta ora di pranzo e di iscrivermi a un corso di aerobica.

 

Matteo Trevisani

Il re che ride

Il re che ride (Marsilio, 2010)

di Simone Barillari

 

Chissà cosa direbbe del suo aforisma René Clair, ascoltando le barzellette di Berlusconi, osservando il ghigno plastificato, che nulla ha da invidiare al buon Joker di Nicholson, che si espande, si tira e soddisfatto fa da commento auto-celebrativo all’arguzia appena proferita.

Non possiamo dire che penserebbe e come reagirebbe Clair, ma di certo possiamo immaginare le reazioni degli italiani che assistono, da dietro lo schermo oppure dal vivo (ahiloro!) a questo imbarazzante siparietto offerto da IL RE CHE RIDE. Occhi spalancati, commenti acidi, mezzi sorrisi imbarazzati come quando ci accorgiamo di avere la patta dei pantaloni aperta, bestemmie e imprecazioni. E tante domande.

Ma di cosa ride poi? E re di cosa? Ma il re una volta non era nudo!?

Oggi (in) vestito più che mai di quell’aura di onnipotenza tipica dei piccoli dittatori dello stato di Banana, il buon monarca politicante è (auto) convinto di avere nella sua faretra strali, capaci di piegare ogni situazione e ogni avversario, con comicità consona a ogni occasione che non può che sedurre l’auditorium di proseliti e non che fa da bersaglio a ogni appuntamento.

Ma è veramente così? Nel suo saggio, Simone Barillari fa un suo punto di reputazione mostrarci tutto quello che si nasconde dietro le ingenue (?) battute del Silvio internazionale.

Perché tra le quinte di ogni comica storiella si affastellano momenti ben precisi della carriera politica dell’imprenditore con un sogno, nomi e cognomi di alleati e avversari vessati bonariamente come i poveri carabinieri (che mai dovrebbero prendersela per quello che si dice su di loro… visto che è la verità …) e scandali più o meno importanti che hanno scosso (ma davvero!?) le fondamenta del cielo azzurro in cui abita il Dio-RE.

L’autore del libro è quindi uno studioso pluri – competente che porta avanti con scaltrezza e bravura il lavoro dello storico, del sociologo e dello scrittore con una nota ironica che traspare leggendo molto bene tra le righe ma anche con un’oggettività intraprendente per un tema del genere.

Affatto banale Il Re che ride è un libro da leggere con molta attenzione, che serve da promemoria, da allerta costante per la nostra capacità di critica e autocritica.

Il re ride. Il popolo piange. La nazione trema e ridere non è il vero segno della libertà ma la bandiera bianca sventolata di fronte a un nemico che avanza con i fantocci di paglia.

 

Alex Pietrogiacomi