Ti amo ancora

Riportiamo un racconto di Pierluca D’Antuono, bassista dei Vigo, del quale speriamo sentirete ancora parlare in qualità di scrittore (noi lo sappiamo che ha un bellissimo romanzo che attende di prender forma, per adesso solo abbozzato tra pagine e pagine di appunti vergati a penna, e che deve solo trovare il tempo e la forza per scriverlo).

Per primo è toccato ad Annio, poco più di un anno fa. Lo hanno trovato ai Cerchi freddo duro e sorridente. Sembrava uno scherzo o un tragico incidente. Hanno fatto di tutto per non farci capire niente. I grandi non ci dicevano nulla, appena ci vedevano cambiavano discorso o stavano zitti. Abbiamo cercato di vederlo ma non ce l’abbiamo fatta. Lo hanno portato subito via e hanno pulito tutto. Sangue a terra non c’era, era difficile capire il posto preciso dov’era.

Tutti pensavano a un caso isolato, tranne noi. Era troppo strano ma noi capivamo. Qualcuno a Castel Sinone stava ammazzando i nostri amici. E io e Nina abbiamo cominciato a cercare.

A Castel Sinone siamo milleeduecento. Siamo quasi tutti parenti. Sono tutti vecchi tranne quelli della mia scuola. Non ci sono edicole e i nostri genitori non ci fanno più vedere la televisione, da quando l’anno scorso è capitato il famoso caso di Alfredino il bambino che è caduto nel pozzo. E ora è anche peggio con quello che sta succedendo.

Anche io e Nina siamo parenti, le nostre mamme sono sorelle. Ma è solo un anno che stiamo sempre insieme. Prima io stavo con mio fratello Benito e i suoi amici grandi. Hanno tutti 18 anni e non vanno a scuola. All’inizio stavo bene mamma mi faceva uscire a tutte le ore con loro e usavamo la macchina di Gabriele. Era bello nei campi e in campagna e qualche volta mi hanno fatto pure guidare. Poi è successo che hanno cominciato a chiedermi dei giochi che non mi piacevano e non capivo perché dovevamo fare. La lotta è uno di quelli.

Dopo Annio c’è stato Michele. Un giorno comincia a non venire più a scuola ma nessuno dice niente. Io e Nina andiamo a casa sua era tutta chiusa e spenta. Vicino alla porta sentivamo la mamma che piangeva. Il padre si è accorto di noi e ci ha tirato una pietra. Le maestre hanno detto che Michele era andato a stare dai nonni in città, e per ora non tornava o forse non tornava proprio. Noi non ci crediamo e per sapere andiamo ai Cerchi, ma pure questa volta non c’è niente da vedere.

La lotta è diventato uno di quelli che tutti mi toccavano e stringevano e poi alla fine mi chiedevano di togliermi le mutande. Le toglievano anche loro e dovevamo toccarci. Poi hanno cominciato a dire che con le mani non era più divertente. Proviamo con la lingua hanno detto a mio fratello.

Nina ha capito subito che succedeva qualcosa perché ora i Cerchi sono sempre puliti. Prima neanche potevamo entrare. Dico perché a terra era tutto pieno di vetri bottiglie siringhe e immondizie. Questo è il posto più nascosto del paese e qua ci vengono a stare tutti. Doveva essere lo stadio del nuoto ma dopo che c’è stato il famoso terremoto non lo hanno più finito. Poi è successo che hanno arrestato tutti i politici del paese per i soldi che sono spariti e ora nessuno può decidere se finirlo o toglierlo proprio.

Io con la lingua proprio non volevo ma loro hanno insistito e hanno detto che almeno una volta dovevamo provare, una volta soltanto. Io ho chiesto almeno non tutti e loro hanno scelto mio fratello hanno detto che era meglio ma mentre lo facevo non mi piaceva per niente e gli ho dato un morso. Lui ha urlato poi si è girato per un po’ è stato di spalle e faceva strani versi. Quella è stata l’ultima volta che stavo con loro.

Vado via piangendo ma senza farlo vedere sennò ricominciano.

Nina è più grande di me di un anno, ha 12 anni. A lei soltanto ho raccontato questo perché una volta mi ha detto che anche a lei è successo quando era piccola che suo padre la sera la mamma la metteva a letto e poi lui andava a salutarla e l’accarezzava toccava baciava leccava stringeva tappava il naso e la bocca le tirava i capelli e le mordeva la schiena. Lei faceva finta di dormire perché pensava che lui la smetteva. Una volta è rimasta cogli occhi aperti ma suo padre le ha detto chiudi gli occhi Nina è più bello se dormi.

Anche Nina è stata fortunata come me perché suo padre poi ha smesso. È stato quando è nata la sorellina Adelina tre anni fa. Il padre è impazzito per lei e ora a Nina non la guarda nemmeno. All’inizio era un po’ triste ma poi ha pensato che era meglio così.

Anch’io ho una sorella più piccola e un altro fratello oltre a Benito. Ora è tanto che è andato via di casa, è stato circa cinque anni fa, nel 1977. Io non ho capito bene ma mia cugina Cesira a scuola mi ha detto che suo padre dice sempre che mio fratello è un terrorista ed è andato a Roma per uccidere i politici e fare come la Russia. A casa non possiamo parlare di Adolfo. Una volta al mese arriva una telefonata che sta zitto e non dice niente ma mia madre piange e capisce che è lui. Mio padre invece non è così che la vede a lui non gli piace e basta. Dice sempre meglio morto che rosso. Lui preferisce i fascisti. In casa abbiamo il busto di Mussolini e mio padre ha fatto la guerra infatti era paracadutista. Lui vuole che pure a noi ci piaciono i fascisti. Voleva convincere pure Adolfo, in quanto Benito non capiva perché è un po’ scemo e comunque diceva che già lo era. Ma Adolfo era contrario. Con alcuni suoi amici di Selce faceva delle riunioni e faceva le scritte rosse sui muri del paese. Una sera dopo una di queste riunioni mio padre con i suoi amici è andato a prenderlo e lo ha portato ai Cerchi. Lo hanno picchiato tutti insieme per fargli capire. Mio padre diceva lascia stà i comunisti a casa mia non esiste. A un certo punto zio Michele lo ha fermato perché Adolfo non si muoveva più. Lo hanno lasciato davanti all’ospedale di Selce. Da quella volta Adolfo non è più tornato a casa. Una settimana dopo mio padre ha trovato davanti alla porta una busta con sei proiettili e un po’ si è spaventato. Da allora non si sono più parlati. Ora mio padre quando parla con qualcuno dice che ha tre figli, Adolfo non lo conta più. A me mi dispiace perché Adolfo era bravo non come Benito e neanche come mio padre.

In estate sembrava che non moriva più nessuno ma poi è stato il turno di nostra cugina Maria. Quella volta io e Nina eravamo ai Cerchi. Stavamo giocando e poi Nina ha visto mio fratello Benito che si muoveva vicino ai tronchi morti. Guardava per terra e ha raccolto qualcosa poi è andato via senza vederci. Abbiamo aspettato che si allontanava e poi Nina è corsa solo per guardare e ha urlato. Maria era immobile schiumava dalla bocca ed era bianca sacrificio come non immaginavamo si poteva. Non sapevamo che fare è stato come vegliare una domenica mattina in chiesa ma per una cosa più vicina e seria. Un’ora dopo Nina si è alzata la luna incendiava già il cielo che stava per crollare da un momento all’altro esplodeva abbiamo corso la distanza che ci separava dalla prima casa di grandi e mezz’ora dopo hanno tolto Maria. Io pensavo che erano tutti contenti con noi che avevamo fatto una scoperta buona da adulti e invece ci hanno castigato sgridato e pure picchiato che infatti per i segni non potevamo neanche andare a scuola.

È da allora che io e Nina stiamo sempre insieme.

La prima volta con Nina non l’ho mai dimenticata. Eravamo a casa sua. Al piano di sotto c’era solo il padre con Adelina. Dalla finestra stavamo spiando nostra zia Adriana che stava a letto con uno che era uguale a Don Alfio ma era senza tonaca. Per me non era lui ma Nina era sicura perché ha detto che non era la prima volta che li vedeva. Lui aveva i vestiti mentre lei era nuda ma a un certo punto si è messa una busta di plastica in testa e ha cominciato a fare la pipì per terra. Nina rideva io guardavo più lei che loro perché avevo come una paura a vederli un peso sul petto che mi faceva respirare male. Nina si è accorta che la guardavo e si è avvicinata continuando a fissare zia Adriana. Più era vicina più quel peso che sentivo diventava forte ma era anche bello era come un dolore che non faceva tanto male. A un certo punto si è girata verso di me deve essere stato un attimo fortissimo che dura all’infinito e allora mi ha preso la mano. Io l’ho lasciata fare poi mi ha cominciato ad abbracciare. Nina era davvero bella e mentre lo pensavo mi ha passato le mani su tutta la schiena e allora quel peso che avevo si è come sciolto in un bruciore sotto la pancia nello stomaco che si muoveva sopra e sotto dentro e sotto si muoveva bene. Nina mi accarezzava i seni e mi dava dei baci sul collo poi mi ha detto che ero bella e che le piacevo un sacco e a quel punto ci siamo baciate sulla bocca muovendo forte la testa e ci toccavamo dappertutto e ci stringevamo molto. Nina mi accarezzava la testa e poi mi ha tirato i capelli e mi ha morso un labbro mi ha fatto male e mi sono arrabbiata ma lei ha detto che era solo per provare che forse era più bello. A un certo punto abbiamo sentito la mamma di Nina che entrava in casa e dopo un po’ ha cominciato a gridare ce l’aveva col padre gridava fortissimo e gli tirava tutto litigavano di brutto ma il padre non diceva niente. Nina ha detto che era strano che non parlava e allora voleva andare a vedere. Siamo scese ma ci siamo nascoste in un ripostiglio sulle scale. La mamma piangeva faceva davvero casino aveva in braccio Adelina e l’accarezzava dietro. Lui provava ad avvicinarsi e allora la mamma impazziva, tirava qualsiasi cosa trovava, mancava solo la bambina. Quando ha tirato un posacenere pesantissimo che è andato contro la tv e ha spaccato tutto, Adelina ha cominciato a urlare e noi ci siamo spaventate. Allora ho preso Nina per mano e ci siamo abbracciate e baciate e le mi ha detto ti amo ancora più di prima e abbiamo ricominciato come in camera mentre la zia ha cacciato di casa lo zio e pure dalla finestra gli tirava le cose.

La sera della finale dei mondiali tutto il paese era ai Cerchi. I genitori hanno organizzato come una grande festa con le salsicce e la brace e tante cose da bere. C’erano tutti i nostri amici e le nostre amiche. Era da un po’ che non capitava più niente e infatti ora qualche grande era più tranquillo perché pensava che tutto era passato come se non era mai successo niente. Quella sera c’erano anche Benito e i suoi amici che ogni volta che vedevano me e Nina facevano un risucchio con la bocca tipo un bacio strozzato per prenderci in giro e per tutto il tempo sono stati vicini a noi bambini che eravamo in disparte perché la partita non ci piaceva. Benito stava sempre insieme a Orlando, il fratello di Nina, erano i capi del loro gruppo, i più forti e rispettati. Quella sera i Cerchi erano silenziosissimi, si sentivano solo le radioline e le urla dei tifosi, erano tutti attentissimi ma a un certo momento abbiamo visto Orlando e Benito che se ne andavano correndo, inseguivano Graziella ma nessuno ci ha fatto caso. Nina si è alzata per seguirli, io non avevo voglia ma siamo andate lo stesso. Orlando e Benito correvano troppo per noi e infatti li abbiamo persi e siamo tornate indietro. La partita era finita ma i grandi erano preoccupati perché non trovavano Graziella. Ci siamo messi a cercarla finché qualche genitore ha detto che noi piccoli dovevamo tornare a casa. Graziella non l’hanno mai trovata e la mamma è impazzita.

Noi pensiamo che Orlando e Benito sanno cosa sta succedendo ai nostri amici, ma per ora non possiamo parlare ai nostri genitori perché tanto danno la colpa a noi e ci picchiano. L’idea di quello che faremo è venuta a me, ho convinto Nina. Ieri abbiamo chiesto a Orlando e Benito se possiamo andare con loro ai Cerchi. Facciamo che vado prima io e dico che lei non c’è, poi quando loro cominciano esce Nina. Per questo abbiamo rubato a casa un coltellino svizzero e una chiave inglese di mio padre. Quando siamo sicuri di quello che sanno o quello che fanno li uccidiamo poi scappiamo e scriviamo una lettera anonima a tutti i grandi del paese. A quel punto però non possiamo più tornare. Nina vorrebbe rimanere nascosta tutto il tempo. Ma io ho pensato che sarebbe bello andare a Roma da mio fratello Adolfo. Mi piace l’idea di andare da lui che se vuole possiamo aiutarlo a fare come la Russia la rivoluzione in cambio di niente.

In cambio di un posto dove io e Nina possiamo stare insieme per sempre.

Qui non vogliamo più restare.

Il barista di Malagrotta *

Malagrotta regno animale, Malagrotta regno di zanzare, di topi e di gabbiani, di esseri umani. Malagrotta Via degli oleodotti e Via degli idrocarburi, Malagrotta Bosco di Massimina, Malagrotta Testa di Cane, Malagrotta gassificatore, Malagrotta pecore e vacche, Malagrotta raffineria, Malagrotta Ponte Galeria, Boccea. Malagrotta 1 e Malagrotta 2, Malagrotta lavoro, malattia. Malagrotta gola, sapore, odore, un uomo che guida e intanto si distrae, osserva chilometri di recinti, le palme appena piantate sulle colline, un pastore slavo ai piedi di un noce, una prostituta con minigonna di lamé, le cosce nude e tozze, le scarpe di vernice che toccano l’asfalto e fanno un ritmo quando il traffico è fermo per il semaforo provvisorio dei lavori in corso.

Poi scatta il verde e i rumori sono altri, più solidi scarti di ridotte dei camion all’ingresso della discarica di Roma e macchine cavacantiere inerpicate sui tornanti.
Dalla Portuense, via rurale, tra campi di erba medica di cardi, tra casali in via di ristrutturazione – e in mezzo Corviale – si arriva alla strada che costeggia la Cittadella, la chiamano proprio così, definizione ufficiale. Archi di acqua bianca si innalzano sulla distesa di fiori grassi, gialli, da un lato, dall’altra la palizzata e poggi glabri, appena toccati da una barba verdastra. In mezzo le architetture di tubi colorati e minareti fiammanti, di capannoni e balle impilate.

A due cose si fa caso, due elementi di solito tralasciati. Primo, l’odore. L’olfatto nella città civile è un senso occasionale, ha il valore di una memoria o di un’epifania, poiché non ha profumo il progresso se non una sottile consistenza di fumo, che è la normalità dell’aria. Campioncini di colonia, cassonetti, sesso, vapori di ristoranti, barboni questuanti in un vagone affollato della metro. Nulla di stabile. Non ci sono pollai o concerie, non ci sono carbonai, né macelli a vista. Qui invece il rapporto con l’olfatto coinvolge il corpo intero, un gas che irrita le parti molli – gli occhi, la lingua – a cui ci si abitua con lentezza ed è sempre un piacere liberarsene. Sterco, ammoniaca, carne, benzina, detersivo, frutta, subito tutto. Poi una presa acidula complessiva, un sapore nella deglutizione.

Il secondo è il vento, che non è questione per metropoli e le cui specie sono ormai assorbite dal genere: non molti ma uno, non un vento ma il vento. Invece qui è diverso. Anzitutto perché a questa zona, e in particolare alla barriera di Corviale, viene attribuita la responsabilità dell’estinzione di quel soffio di frescura che illanguidiva Roma nel rosso tramonto d’estate: il ponentino che ebbe già glorie barocche e papaline, umbertine e neorealiste e che non esiste più. O meglio, batte sul chilometro di cemento armato, arriva che è una volontà, colpisce il palazzo ed è appena una conseguenza di scontri tra nuvole lontane, tra l’agro e il mare. E poi perché al peso di salsedine da Fiumicino, si contrappone il passo artificiale di uno zefiro ammorbato: discarica, smaltimento. Malagrotta vento. E lo sanno nei quartieri e nelle borgate, lo sanno a Casal Lumbroso e lo sanno fino a Ottavia, lo sanno a Casalotti e a Castel di Guido, a chi tocca respirare un male collettivo, un rischio, un mistero che pure ha un nome ed è proprio questo qua.

Attorno al perimetro della discarica, appresso alla fugace orografia di questa valle, si cerca il punto esatto in cui dominarla tutta, ma questo punto non esiste. C’è sempre un cumulo di troppo o un gomito di curva che impedisce una visuale completa. Allora si prova ad entrare, ma è vietato. Per richiedere un permesso si fa una telefonata, poi un’altra, poi un’altra ancora, poi si deve spedire un fax, poi si deve richiamare per verificare che il fax sia arrivato, ma è arrivato a un ufficio diverso di quello con cui si era parlato e allora occorre un altro numero, un’altra telefonata, il fax è arrivato, ma è in attesa di essere vagliato dal responsabile, che però non è in città. Alla fine il permesso non viene negato, ma neppure concesso.

Dunque non si può che stazionare sotto i piloni del grande cartello verde e bianco, Discarica, sbirciare le ruspe e i trattori, i cassoni ingombri dei camion, su cui troneggia il logo bianco di una casa costruttrice che ha fatto nuova ragione sociale del proprio merchandising. CAT è l’unico dato certo, in mezzo ad altre piccole certezze, bottiglie di Coca Cola e di acqua Lete, confezioni di Carefree di Pampers di Lines, buste Carrefour, Conad, Gs, Sma, Pim, Pam, Pewex, gli unici segni decrittabili da questa distanza. Potenza di colori aziendali e logotipi che luccicano nell’argenteo bagliore del nylon, riconosciuti senza nemmeno essere visti. Si tratta per lo più di involucri, di spoglie; del rifiuto solido della definizione non c’è nulla, se non una pappa, una colla senza colore che gonfia i rimorchi e le pale delle ruspe, nulla di sicuro in questa coatta miopia. I camion percorrono lo sterrato senza fatica, in ripida salita, poi spariscono sul pendio pronti al cratere, invisibile ovunque.

Si direbbe per celia, si direbbe che stare lì a guardare è solo un esercizio voyeuristico, la serratura di un cesso pubblico, la luce accesa in una stanza, dietro tende ricamate alla finestra di fronte. Si direbbe che il catino accogliente di packaging e sostanza informe sia la sede di un segreto, un club per scambisti, il ministero di un rito per iniziati. La puzza è un indizio, un citofono anonimo e dentro che cosa, se intorno solo veli di terra su montarozzi, solo monumenti alla memoria di un vizio, dossi, buche tappate da teli di plastica e pannelli solari, colline beige e sterpi senza radici, divieti. Solo animali spia, solo strepiti di gabbiani, a migliaia, resi volgari dalla ressa e dalla competizione. Vuol dire che lì sotto, celato alla vista, c’è nutrimento, c’è vita, c’è consumo. Gabbiani rapaci e obesi, senza grazia, topi in lotta con altri roditori, pasciuti in questa terra. Ai marchi di bottigliette e sporte ecco contrapposto l’emblema della discarica, il marchio di Malagrotta. Come fosse un villaggio turistico, un ristorante balneare, una pensione a due stelle, un night. I gabbiani. Non esiste altra firma che questa per un posto del genere, nessun altro stimolo al pensiero laterale, nessun altro plausibile luogo comune: se non questi uccelli cibati dal fermento, dalla decomposizione. Poesia d’accatto, immondizia, mare.
Su ciò che non è visto si fantastica e si ipotizza, si costruiscono dogmi di fede. Così è il cratere. L’unico fatto certo è che si fa del tutto affinché nessuno tocchi l’elemento principale della discarica, perché nessuno si avvicini al fatto più spiacevole, l’immondizia, la cui natura collettanea e complessa impedisce un’efficace visualizzazione simbolica; non è un’idea semplice, dunque è facile da contraddire, dunque non c’è.
Assomiglia alla violenza, tacitata dai proclami, categoricamente espulsa dalle rivendicazioni, la si direbbe perfino estranea a chi la produce e a chi la pratica. Eppure c’è, è da qualche parte, in un altrove fisico ma pur sempre negato. In una discarica.

All’angolo della strada due giovani uomini si affrontano con mazza e cric per uno stop non rispettato, il traffico avanza; tra le mura di casa si consuma la violenza silenziosa, nel palazzo risuona la voce dei tg; un manovale si ferisce con un frullino, sanguina, magari lo scaricano ai bordi di una strada e intanto il cantiere prosegue i suoi lavori. La guerra. La guerra non fa male.

Ed è così per la morte, di cui si parla con difficoltà e per questo fa sempre più paura. È così per il dolore rappreso nella chance di una perenne anestesia.
Perciò quando in casa approda la minaccia di una bomba, la frustata di una cinghia, un lutto, un brutto male, l’impressione è sempre quella di un’ingiustizia senza cause né prodromi, di una realtà che le idee avrebbero dovuto plasmare e che invece hanno soltanto rabbonito. E per accorgersene deve essere proprio casa nostra, perché non basta la iattura del vicino a terrorizzarci; devono ondeggiare i lampadari, tremare le credenze, spalancarsi le finestre. Servisse almeno a guadagnare ottimismo, a campare felici. Invece è il contrario. Se la paura non è in un punto preciso allora è ovunque, la minaccia è costante, è nel prossimo. Tutto il mondo è appena fuori dalla porta, egualmente lontano.

Che i roghi di immondizia producano diossina in Campania o a Nuova Delhi è la stessa cosa. Che Malagrotta puzzi, che Malagrotta, tra le più grandi discariche d’Europa – forse – ammali, non è un problema italiano e non è un problema romano, e non è un problema di tutta Roma Sud. È un problema esclusivo delle zone limitrofe, dei comitati di quartiere che da vent’anni manifestano e picchettano, degli abitanti che stendono panni e allevano bimbi. Del barista oltre il recinto. Che dice «Tutti i giorni è normale. Arrivo presto, lavoro, faccio i caffè e i cappuccini. Ogni tanto entra qualcuno che conosco e penso: ora mi dice che si è ammalato. Va bene, capita. Poi metti che succede a un altro, a un altro ancora, tutte persone della zona, tutta gente che abita qui da anni. E poi se tocca a me? Non è ancora successo, ma chi me lo dice che non capiterà? Chi lo sa che cosa ci siamo respirati, cosa ci respiriamo?»
Continua a stare lì, ad alzarsi presto, a scaldare tazzine tra i cicalecci del videopoker, a mettere da parte qualche soldo per comprare il motorino al figlio o andarsene a Ferragosto al mare. Lui che si affaccia sui reticoli impigliati di strappi di plastica e cartacce, vive nell’angoscia. Tutti gli altri, nel rifiuto.

Forse può rassicurare la scritta sul cartello appena fuori dalla vicina raffineria. “Salute, Sicurezza, Ambiente. Le nostre priorità”. Forse la prossima – più volte rimandata – apertura di Malagrotta 2, del termogassificatore. Ma dicono che sarà ancora più nocivo. Di sicuro l’immondizia, compattata in balle, sarà espulsa in un fil di fumo. Di sicuro si vedrà ancor meno. Non ci si nutriranno i gabbiani. Sparirà.

Yari Selvetella

*[Precedentemente pubblicato su Nazione Indiana]