Roma violenta – Liguori intervista Moretti

Sono trascorsi alcuni mesi dall‘ultima volta che ho intervistato, in occasione dell’uscita del romanzo Il senso del piombo, Luca Moretti. Quell’intervista è stata veicolo di discussioni accese e riportata in parecchi forum della destra radicale. Dopo la storia di Giusva Fioravanti e dei Nar, lo scrittore trentacinquenne torna nelle librerie, sempre per i tipi di Castelvecchi, con Roma violenta, un libro scritto a quattro mani col rapper Duke Montana. Torniamo a scambiare quattro chiacchiere con lui. Leggi il resto dell’articolo

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GNAP! – la tecnica dello schiacciapatate

Riportiamo l’intervento di Jacopo Nacci comparso su Yattaran

Prima o poi mi deciderò a compilare e pubblicare un elenco delle fallacie e delle mosse retoriche subdole che si stanno propagando in Italia in questi anni in modo massiccio e preoccupante: basti pensare all’uso diffusissimo e spensierato dell’argomento a uomo o del processo alle intenzioni. Temo abbiamo a che fare con la prole deforme nata dalle Nozze di Relativismo e Televisione: si tratta di fallacie e mosse che il loro stesso substrato ideologico incorona come uniche forme retoriche moralmente legittime; il medesimo substrato ideologico, intanto, rovescia senza pietà argomenti e dimostrazioni nel cestino delle dialettiche immorali; tutto ciò sta trasformando una parte della popolazione in troll (nel senso internautico) e l’altra parte in soggetti schizofrenici costretti a interrogarsi e rispondersi da soli; se gli schizofrenici che si interrogano e si rispondono da soli mi fanno venire in mente Socrate in Gorgia 506c-507c, i troll mi fanno venire in mente – più che sofisti come Gorgia, Callicle o Polo – i puffi neri, o i film di zombie dove i virus si impossessano dei cadaveri; e credo sia significativo che, nella filmografia sugli zombie, gli zombie si siano fatti via via sempre più rapidi e aggressivi. Leggi il resto dell’articolo

“L’io so del mio tempo”. Il dilemma pasoliniano in “Gomorra” di Roberto Saviano

[Intervento di Matteo Pascoletti precedentemente pubblicato sul suo blog]

Nel romanzo Gomorra, c’è un episodio in cui il protagonista e voce narrante si reca presso la tomba di Pier Paolo Pasolini per recitare quello che definisce «L’io so del mio tempo». In questa espressione si possono notare due tratti: un tratto connesso ad una visione storicizzata del rapporto tra intellettuale e Potere (che in Gomorra è Potere economico e territoriale); un secondo tratto che, da questa visione storicizzata, isola un precedente illustre, ossia Pier Paolo Pasolini, e si pone su questa scia per denunciare, nel lasso di tempo che intercorre tra l’articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe? (1) e Gomorra, il processo di trasformazione del cittadino in consumatore, e le devastanti conseguenze a oltre trent’anni di distanza. Come si vedrà, il secondo tratto si palesa in relazione ad un altro precedente illustre, Luciano Bianciardi, che ne La vita agra ha ferocemente puntato il dito contro l’Italia del boom economico. È bene ricordare che il Pasolini dell’«Io so», impossibilitato a denunciare i responsabili di quei golpe che proteggono il Potere, è un intellettuale moralmente avverso al processo in corso, considerato un «nuovo fascismo»; ma come intellettuale, pena l’esautoramento del proprio ruolo o il suo tradimento, è eticamente impossibilitato a interagire con quel Potere che, scindendo la verità politica dalla pratica politica, favorisce il processo di trasformazione; un intellettuale non può separare la sfera dei valori da quella della prassi, dunque è impossibilitato, pur sapendo – e qui sta il dilemma – che ciò garantirebbe l’accesso a quelle prove o indizi. «Io so», dice Pasolini, «perché sono un intellettuale». «Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. […] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi» (2).«L’io so del mio tempo» rompe questo schema, e lo rompe perché Saviano lo considera rotto in partenza. Chi lo pronuncia è nato in terra di camorra, e nascere e crescere in terra di camorra è come avere a che fare con un “virus” inculcato dal proprio habitat sociale. Per fare un parallelismo con Pasolini, l’intellettuale Saviano è moralmente avverso a quel Sistema che agisce tramite la camorra, ma eticamente è impossibilitato a non interagire con esso: il connubio tra “virus” e “intelletto” fa sì che il virus agisca come un farmaco (ossia nell’accezione tanto di veleno quanto di medicina). Scrive Saviano, con un lessico in cui spiccano i riferimenti al corpo, alla carne e alle funzioni biologiche (3):

In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. […] E’ qualcosa di più essenziale, di più ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.
(Gomorra, pp. 330-331)

 

La consapevolezza di questo virus è parte stessa del romanzo, e caratterizza gli aspetti più autobiografici e intimi del protagonista. Sottintende un’architettura tragica, inoltre, poiché la colpa (il ‘virus’) è ereditata, frutto del fato. Il sintomo più evidente è quello di una rabbia che talvolta si mostra come vera e propria hybrys. Si pensi, ad esempio, al passo relativo alla villa del boss Walter Schiavone, progettata volutamente per essere una copia della villa di Tony Montana, il personaggio interpretato da Al Pacino nel film Scarface. Il protagonista, preso da una rabbia pulsante di fronte ad una simile manifestazione del Potere, di fronte a dei meccanismi che sfuggono alla logica apparente, come può essere per un crimine organizzato che guarda alla cinematografia hollywoodiana come ad un ipotesto da cui forgiare i propri simboli, si sfoga orinando nella vasca da bagno. «Un gesto idiota», dice, «ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio».
In precedenza, è sempre la rabbia, stavolta per l’ennesimo morto nei cantieri edili gestiti dai clan, a portare Saviano ad evocare il protagonista anarchico de La vita agra di Luciano Bianciardi, i suoi intenti dinamitardi contro il «torracchione», e a reagire con il già citato viaggio in treno a Casarsa, verso il cimitero dove è sepolto Pasolini:

Dovevo forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo.
(Gomorra, p. 232)

È proprio in seno a questa rabbia, che nei suoi momenti più impulsivi e ciechi ricorda la hybris dell’eroe tragico, che sgorga «L’io so del mio tempo». E sgorga da uno stato d’animo che precede la dimensione razionale o intellettuale: le parole di Pasolini infatti rimbombano come un «jingle musicale», una similitudine che, curiosamente, richiama un elemento della società dei consumi. A questo stadio, ci si trova ancora in una massa indistinta e astratta in cui i contenuti non sono codificati in forme e le parole non hanno consistenza logica: è un piano dunque viscerale, emotivo, non intellettuale. Ma ciò che segue permette al Saviano scrittore, attraverso la proiezione autobiografica e la catarsi narrativa, di porsi idealmente oltre il Bianciardi disintegrato da quei meccanismi del consumo che avversava, e oltre il Pasolini fermo di fronte ad un nodo gordiano che non sa sciogliere. Se per sciogliere il nodo gordiano Alessandro Magno usò la spada, Saviano usa la parola, e la usa per denunciare un golpe economico che ha la propria spina dorsale nell’edilizia, terreno privilegiato per l’amalgama di quel Potere in cui lecito e illecito sono categorie contigue, e non elementi in opposizione:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova […]. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra “È falso” all’orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di questa verità.

[…] Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni […]. L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna.

[…] Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento.
(Gomorra, pp. 234-240)

Per capire che cosa intenda Saviano quando afferma che «La verità è parziale», e non «riducibile a formula oggettiva», bisogna osservare il rapporto tra quei dati citati all’interno di Gomorra e la dinamica narrativa entro cui si manifestano. In Gomorra c’è un assioma deducibile alla base di questo rapporto, e che giustifica implicitamente la forma romanzo adottata dall’autore: conoscere il numero di morti prodotti dall’epidemia del crimine organizzato è diverso dal vedere quelle persone morire per effetto dell’epidemia. Per rendersi conto di come viva questo assioma all’interno del romanzo, si guardi il capitolo intitolato «La guerra di Secondigliano» (4): il dato relativo agli omicidi compiuti dalla camorra in quegli anni non presenta picchi rilevanti, mentre la narrazione di come abbia agito la guerra a Secondigliano mostra un clima in cui la mattanza è all’ordine del giorno e non risparmia niente e nessuno.
Alla luce di ciò, ci sono due considerazioni da fare. La rottura ideologica del dilemma pasoliniano agevola innanzi tutto un rischio, ossia che il messaggio contenuto in Gomorra, nell’arrivare al destinatario, non possa essere disgiunto dal mittente, facendo di quest’ultimo un simbolo (una coppia inscindibile emittente-messaggio): ma se il mittente predomina all’interno del simbolo, il messaggio si indebolisce, o viene ridotto a fenomeno di costume, addirittura ad epifenomeno. Il destinatario legge Gomorra, vede lo spettacolo teatrale o il film perché è di moda, perché attraverso quell’oggetto artistico costruisce un’autorappresentazione di sé, e disperde il messaggio in un meccanismo autoreferenziale; o, peggio ancora, si identifica emotivamente con un immaginario centrato sull’autore, e attraverso l’identificazione con l’autore identifica se stesso. Lo stesso Saviano è consapevole di questo rischio, come si evince da questo passo, tratto da un’intervista rilasciata a Internazionale:

Quello che ha messo in pericolo la mia vita non sono state le informazioni che ho dato, ma il fatto che queste informazioni sono arrivate a molte persone. Se ci raccontiamo queste cose solo tra di noi o in tribunale non facciamo paura. Oggi la comunicazione ha davvero – per usare una parola che tutti detestano – una missione. Basta raccontare al mondo cose che sono già agli atti. La mia vicenda spesso viene definita un fenomeno mediatico. Può sembrare riduttivo o offensivo, ma è esattamente così.
(Gomorra ai tempi della crisi, intervista a Roberto Saviano, «Internazionale» del 20 marzo 2009, p. 37)

La seconda considerazione riguarda la natura parziale di «questa verità», parzialità che fa retrocedere la possibilità di azione politica dell’intellettuale. Poiché i «nomi» che andrebbero fatti, secondo il dilemma pasoliniano, sono quelli di tutti i responsabili, a qualunque livello, e non soltanto quelli relativi a ciò che vedono gli occhi (i clan casalesi, in Gomorra). Quindi l’opera di denuncia può esaurirsi solo attraverso una composizione di visioni parziali che, come un mosaico, messe insieme restituiscano il quadro completo. Ma se il terreno si sposta dall’intelletto al piano emotivo e viscerale (un piano fondamentale nello stile di Saviano e che ha in Gomorra il suo esito più alto), fino a rendere più importante il secondo, se il contenuto veicolato dalla retorica diventa morale o ideologico, e se viene a mancare una prassi, allora, ritornando all’intervista, essere «fenomeno mediatico» per l’intellettuale-farmaco non è «riduttivo» né «offensivo». È piuttosto una pericolosissima degenerazione, poiché nel frattempo i responsabili che non sono stati denunciati avranno il tempo di mettersi al riparo, magari sfruttando l’attenzione rivolta dall’opinione pubblica a quelli denunciati, e poiché l’intellettuale-farmaco diventa rappresentazione di intellettuale ad uso e consumo delle masse. C’è un passo nell’articolo di Pasolini che parla proprio di ciò:

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si definisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
(Il romanzo delle stragi, p. 90)

Se si guarda alla recente iniziativa di Saviano degli “elenchi”, si nota come la degenerazione sia in fase assai avanzata. Con gli elenchi si è addirittura giunti al di sotto dell’ipocrita dibattito morale e ideologico di cui parlava Pasolini: tutto ora è emozione e bellezza collettiva in cui identificarsi, manca qualunque dimensione critica, intellettuale o razionale. Gli elenchi sono «carta costituente di se stessi» (5): domina un principio di identificazione in cui il soggetto che prova l’emozione e la scrive nell’elenco si autoreifica (ossia “io sono la cosa che mi piace”); quella con gli elenchi non è perciò una relazione basata sul gusto (“mi piace”). Addirittura agli elenchi si conferisce una capacità magica, poiché «i dettagli comuni inseriti negli elenchi smettono di essere cose trascurabili e divengono dettagli fondamentali».
Sono dunque all’opera i due rischi sopra indicati:

Sentimenti antichi, desideri vivi, lampi di gioie quotidiane irrinunciabili.
[…]
È da qui che mi piace pensare l’inizio di una possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono. Non il paese incattivito, egoista, in fondo disperato in cui ciascuno bada solo ai fatti propri, dove tutti sono ugualmente sporchi, compromessi, piegati, e quindi tutti uguali nella meschinità.

Come si può vedere, infatti, non è importante il messaggio codificato negli elenchi, ma l’esistere a-critico degli elenchi come oggetti emozionali: lo stesso Saviano è secondario, rispetto ad essi. Inoltre i nemici individuati, ora, non sono responsabili di un golpe secondo il dilemma pasoliniano, ma semplicemente persone al di fuori del meccanismo di identificazione, che lo rifiutano o non lo riconoscono:

Elenchi banali, diranno i cinici, pieni di ipocrisia e di falso buonismo, diranno i saccenti. Ma chiunque abbia ascolto sincero delle parole sa che sono loro a banalizzare, impauriti dalla semplicità quando diviene senso della vita e soprattutto punto fermo di felicità.

Si è perciò nella demagogica situazione in cui vengono additati come nemici degli eversori emotivi, la cui colpa non è politica, né morale o ideologica: la colpa è quella di non riconoscere la reificazione delle emozioni attraverso gli elenchi, il loro valore autofondativo.
Da notare che nel lessico usato da Saviano prevale ancora il richiamo e l’attenzione stilistica a ciò che è corpo e carne, parentela, legame. Tuttavia è sparito qualunque accenno alla propria condizione di intellettuale-farmaco, al provenire da una terra ‘infetta’. La malattia, il ‘virus’ è allontanato da sé, e proiettato sugli altri, così come sono presenti accenni a ciò che è cura e medicina, sempre esternalizzati:

[…] il sentimento dei legami va oltre la cerchia del sangue. L’amore per i genitori, anche malati […]. C’è il piacere di ridere, a crepapelle, sino alle lacrime: risate terapeutiche capaci di contagiare e curare chi è triste. […] la ricerca della felicità, che si fa corpo in questi elenchi. […] un’Italia integra, pulita […].

L’atteggiamento, dunque, l’ethos incarnato dalle parole di questo Saviano è quello del demagogo che crea un senso collettivo in cui ciò che è critico è potenzialmente una minaccia e va visto a priori con sospetto, poiché l’atteggiamento critico distanzia se stessi dalle cose; un demagogo particolarmente efficace, va detto, poiché popola questo senso collettivo con un immaginario che proviene “dal basso” e che si limita ad amministrare attraverso la retorica e l’autorevolezza conquistata in precedenza. Un procedimento la cui pericolosità è sintetizzabile in queste due frasi: «la dimensione privata di molti messa insieme può divenire pubblica. È da qui che mi piace pensare l’inizio di un possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono». Ciò che manca, oggi, è un aspirante tiranno in grado di fare sua questa visione populista, ma è chiaro che, rispetto alla visione populista berlusconiana, che è calata dall’alto (il mito della «discesa in campo»), quello degli elenchi è un populismo complementare.

 

NOTE

(1) Apparso sul «Corriere della sera» del 14 novembre 1974. Si è fatto uso del testo che compare in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2008, pp. 88-93, dove compare con il titolo Il romanzo delle stragi.
(2) Il romanzo delle stragi, p. 89.
(3) Si cita da R. SAVIANO, Gomorra, Milano, Mondadori, 2006.
(4) Gomorra, cit., pp. 71-150.
(5) cito dall’articolo Cinquantamila ragioni per vivere / Tutti gli elenchi della felicità linkato in precedenza.

SPAZIO SOCIALE

Fatevi suonare in testa una qualsiasi melodia, un jingle stupidino, cinque o sei note orecchiabili sotto le parole “Spazio sociale”. Magari la musichetta la si potrebbe affidare a quelli di questo sito oppure la si fa in casa con amici, ma sarebbe meno professionale. Fatto è che l’idea che ho è questa: perché non ideare, progettare, creare, costruire ed investire in una catena di fast-food in stile centro sociale? Voi direte: Ma già ci sono i centri sociali?! sì, va bene, ma quelli sono per i punkabbestia, per quelli che si portano il cane appresso e si fanno le canne, per i rimastini cronici, per i fighetti alternativi, per gli artistoidi pseudo intellettuali, per gli attivisti politici, per quelli che sono veramente persone da centro sociale.

Io parlo di centri sociali per famiglie, merchandising in stile Burger King, Spizzico, KFC e McDonald’s. Una catena di ristorazione in stile centro sociale occupato, ricreato ad hoc, dove anche la madre di famiglia non ha paura di entrare e portarci i propri figli. Dove il nonnino ci porta il nipotino a mangiarsi il gelatino. Locali standard con scritte standard intagliate su tavoli in legno standard, con sedie, porte, finestre e colori standard, costruiti appositamente al fine di ricreare l’idea del “centro sociale occupato”, ma che non spaventi. Come se il tutto fosse un set cinematografico, un parco giochi ricreativo dove poter mangiare schifezze, un Gardaland dell’impegno politico mangereccio.

Chi compra il pacchetto e vorrà aprire l’attività dovrà stare alle regole imposte dall’ideatore, cioè alle mie regole. Eccole.

Ho una cugina che collabora con Ferrè e le divise da punkabbestia dei commessi le facciamo fare a lui. Tutte uguali, dieci modelli per ristorante, capi estivi ed invernali, gonne, pantaloni, felpe e magliette di cotone lerce ad hoc. Voi direte: «Fai prima a comprare al mercatino dell’usato,» e io vi rispondo che allora non ci avete capito un cazzo! Non andrebbe bene, non si percepirebbe la finzione del posto. Sarà anche grazie ai costumi disegnati appositamente che si potranno ottenere gli effetti desiderati, ossia: trascuratezza e degrado sociale ma contemporaneamente accoglienza e sicurezza.

I lavoratori per contratto dovranno portare almeno tre orecchini ed avere un tatuaggio visibile sul corpo. Ferie, indennizzi, tredicesime e tutto il resto: ‘fanculo. I contratti saranno a sei mesi e se sarai bravo e farai squadra te lo rinnoveremo e te ne faremo uno da dodici mesi, dove ci sarà scritto che ti pagheremo anche in caso di fallimento dell’azienda, non si sa come, ma questo è un dettaglio. Come nelle compagnie teatrali di De Filippo, tutti dovranno saper fare tutto, pulire i cessi e fare i panini, stare alla cassa e friggere le patatine. Per norma fissa si laverà il pavimento solo due volte al giorno, anche se cadrà merda per terra, ‘sti cavoli. Gli orari di pulizia del pavimento saranno alle ore 12:00 e alle ore 18:30, giusto per dare quel senso di sporcizia cadenzato. Stop. Per i cessi invece la pulizia sarà obbligatoria ogni quaranta minuti. I bagni dovranno essere sempre splendenti e profumati. La maggior affluenza per le famiglie al completo sarà naturalmente intorno alle 18:30, quando il pavimento sarà meno lercio, i figli avranno finito i compiti ed inizieranno ad avere i primi languori allo stomaco per via della fame. E quale spuntino migliore se non un bel panino da noi? O un gustoso trancio di pizza con delle patatine?

Come menù, niente Coca-cola e Pepsi, solo Freeway Cola, aranciata marca discount, vino rosso e bianco che però venderemo con moderazione, due bottiglie massimo a tavolata. Siamo pur sempre un posto per famiglie. La gente spenderà meno e noi guadagneremo di più. Piatti, bicchieri e posate saranno di plastica. Sticavoli dell’ambiente, qui si parla di soldi e di profitto. Ed il profitto con la tutela dell’ambiente sono due cose incompatibili, sono come l’acqua e la sabbia magica. Menù a base di cous cous, cotolette, pollo, patate al forno, salsicce, uova sode e frittatine multristrato ai gusti vari, pasticci di pasta avanzata dal giorno prima in offerta speciale, robe così, che sembrano fatte in casa ma che invece saranno sempre uguali. Porzioni perfette standard. Come le zeppole e le finte pizzette napoletane di Rosso Pomodoro. Fateci caso: sono tutte uguali, forme perfette. Se andate ai borghi di Napoli, le paste cresciute, per definizione, sono una diversa dall’altra, perché fatte a mano, non con un macchinario che dosa porzioni ed ingredienti. Naturalmente non mancheranno dolcetti e gelati e poi, sempre nel nostro menù, ci sarà la novità delle novità: il piatto sorpresa a un euro, formato dagli avanzi del cibo degli altri clienti. Un po’ come le buste sorpresa che si vendono in edicola, noi daremo il piatto sorpresa. Con un euro potrai mangiare un bella porzione mista composta di ogni ben di dio avanzato: patate, pasta, pollo, carne da rosicchiare attorno ad un osso, fette di pane magari smozzicate (le verdure no, che quelle dopo qualche ora vanno a male e non si possono riscaldare). Insomma con un euro avrai un pasto quasi completo, così non si butterà mai nulla e di questo anti-spreco ne faremo una bandiera.

Area giochi per i bambini: ci sarà eccome! Del resto deve essere un fast-food per famiglie. Quindi: Scivoli pezzati ad arte che terminano in enormi cubi trasparenti con all’interno centinaia di palline colorate. Colori approvati per le palline: rosso 30%, viola 25%, nero 25%, verde 5%, celeste 5%, giallo, 5%, bianco 5%. Stop.

La musica del locale dovrà includere solo ed esclusivamente brani commerciali di artisti alternativi. Si potrà inserire anche un Frank Zappa ogni tanto, i Clash vanno benissimo, ben accetti Subsonica, Caparezza, Frankie Hi Nrg, Cristina Donà ma anche artisti più underground come Il teatro degli orrori, Le luci della centrale elettrica, I giardini di Mirò e poi tutte le posse italiane e la scena indipendente nostrana e mondiale, basta che però si prendano i brani più “moderati” dei cd selezionati. Tanto c’è sempre un brano d’amore, una canzone tranquilla, un pezzo “commerciale” ed orecchiabile anche in un cd di KaosOne o dei Biohazard. Ottimo naturalmente il trash italiano ed il revival anni ’80 ché quello va sempre forte, soprattutto per i bambini che ascolteranno le sigle dei cartoni animati ed i motivetti orecchiabili delle canzoncine Mediaset e RAI. Nessun riferimento esplicito a sovversioni ed uso di droghe, e vedi come si digerisce tranquilli! Il gioco è semplice: basterà selezionare i brani i cui video sono stati trasmessi in televisione o in qualche emittente radiofonica nazionale anche a tarda notte. Il cliente dovrà riconoscere il suono come familiare, anche se non lo identificherà appieno, anche se questo suono è un parente lontano che magari hanno intravisto una sola volta al funerale dello zio.

Questione scenografia. Si ingaggeranno per ogni regione i migliori writers italiani e le mura del locale saranno dipinte da loro. Pezzi standard che però cambieranno da locale a locale. Stesso pezzo ma diversa firma. Ci sarà una sorta di “concorso” dove ogni artista proporrà delle bozze, il migliore per ogni regione verrà ingaggiato per dipingere gli interni del locale. Si dovrà arrivare al punto che un ipotetico cliente di Milano che se ne va in vacanza a Roma, dovrà mettere nella sua personale lista di cosa da fare anche “visitare Spazio Sociale in via Cavour”. Si dovrà arrivare a questo. Dovrà essere una sorta di museo con ristorante.

Beh insomma, l’idea è semplice e secondo me ci si può fare un botto di soldi, alla faccia dei centri sociali occupati. Occupiamo anche noi gli spazi, riprendiamoceli, riutilizziamoli, ricicliamoli a modo nostro. E non preoccupatevi se eticamente può sembrare scorretto. È solo marketing. La vita è un’altra cosa.

Angelo Zabaglio e Andrea Coffami

Les nouveaux anarchistes. Atti intollerabili di disperazione a Bologna

Les nouveaux anarchistes. Atti intollerabili di disperazione a Bologna (Transeuropa, 2010)

di Piero Pieri

Il nuovo romanzo di Piero Pieri, raffinato scrittore e poeta della generazione post-tondelliana e docente universitario dal 1980, può essere paragonato a certi liquori, che sollecitano piacevolmente il palato per tutto il tempo che si ha il bicchiere alle labbra; posato il bicchiere, lasciano un senso di nausea… Il paragone mi sia perdonato, ma ad un testo cinico e spietato (per ciò che vi si narra) va fatta una critica per via di quelle immagini crude e situazioni rivoltanti che accadono all’interno del «mondo marcio e dorato dell’accademia» (p. 21). Ecco, dunque, un romanzo-dossier sulla fauna giovanile universitaria, rappresentata dall’autore nelle sue fragilità, precarietà, miserie. Les nouveaux anarchistes è il racconto di futuri abortiti, di generazioni fallite, di parti ideologici mai portati a termine, della nascita di un nuovo e possibile movimento anarchico-insurrezionalista.

La trama si snoda tra le vicende di un gruppo di amici, fuorisede a Bologna in via Fondazza: Renzo, assegnista al Dipartimento di Filologia moderna; Gian, studente fuoricorso del DAMS e pittore scadente; Elena, chiacchierata ricercatrice di Letteratura italiana; Carla, giovane studentessa innamorata di Paolo, associato di Sociologia della letteratura. I loro destini si intrecciano più di quanto loro immaginino. Prendendo come campione l’ateneo di Bologna, il romanzo smaschera un mondo deviato, corrotto e meschino, dove le varie forme di precariato generano disfacimento morale e scelte autodistruttive: droghe, stupri, delitti, suicidi e pratiche sessuali come compromesso o risarcimento. In una realtà che agonizza, fatica perfino ad affermarsi l’azione politica eversiva, perché il vuoto generazionale che caratterizza ormai una sempre più diffusa disperazione giovanile porta ad imitare sterili modelli passati (il ‘68 e il ‘77). La rivoluzione non può funzionare se coloro i quali manifestavano nel Sessantotto sono ancora ingombrantemente seduti sulle loro poltrone assieme ai loro inguaribili vizi: «la mediocrità galoppa in questa italietta di furbi e maneggioni» (p. 16); il prof. Simonetti «non ammette deviazioni dalla sua linea programmatica» (p. 19); «Lei lo sa che fine hanno fatto quelli del ‘77? È una generazione di cui non si sa nulla. Se ho ben capito non sono nei posti di potere» (p. 43). Pieri rivolge la critica più feroce al mondo in cui egli stesso lavora e lo fa senza peli sulla lingua: cattedre in cambio di sesso, sfruttamento dei precari senza garantire loro prospettive, alleanze strategiche in nome di ipocriti e convenienti giochi di potere. È la solita storia. Ci sono regole non scritte che vanno rispettate: «Cosa ti aspettavi, idiota? Questo è l’ambiente che ti sei scelto, gonfio e putrido come tutti i luoghi di potere» (p. 132).

La violenza nelle sue innumerevoli forme è la protagonista indiscussa del testo: attacchi di panico, malattie fisiche che fanno da contorno a nausee intime, maternità impossibili, stupri programmati alla vigilia delle elezioni per spostare a destra il voto, generazioni tradite nei sogni e nelle aspirazioni. La narrazione si evolve lungo tre quaderni di gramsciana memoria, intervallati da appunti operativi (intermezzi di riflessione politica e sociale), cartelli letti in chiesa (posti alla fine di ogni capitolo, si basano sulla provocazione polisemica della lingua e rivelano un sarcasmo pungente), file segreti ad uso interno sugli avanzamenti di carriera, mail, intercettazioni telefoniche, lettere mai inviate, blog. Les nouveaux anarchistes è un romanzo affollato di nomi e cognomi, di marche pubblicitarie, di luoghi pubblici e social network, di oggetti che metabolizzano i sentimenti dei protagonisti, di arredi che incarnano esemplarmente i destini di alcuni personaggi (la sedia, il lenzuolo). La trama è volutamente “torturata” e narra le vicende di un precariato intellettuale «ricattabile, incapace di immaginare il futuro, costretto a regole del gioco mutevoli e comunque inaffidabili» (definizioni dello stesso autore). Come dire, che la strategia della tensione si percepisce già prima che i sassi diventino coltelli. Gian e Renzo vengono arrestati e picchiati dalla polizia perché sospettati di spedire pacchi bomba in Sardegna. Poco importa che non sia vero; dopo qualche mese di carcere verranno liberati. Ma la fine di ogni illusione è ormai certa. Nessuno si salva: «le università non vanno riformate, non vanno ricostruite da zero, non vanno neanche rivoluzionate. Le università vanno fatte brillare» (p. 133). La voce narrante si svela nel secondo quaderno ed esce allo scoperto soltanto alla fine del romanzo, ma nei suoi appunti operativi indica alle generazioni future la strada da seguire proiettandosi «istantaneamente nell’era post-apocalittica», quando tutto sarà saltato in aria.

Vale la pena soffermarsi, per un attimo, sulle disavventure degli altri personaggi del romanzo. Microstorie e bozzetti umani ben tratteggiati nella loro inevitabile déchéance morale: Aurora Pace (matricola del DAMS calabrese con una malattia auto-immune), Dominique (prostituta equadoregna venuta in Italia per investire il suo capitale), il dottorino della Dozza (imbastardito perché perennemente rifiutato a causa del suo aspetto fisico), Rita Zamboni (la vera anarchica che commette un delitto).

Una scrittura travolgente, cinica e liquida, che ha la capacità di imprimersi a fuoco nella coscienza di chi legge. Il linguaggio è crudo perché, come si diceva in apertura, cruda ma tremendamente vera e attuale è la realtà che si mette in scena. Il sottobosco intellettuale non sta più a guardare. Il potenziale giovanile non può concretizzarsi in eccellenti ricerche di qualità o in sistemi meritocratici. Le randellate scientifiche fanno più male delle botte dei poliziotti. La potenza rivoluzionaria della giovinezza infila la strada della Grecia. Avreste mai pensato che la rivoluzione potesse nascere da un frustrato precario universitario? Io si…

 

Stefania Segatori

La tessera

Scoreggiai di riflesso sul finire di quella telefonata. L’aria calda sciolse per pochi istanti i muscoli un po’ intirizziti dal primo vero freddo invernale, e distolse i pensieri dalle chiacchere inutili di cui Frasko stava iniziando a indurirmi la testa. Fu solo mentre riagganciavo che intuii di aver potuto suscitare qualcosa di interessante nei sensi primari del tipo che aspettava l’autobus dietro di me; voltatomi mi offrì un’occhiata trasversale.

Lasciai la fermata dove avevamo concordato di incontrarci e decisi che avrei proseguito a piedi. Al passo spedito che quella sera di fine novembre richiedeva, non ci sarebbero voluti più di una decina di minuti. C’eravamo dati nuovo appuntamento direttamente in S. Lorenzo.

Iniziò a piovere, ormai non ci facevo più caso. Fin dall’adolescenza non avevo mai amato molto gli ombrelli. Strumenti con cui la borghesia si era popolarizzata e quindi si era diffusa. Come l’ascensore fino al terzo piano.

Arrivai con una buona mezz’ora di anticipo. Non capitavo a Roma praticamente dagli anni degli studi. Erano gli anni della Pantera, quando per l’ultima volta i giovani si erano ricordati che si può costruire tutto quello che si può immaginare. O almeno ci si poteva andare vicino.

Anche il quartiere di S. Lorenzo lo sentivo diverso, proprio nel suo sembrarmi rimasto uguale per molti aspetti. Stessi riferimenti politici, stesso tipo di scritte sui muri, stesso tipo di locali. Ritrovavo alcuni di quelli che erano stati i luoghi più importanti e significativi dei miei vent’anni. Avrei dovuto esserne entusiasta, e d’entrata lo ero al riaffiorare di ricordi vivi, belli per lo più, che erano rimasti appiccicati agli angoli di quelle strade. Solo che vedere quei luoghi così simili nell’essersi trasformati, a distanza di vent’anni e sapendoli essere stati prima altrettanto simili e diversi per almeno altrettanti anni, defluiva il mio entusiasmo in un senso latente eppure nitido a tratti, di spettacolo, rappresentazione. E mi puzzava.

Almeno i ragazzi, abbivaccati ancora come una volta a quell’ora in p.zza dell’Immacolata, pur nell’eterno ritorno della festa sembravano avere altri segni, altri simboli, altre maschere. Sì, in fondo doveva essere spettacolo anche quello. Fu l’ultimo pensiero che mi passò per la testa prima di infilarmi nel primo locale che mi capitò a tiro.

Mi avvicinai al banco con l’idea di aspettare Frasko là dentro. Non c’era molta gente seduta ai tavoli di quel martedì sera, l’ambiente ideale per rincontrare un vecchio amico senza restare intrappolato nella tela dell’esistenza.

«Vorrei una chiara media, grazie».

La ragazza era piuttosto grassoccia e aveva l’aria di una che era stata messa lì da poco tempo.

«Sì, guardi, noi siamo un club, se è la prima volta che viene da noi le faccio subito la sua tessera personale, non costa niente, è assolutamente gratuitaecco qua guardi, compili nome e cognome, dati personali»

Impossibile trovare il punto in cui spezzare il discorso. Aspettai inchiodato che finisse.

«Guardi, io veramente non sono della zona, passavo soltanto per prendere una birra e aspettare un amico, ma me ne vado domani, non credo convenga né a me né a voi farmi una tessera che poi non riutilizzerei»

La ragazza sembrò per un attimo non sapere bene cosa dire. Poi riattaccò.

«Guardi, noi veramente siamo un club, se vuole consumare devo prima farle la tessera, non costa niente e può riutilizzarla in qualsiasi momento, oppure rinnovarla sempre gratuitamente».

Mi liberai con pochi convenevoli.

Improvvisamente mi accorsi di quanto fuori facesse freddo. Sentivo avvicinarsi la mia stagione preferita, l’inverno. L’unica dove il lento morire nel divenire del tutto rendeva veramente indispensabile far traboccare le energie del corpo e della mente, e quindi l’empatia col Mondo.

Cercai subito un altro posto lì vicino dove andarmi a rintanare.

Stavolta non dovetti fare neanche la fatica di arrivare al banco. Appena varcata la soglia mi incalzò un ragazzo dal volto inutile più dei suoi capelli a spazzola, seduto dietro a un tavolino.

«Buonasera, ha già la nostra tessera oppure»

Non gli detti neanche il tempo di finire il preambolo. Feci finta di guardarmi un attimo intorno, poi girai i tacchi e me ne andai.

S. Lorenzo. Il quartiere storico della Resistenza romana. Il quartiere della contestazione studentesca e della cultura alternativa. La Kreuzberg italiana. La “normalizzazione” aveva funzionato alla grande. Tutto assumeva ora chiaramente i tratti di una grande rappresentazione programmata per andare in scena ogni giorno, magari cambiando ogni tanto un po’ di allestimento e di sceneggiatura, qualcuno dei suoi protagonisti e delle comparse, purché restasse costantemente invariata la trama di fondo. Sì, adesso improvvisamente era tutto molto chiaro.

Ma ci vogliono almeno tre prove per sentenziare un colpevole, pensai. Stavolta però decisi che avrei buttato prima un occhio all’insegna del locale, pensando forse inconsciamente di potervi leggere dietro nascosta una trappola o meno.

“La burrasca”. Avevo preso per una strada secondaria. Se mi vogliono schedare anche qui, mi dissi giuro che ringiovanisco di vent’anni e rispolvero uno dei buon vecchi sit-in di disobbedienza civile.

Non feci in tempo ad arrivare al banco neanche stavolta. Stesso tavolino a ridosso della soglia, stesso garzone inutile appostato di sentinella.

«Salve, ha già la nostra tessera o»

«Senta, non la voglio la vostra tessera del cazzo, sono qui solo per aspettare un amico, non prendo neanche niente da bere se necessario, mi basta potermi mettere a sedere e aspettare dieci minuti. Dieci fottuti minuti che arrivi il mio amico per ripararmi dal freddo assassino che c’è la fuori, capisci? Nient’altro».

Aveva i capelli neri rasi, il capo stondato e gli occhi ignari di un ragazzo di vent’anni.

«Veramente signore la consumazione all’interno del locale sarebbe obbligatoria.. e poi il tesseramento lo dobbiamo fare anche per semplice permanenza in esercizio privato, per la questura insomma»

Avevo voglia di vomitare. Al mio paese in provincia di Treviso c’era molta più libertà di movimento.

«Senti guarda facciamo così: io mi metto a sedere senza ordinare niente e aspetto che arrivi il mio amico. Appena viene facciamo insieme questa benedetta tessera e ci beviamo qualcosa, ok? Oppure ce ne andiamo».

Il garzone alzò le spalle in segno di impotenza. Andai a sedermi a un tavolo per due, ma mi accorsi che mi gettava qualche occhiata ogni tanto. Squillò il telefono. «Frasko!Pronto! Sì, sto qua, sono ad un locale che si chiama “La burrasca”, lo conosci? Ah, okperfetto allora ci vediamo qua fra cinque minuti»

Il garzone continuava a tenermi d’occhio, ed ebbi la sensazione che avesse allungato l’orecchio durante tutta la telefonata. Mi alzai per andare al bagno.

La porta del cesso unisex di quella bettola rivestita di legalità non si chiudeva nemmeno. Mi ricordai non senza una risata cretina, che con Frasko ci eravamo conosciuti proprio dentro un cesso come quello. Io strippavo sconfitto da una serata in cui avevo scommesso col proprietario che mi avrebbe lasciato in gestione il locale se mi fossi scolato un’intera cassa di birre entro chiusura. Lui, Frasko, passava solo per fare quel che stavo facendo io adesso.

Fui interrotto bruscamente nel mio sforzo muscolare al basso ventre che ancora me la ridevo, una ragazza aprì senza guardare pensando di trovare libero. La smorfia che ne uscì fuori l’istante che mi voltai non doveva essere rassicurante, a giudicare dal raptus con cui la biondina richiuse. «La decadenza della civiltà occidentale,» diceva un vecchio filosofo, «si vede anche da come la gente sbatte le porte».

Uscii tirandomi su la zip e lasciando via libera alla bionda. Il gabinetto dava sulla sala principale. In mezzo, un uomo ben piazzato con un lungo cappotto scuro tentennava guardandosi attorno circospetto. Aveva indurito i lineamenti del volto e di tutta quella sua cenestesi che già all’epoca sapeva incalzare le assemblee e i cortei di protesta. I pantaloni di jeans un po’ attillati, il maglioncino in stile casual rigato orizzontale, la barba fatta e i capelli corti tagliati con cura; tutto adesso in lui contribuiva a dare un senso di apollineo a quel ragazzone di borgata che avevo conosciuto come un impareggiabile compagno di sbronze.

«Frasko!»

Aprì a un sorriso contenuto il suo volto laconico senza dire niente. Ero troppo su di giri nel vederlo così, in quello stesso quartiere, dopo tutti quegli anni in cui non ci eravamo più nemmeno sentiti per telefono, prima di beccarci su Facebook qualche mese prima quando per la cooperativa di teatro sociale ero stato praticamente costretto ad aprirlo.

Era proprio lui, Frasko. Sì, doveva essere pur sempre lui dentro quei panni, e sotto il peso di quei due decenni che in un istante sembravano essere durati un’eternità. E sì che a colpo d’occhio non sembrava neanche tanto invecchiato.

Istintivamente inscenai una scazzottata. Sapevo dentro di me che era l’unico modo per potersi salutare autenticamente, e dirsi che tutti quegli anni ce li scrollavamo di dosso in pochi gesti. E lui rispose per le rime, come ai vecchi tempi.

Simulai un paio di dritti al volto che egli schivò con premura, poi un gancio allo stomaco con cui contrasse l’addome senza però scomporsi più di tanto. Capii subito che non era più lo stesso. Spontaneamente mi venne da chiudere quel siparietto ormai ridicolo con un vero colpo, simbolico, alla spalla, accompagnato da un sonoro «come va!»

Partì il rovescio che egli cercò ancora una volta di schivare d’istinto con un braccio, in un movimento però innaturale, quasi fosse abituato a dover proteggere qualcosa a quell’altezza. Il pugno decollò scheggiando l’arto proteso e schizzò via come un’anguilla, andando a fracassare brutalmente proprio in mezzo al faccione ancora stentatamente sorridente di Frasko.

Non ci vedevamo proprio da un bel pezzo, Frasko ed io. L’ultima volta era stato in un posto come quello, e il suo saluto di allora aveva la stessa forma del mio adesso, ma molta più veemenza. Dietro c’era una storia con una certa tipa, che poi col tempo sarebbe diventata quella che era ancora la mia compagna attuale, e il mio brutto vizio di voler liberare la gente dal senso piccolo borghese del privato. Il tutto si intrecciava a quello che all’epoca, non privi di una certa eccitazione da intellettuali radicali, chiamavamo «il nuovo ruolo possibile autodeterminato della donna all’interno della lotta più complessiva per l’emancipazione della classe operaia e lavoratrice in generale»; e ad un vecchio slogan, credo fosse degli anni ’70, che qualcuno dei nostri non aveva trovato niente di meglio da fare che rispolverare per l’occasione; diceva:

Non c’è niente di più tristo del maschio femministo. Vedi Cristo.

Barcollò un paio di passetti all’indietro prima di ritrovare l’equilibrio in fondo all’inerzia su quel destro stregato, ma tutto sommato rimase abbastanza composto anche stavolta.

«Oddio Frasko, bello, scusami, non l’ho fatto apposta; mannaggia che figu»

Rimasi qualche istante piegato in due sullo stomaco a capo chino, poi subito stramazzai a terra senza riuscire in alcun modo a respirare.

Tutto intorno nel locale era calato un silenzio tombale. Solo nel momento in cui ebbi la chiara percezione che sarei morto asfissiato, riuscii ad iniziare a inalare un po’ d’aria.

E mentre rantolavo con i crampi allo stomaco per il colpo da maestro che mi era stato inferto, una sola parola si eresse pesante come un macigno sopra quel silenzio, rivolta con ogni probabilità al garzone appostato all’entrata dietro il tavolino: «DIGOS».

Così mi sistemai anche per la notte, e sì che stavo per chiedere a Frasko qualche dritta a riguardo. Di tutto il resto, di vent’anni volati via in mezzo a due pugni, non volli dirgli o chiedergli niente neanche mentre mi accompagnavano in questura. Là dove erano iniziati, adesso avevano fatto ritorno, e in quegli istanti ci eravamo detti tutto.

Addosso avevo un diecino di ganja e anche un po’ di coca, cui andarono ad aggiungersi le lesioni a pubblico ufficiale e la retinenza alle norme di sicurezza del locale. Mi dettero un blocco di ventiquattro ore ma alla fine me la cavai verso metà giornata, convinto che il mio vecchio amico Frasko avesse voluto chiudere un occhio dopo essersi tenuto perlomeno il fumo.

Appena fuori avevo voglia di farmi una birra e mi andai ad infilare nel primo posto carino che incrociai. Conservo gelosamente la tessera nel portafogli dietro la carta d’identità. Convinto che prima o poi riuscirò ad avere in omaggio almeno la maglia

Don’t drink water, fish fuck in it.


Eduardo Olmi

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 17

[continua da qui]

Rubare le parole al Presidente, si era detto in principio; ma quali reali intenzioni si nascondevano dietro questo slogan da letterati dell’ultim’ora?

La maggior parte degli opinionisti pensò subito a un tentato rapimento, magari condito da rivendicazioni filmate e videointerviste; insomma, a una guerriglia combattuta con le stesse armi del potere mediatico tanto inviso a questi intellettuali del precariato.

Vorrei soffermarmi un poco su questo concetto, prima di passare alle altre ipotesi, poiché non è affatto roba di poco conto. All’epoca c’era chi ancora non accettava come “naturale” questa condizione d’instabilità lavorativa – e molto spesso, a rimorchio, anche sentimentale e psicologica: c’era cioè chi si prefiggeva ancora di ridare una coscienza di classe, o almeno una sua parvenza, a un insieme eterogeneo di persone. Per la prima volta, ad esempio, cinquantenni e ventenni si potevano ritrovare nella stessa poco invidiabile condizione – per chi ancora si ricordava dei posti sicuri nelle aziende e nel pubblico impiego – di dover firmare contratti brevi, anche della durata di poche settimane. A nessuno balenava in testa, all’epoca, che a essere poco “naturale” fosse l’ipotesi di uno stato che come una madre potesse continuare a nutrire a ufo i propri figli, né che l’uguaglianza fosse roba buona solo per i filosofi, poiché l’uomo è avido ed egoista, e di questa stessa risma sceglie i propri governanti.

Ancora legati a un’utopia di stampo tardo ottocentesco, questi scribacchini non intuivano che da tempo il mondo avesse già preso altre strade, e s’incaponivano per questo di riportarlo sulla retta via, a costo di dover ripercorrere all’indietro un cammino già lungo di decenni. Essi non si arrendevano all’ipotesi vincente, e convalidata col sangue nel corso di tutto il Novecento, della selezione naturale, dello spietato darwinismo che si rendeva necessario corollario del capitalismo. Sarebbe bastato loro di rileggere il Leopardi per arrivar più lontano di quanto potessero fare le loro stesse gambe, ma anche volendo, il vizio dell’ideologia avrebbe impedito loro di aprire gli occhi dinanzi alla realtà.

Come non considerare la letteratura roba buona solo per oziosi, quando quest’ultima si compiace a prescindere di difendere gli ultimi e i bighelloni? Quando si batte per un immobilismo sociale che equivarrebbe a un ristagno culturale?

Ecco perché suona strana l’ipotesi del rapimento o dell’attentato; perché una banda di siffatti rammolliti non sarebbe stata in grado né di pianificarla, né tanto meno di eseguirla.

Più verosimile risulterebbe invece la teoria del confronto pubblico col Presidente, attraverso un tentativo, seppur violento, di appropriarsi di una cassa di risonanza tale da acquisire quella visibilità che non avrebbero raggiunto attraverso i loro libri.

Essi ambivano quindi ai microfoni e alle telecamere di uno studio televisivo? Erano, cioè, davvero così sicuri del loro armamentario verbale da cimentarsi in uno scontro – per la verità ben poco democratico, visto il rapporto di uno a cinque – con quello che molti ormai ritengono – e lui stesso concorderebbe con l’interpretazione – lo statista, nonché comunicatore, più importante di tutta la gloriosa storia del nostro stivale?

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 7

[Leggi qui le puntate precedenti]

Ora, stando agli atti del processo gli è che il bubbone metifico – quello che lor poeti definirebbero invece sacro fuoco, o volontà di potenza, perché troppo si vergognano a chiamarlo col suo termine più proprio: ovvero un ego smisurato – insomma, quella cosa lì, crebbe a dismisura dopo una prima tappa sperimentale nella città partenopea, dove gli entusiasmi ribollirono a tal punto da convincere una signorina lì di passaggio a indirizzarli verso un luogo il cui nome ben si adattava alla veritiera natura dei cinque declamatori. Questo luogo si chiamava – e presuppongo si chiami tutt’oggi, poiché non compare nel registro degl’indagati – il Perditempo: un posto dove vennero accolti come cantori di un nuovo mondo, in modo così inaspettato che rimasero basiti davanti a chi porgeva loro in dono calici traboccanti di bevande senza che neanche vi fosse stata esplicita richiesta (quando invece, solitamente, erano costretti a far la questua per ottenere almeno un cicchetto omaggiato per sciaquare l’ugola dopo tanto profluvio di parole). Uno di loro poi, quello che si vantava dei suoi natali etruschi – che però era finito guardacaso a Roma per fornicar con le parole – finì talmente ciucco da concludere la serata con una barzelletta toscana; ché ci vorrebbero delle foto solo per vedere le facce tutte da ridere dei discendenti di Pulcinella, da immaginarsi con le orecchie protese e le mascelle spalancate nel tentativo di carpire qualche ci aspirata e inghiottita insieme ai sorsi di limoncello di Sorrento che il sommo vate trincava tra una frase e l’altra.

È di quei giorni lì la prima voce di una possibile alleanza extracapitolina, in cui sembrò confluire una misteriosa brigata partenopea, composta di scrittori dialettali e non, che spingevano per goder dei fasti di un nuovo 7 settembre*, per poi ritirarsi anch’essi, da veri intellettuali, senza ricompense e in qualche sperduto loco**.

Ad onor del vero quest’unione non s’ebbe poi a fare, e rimane una delle zone oscure di tutta questa stramba processione che vide le parole uscir dai loro ranghi come insubordinati non ligi agli ordini. Il dilemma non è affatto di poco conto, ché la risposta potrebbe confermare i legittimi dubbi sulla reale unità d’intenti tra i nostrani spadaccini di penna, soprattutto alla luce dei documenti recentemente resi noti dalla commissione di vigilanza web, dai quali emergono polemiche e risse verbali all’ordine del giorno tra questi tutori della cultura, che in quanto a ferir di lingua non sembravano da meno dei tanto vituperati giornalisti.

Insomma, stando ai prodromi si potrebbe oggi asserire che il piano partì già bello che zoppo, nonostante i facili entusiasmi che accompagnarono i cinque briganti durante il viaggio di ritorno in seconda classe, soprattutto quelli del poeta imbrattatore di mura, che fantasticava il buon ritiro in quel di Ausonia, ma solo dopo aver compiuto il suo dovere civico verso l’irriconoscente patria, che si burlava ancora una volta del coraggio dei proprio figli.

Il dado era tratto e i cinque si apprestavano a render giustizia non soltanto a coloro che già si organizzavano per l’espatrio, ma anche a chi, accerchiato dalla cultura dell’aggressione verbale, si accingeva mestamente ad alzar bandiera bianca: essi vollero dare esempio di strenua resistenza dinanzi a chi voleva accorciare la lingua italiana ai suoi minimi termini, per riportarla invece ai fasti, alla ricchezza e alla musicalità a lei più congeniali, proprio come ai tempi del Gadda e del Landolfi.

Simone Ghelli

* Il riferimento è alla conquista della capitale del Regno delle due Sicilie, dove Garibaldi fece il suo ingresso il 7 settembre del 1860, per poi sconfiggere le truppe del re Francesco II che si erano ritirate a nord del Volturno.

** Dopo aver accompagnato il re Vittorio Emanuele II a Napoli, l’8 novembre del 1860 Garibaldi si ritirò sull’isola di Caprera, rifiutandosi di accettare qualsivoglia ricompensa per i suoi servigi.