Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 9

A Roma ho recuperato una mia vecchia tastiera da collegare al portatile, ma dopo una settimana non sono ancora riuscito ad abituarmi, sono lento, le dita si muovono con fatica e incontrano una durezza che ricorda i tempi – sarà stato dieci anni fa – in cui adoperavo la macchina da scrivere di mio nonno. Mi ci vorrà un po’ per abituarmi, inoltre nella settimana messa alle spalle ho scritto poco, quasi mai al computer e di rado su internet. Ho usato per parecchi mesi, prima di comprare il portatile nuovo, due anni e mezzo fa, questa tastiera con cui devo entrare in confidenza. È il secondo pc a cui faccio saltare i tasti, al vecchio saltarono prima la L e poi la A. La tastiera che ha perso la O era la migliore che avevo trovato, dovrei trovare qualcuno che riesca a ripararla.
Come vi dicevo la scorsa settimana, sabato sono stato a Lucca Comics Leggi il resto dell’articolo

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Suonare il paese prima che cada

Suonare il paese prima che cada (Agenzia X, 2011)

a cura di Andrea Scarabelli 

Sceglie un campo minato Andrea Scarabelli con il suo Suonare il paese prima che cada, un focus, un’analisi sulla musica indipendente italiana degli anni zero, il decennio più controverso da Rock around the clock in poi. E Andrea, 28 anni, sceglie di far parlare, in primis, loro, i protagonisti, o almeno una buona rappresentanza della scena indipendente nostrana, che sviluppa una nuova generazione di musicisti, povera di mezzi, ricca di determinazione e di talento musicale e poetico. Leggi il resto dell’articolo

Il futuro della scrittura collettiva

Vorrei partire dicendo che lo spunto per queste considerazioni nasce dalla conoscenza del progetto SIC di Magini e Santoni. In base a quanto m’è sembrato di capire di quel che ho potuto leggere, ho avuto l’impressione che il SIC si regga sui propositi di due (o chissà quante) persone preparate e appassionate: a differenza di molti altri progetti di scrittura collettiva attualmente in circolazione (spesso solo sussiegosi, tirannici o confusionari: decisamente scrittura truffaldina), Magini e Santoni hanno messo a punto un sistema logico, trasparente e – dote rara e preziosa – ragionevole. Posso non condividere i loro scopi e i loro presupposti, ma non posso non apprezzare la “gentilezza” con cui il SIC è strutturato: ognuno può, seriamente, contribuire grazie alla oggettività della “scheda”. E questo a me pare un contributo genuino alla scrittura. Trovo altresì che la presenza di un Direttore Artistico che esoneri l’autore dalla “integrabilità” sia salutare e azzeccata come soluzione organizzativa, mi preoccupa solo la sua importanza nodale: da lui dipendono davvero troppe cose, è lui che decide se un’idea è buona o no, quindi c’è da sperare solo che sia capace e intelligente. Infine è ottimo che ogni scrittore possa trovare il proprio utilizzo in base alle sue peculiarità. Stupendo. Detto ciò proverò a occuparmi, nei limiti di spazio e capacità, di questo argomento più in generale. O, meglio, a fare delle domande a cui non ho trovato una risposta. Leggi il resto dell’articolo

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /3

Facebook ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo percorso.
Dopo il cellulare – dove le chiacchiere si sprecavano e le parole reiterate si svuotavano di senso – è arrivato l’sms, che ha dato la possibilità di rispondere in differita ponderando la cosa da dire.

All’sms, però, bisognava rispondere comunque entro un certo tempo per non perdere il filo del discorso. Quindi, comunque, questa possibilità di riflessione, era contingentata. Il problema viene aggirato da msn: il discorso rimane scritto e c’è la possibilità di rispondere anche dopo ore senza che il bottaerisposta si sia incrinato.
Anche in questo caso, però, c’è un limite di tempo, benché molto elastico: si deve rispondere prima che il computer sia spento. Cosa permette di allungare ulteriormente i tempi di risposta? Ovviamente FB.

FB rappresenta la possibilità di scrivere qualcosa senza porre limiti di tempo alla risposta e senza consumare troppe parole inutili: è un messaggio coinciso che ti lascia tutto il tempo di riflette.

Da un certo punto di vista ricorda molto il protagonista di uno dei fenomeni recenti dell’arte, cioè il graffito. Con l’ingresso delle pitture murali urbane nei musei l’establishment della critica ha sancito la legittimità espressiva di questo modo di comunicare: quello che conta è la brevità (cioè l’assenza di chiacchiere inutili) e la differita (cioè il tempo di riflessione prima della risposta).
Anche FB oblitera l’inutilità (non devo più contattare il mio interlocutore con la classica frase«Come va?»: so già come gli va perché leggo il suo status. Non devo sapere chi è il mio interlocutore perché lo vedo) e lascia decantare la risposta (c’è sempre tempo per scrivere sulla “Bacheca” o, come recita la versione inglese di FB, sul “Wall”).

FB, così come il graffito e il crescente interesse per le materie filosofiche, è il tentativo di restituire un brandello di “necessità” alle nostre esternazioni. Per troppo tempo i discorsi si sono annullati nell’eterna reperibilità del cellulare, nel chiacchiericcio delle ciance da telefonata; per troppo tempo le parole sono state esposte all’eterna reiterazione della comunicazione “pornografica” dei mass-media.
Libertà, democrazia, amore, felicità: la ripetizione non ha fatto altro che uccidere il valore di queste parole, ma come ogni cosa, alla lunga, anche le parole stancano. Bisogna, quindi, astenersene per un po’: bisogna che si lasci loro il tempo di fiorire, di recuperare il loro spessore.

Il prossimo passo è, come già accade in Giappone, l’invio di mail attraverso il cellulare al posto dei canonici sms: mi basta un quarto d’ora per scrivere una mail, magari mentre sto andando a lavoro sui mezzi pubblici o mentre sono in pausa pranzo. Cerco di articolare il mio pensiero affinché le mie parole non diventino, come ogni cosa nel consumismo, spazzatura.

E quello dopo ancora quale sarà? Perché non il ritorno alla scrittura manuale?

Pensiamo alla diffusione dei moleskine, simbolo della necessità di avere con sé una sorta di diario in cui sia la propria grafia e non l’aridità di un font a scandire il ritmo delle emozioni.

I modelli di penne si moltiplicano e se ne trovano di ogni colore, perché oltre alla mia grafia anche il suo colore deve gridare il mio stato d’animo.

In questo modo ogni cosa che scriviamo diventa più personale, autentica dichiarazione dell’Io, della soggettività, tutt’altra cosa rispetto al template preconfezionato di una piattaforma.

FB è, in un certo senso, l’artefice di questo. Se prima costruire il proprio blog in Internet era un modo per parlare con tutti delle proprie emozioni, ora è FB a farlo a mio nome in modo efficace: il mio volto e il mio status si offrono al mondo, io sono in Rete, ma a cosa se non al mio taccuino dovrei consegnare la ricchezza della mia interiorità?

Antonio Romano

la centoventotto rossa

Non mi è successo nulla di eclatante, davvero. Non mi sono fatto crescere la barba né ho dato fuoco al materasso, ho continuato a dormire dallo stesso lato e messo a posto poco, come prima. Prendevo il caffè con lo zucchero di canna e ho continuato, tra l’altro mi ci ha abituato lei. L’unica cosa che ho fatto di nuovo è stato iniziare a guardarla, con il morale in attesa: la seguo, non mi vergogno a dirlo, se mi vede non importa. Mi metto di fronte alla finestra della sua classe con la macchina e guardo in su dal finestrino, al terzo piano. Fortuna che passeggia mentre spiega così ogni tanto la vedo passare; sfortuna quando invece è nell’altra classe, quella che dà sul cortile, e allora devo sgusciare tra le aiuole per arrivarci, tenendo la posizione rasente al muro altrimenti il bidello si accorge di me. Ha comprato una gonna nuova, una settimana fa, a righe rossa e verde, trama scozzese, lana pesante; la indossa quasi sempre con gli stivali e sembra più bassa, le si vede la metà delle cosce, tranne quando mette il cappotto, perché è lungo e non si vede niente, purtroppo. Fa l’insegnante di geografia in una scuola media, al mattino; al pomeriggio si occupa dell’archivio della biblioteca, ma lì non ci entro: è al pian terreno ed io mi siedo al bar di Alessandro, la guardo dal tavolo quattordici.

Gli chiedo di tenermi sempre il solito tavolino, dalle quattro alle sei e mezza. Bevo un caffè, poi un tè, a volte un succo di frutta, mangio un pezzo di torta; Alessandro è bravissimo con le torte e le crostate. Poi vado a casa. Mi metto a leggere o ad ascoltare la sua voce di quando cantava, spesso m’addormento.

Da quando ci siamo lasciati, se non la sogno, mi sveglio prima del solito.

 

Annie and I broke up.

 

Sapete quel film, è di un regista americano con gli occhiali, buffo, adesso non ricordo il nome, l’ho visto una volta: inizia con delle storielle, lui le racconta guardandomi in faccia e a un certo punto dice: Annie and I broke up. In quel punto lì, per come lo ha detto, io ho visto quello che mi sta capitando, la mia stessa rassegnazione. Lui non sa da dove sia partita la crepa e nemmeno io, in effetti. Siamo uguali, io e il tipo del film.

La mia Annie, chiamatela pure con un nome qualsiasi, fate voi, la mia Annie ieri sera l’ho vista con un tipo alto e biondo, uno di quelli che mi piacerebbero mai, con il colletto della polo tirato su e i pantaloni stirati dal verso giusto. È entrata nella sua macchina come se non fosse la prima volta, nemmeno la titubanza di guardare se c’erano cose da spostare dal sedile o dal tappetino. E ci stava giusta, come se l’ultima volta quel posto l’avesse occupato proprio lei; aveva lo spazio per accavallare le gambe e per mettere la sua borsa, quella nera con due tasche ai lati, quella che porta ovunque. Sono andati a cena in un bel posto, con le candele.

Li ho seguiti.

Annie diceva sempre di non volerci andare fuori a cena, quando tornavo a casa. Io non gliel’ho mai chiesto in verità, ma lei mi sembrava non ci volesse andare: la trovavo già seduta sul divano con le gambe di lato o forse no, erano sul tavolino, o forse non era il divano, era la camera da letto, no lei non è una che mette i piedi sul tavolino, né sul divano, con le parole crociate e gli occhiali, lei non è una che usa gli occhiali se non necessari, lei proprio non è una da cena fuori ecco: lo avevo capito subito. Quel tipo non ha proprio niente a che fare con lei.

Abbiamo fatto un patto, io e Alessandro: io gli ho detto tutto, così non pensa male e non mi fa troppe domande: lui mi fa stare seduto al bar, ma io non devo dare di matto: c’è il rischio, alla lunga.

 

 

Niente alcolici pesanti al pomeriggio.
Tutto qui?
Sì.
Mi sta bene, io bevo solo birra.
Nemmeno quella.
No, va bene. La birra la bevo solo se sono passate le dieci.

 

Lui si chiama Luigi. Lavora con un mio amico in banca, nella filiale all’angolo di casa nostra. Cioè: mia. Si devono essere incontrati lì, mentre io non c’ero. Io non mi occupavo mai del nostro conto in banca: era lei che faceva sempre tutto.

***

Questo è l’incipit de la centoventotto rossa, lo puoi anche ascoltare qui: è più divertente, lo leggo io, un sacco di gente dice che sono capace e secondo me è venuto bene.

È la prima volta che faccio un libro mio, non ho aneddoti e storielle divertenti: per ora la mia scrivania è il tavolo su cui ceno, sta in cucina vicino alle scatole e i miei muri sono bianchi, piove spesso dentro al ripostiglio di casa, che poi è vicino a dove scrivo e mangio, ma per fortuna non si rovina nulla e ogni tanto la tastiera del mio mac, che si chiama osvaldo, si inceppa.

Elena Marinelli

 

Picassiana

Ero un Picasso e lei mi comprò ed il fatto che ero da un rigattiere non voleva dire niente. Era stata colpa di un critico d’arte che di me non aveva capito un cazzo. Si era fermato alla superficie, alla tela: al mio naso storto, al mio unico occhio, al mio cappello fatto di carta di giornale, senza riuscire ad andare oltre. Eppure era facile: bastava chiudere gli occhi della ragione e guardarmi con quelli del cuore, bastava insomma dimenticare per un attimo le regole della prospettiva per vedere la mia profondità.

La nostra vita è in mano a incompetenti, a sfigati del cazzo che non si sono mai domandati il perché delle cose, a segaioli che hanno sostituito le nozioni al bello, e una cosa è bella non perché… ma solamente perché è bella.

Lei mi appese nel salotto. Il suo appartamento era grande, al settimo piano di un palazzo nel centro di Parigi: due camere da letto, due bagni, una cucina e un salotto appunto. Nel salotto c’era la televisione via cavo, l’impianto stereo e un computer collegato a internet. Lei stava fuori tutto il giorno e io in casa guardavo la televisione, poi verso sera facevo la spesa e preparavo una bella cenetta per due a lume di candela. Lei mangiava sempre con le calze a rete e apprezzava tutto quello che le facevo. Aveva le unghie smaltate di rosso, i capelli castani e gli occhi chiari. Aveva il naso lungo con una leggera gobba, ma sul suo viso le stava bene, anzi io lo trovavo sexy persino di più dello smalto e delle calze a rete così, dopo aver mangiato, facevamo l’amore. All’inizio la sua figa era secca perciò gliela leccavo fino a che non si bagnava e il clitoride usciva fuori, a quel punto glielo infilavo: prima solo la cappella, andando lentamente avanti e indietro poi tutto il resto, sifonandola con forza. Lei urlava, mi graffiava la schiena, sembrava che il letto dovesse sfondarsi da un momento all’altro. Io continuavo fino a che non ce la facevo più. Lei godeva e io non venivo quasi mai ma godevo nel vederla venire, nel sentirla tremare accanto a me anche dopo aver fatto l’amore.

Nel mondo esiste un solo tipo di amore, quello egoista: quello che ti fa desiderare ciò che ami. L’amore che noi chiamiamo “divino”: quello che ti porta verso il bene senza il desiderio del possesso invece non esiste. Nemmeno Dio ce l’ha, perché dovremmo averlo noi? Dio ha solo l’eternità dalla sua parte e con essa può permettersi di aspettare il breve periodo della nostra esistenza senza romperci troppo i coglioni, prima di riaverci tutti con lui.

La mia vita andava avanti tranquilla e nel quartiere mi ero anche fatto anche degli amici.

Uno era un barista amante dell’arte, mi offriva da bere perché restassi nel suo bar: trovava chic avere un Picasso nel locale anche solo per qualche ora. Un altro era un barbone: un filosofo. Non diceva mai niente, restava seduto per terra e guardava la gente che passava. Io quando uscivo dal bar, gli portavo una birra e mi sedevo accanto a lui.

La gente corre e ha facce serie, magari girato l’angolo ride, scherza, è contenta ma per quei dieci metri di marciapiede sembrava volerti spaccare la faccia. Ma a me non me ne fregava niente perché sapevo che la mia vita era migliore della loro, almeno di quella che passavano in quei dieci metri, perché io vivevo in un bell’appartamento e tra qualche ora, dopo aver cenato con una bella donna ci avrei fatto l’amore e l’avrei sifonata così forte da sfondare quasi il letto e lei avrebbe goduto e tremato e mi avrebbe desiderato ancora di più.

Tu non cambi mai, dalla nascita alla morte sei sempre lo stesso, quello che cambia è solo il contorno: la casa, la macchina, il luogo in cui abiti, le amicizie, il vestito, il taglio di capelli ma tu resti sempre uguale. Ciò non comporterebbe nessun problema se ti accettassi per quello che sei, ma purtroppo nella maggior parte dei casi non è così e siccome non puoi cambiarti cerchi di cambiare gli altri.

E’ per questo che lei mi ridipinse il naso dritto, mi aggiunse un occhio e mi comprò un cappello nuovo. Io la feci fare perché l’amavo e poi tutto sommato ero venuto anche bene: ero diventato il ritratto dell’uomo che tutte le donne desideravano. Avevo anche trovato un lavoro in una azienda di import-export. Certo era un’occupazione che non aveva niente a che fare con le mie attitudini artistiche ma avrei fatto qualunque cosa per continuare a piacerle e restare con lei.

La sera però non avevo più tempo per prepararle la cena e lei non si metteva più le calze a rete, scopavamo poco e quando lo facevamo lei non godeva più.

Un giorno la pedinai. Era un giorno pieno di sole, con gli alberi verdi, il cielo azzurro e i turisti in calzoncini corti che fotografavano i monumenti. Io mi sentivo un punto nero in un poster pieno di colori.

La vidi entrare in una piccola galleria d’arte dietro Notre-Dame. Poi da una piccola finestra sul retro, vidi un Kandinsky spogliarla, leccarle la figa e scoparla a più non posso. Lei urlava gli graffiava la schiena sembrava che il letto dovesse sfondarsi da un momento all’altro………………..

Ritornai a casa, mi cancellai l’occhio, il naso dritto che mi aveva dipinto e mi rimisi il mio vecchio cappello di carta di giornale. Da quel giorno non l’ho più vista.

Ora vivo in un monolocale a Saint Germain des Prés ho avuto diverse valutazioni ma ancora nessuno che sia seriamente intenzionato a comprarmi. Così resto qui in cerca di un acquirente:

Lo vorrei di sesso femminile, tra i venti e i trent’anni, di bella presenza, alta, simpatica e intelligente, amante dell’arte e della buona cucina, possibilmente senza figli e con una buona posizione sociale.

Federico Mazzoli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 5

La partenza non fu certo delle migliori, anche se la preparazione fu certosina e richiese, stando alle testimonianze di certi vicini, diversi giorni di movimenti sospetti.

Il signor Tal dei Tali, ad esempio, giura e spergiura di aver sentito nell’appartamento sottostante (quello del leader del gruppo, e che negl’incartamenti viene definito “il covo”) strani rumori metallici, con molta probabilità corrispondenti al reiterato gesto di aprire e chiudere il tamburo di una pistola – ma qui andiamo nel campo dell’interpretazione, e difatti negli stessi incartamenti si annota anche del sospetto di un rumore prodotto piuttosto dallo scatto di un coltello a serramanico; per non parlare dell’assurda difesa dello scrittore di cui in oggetto, che insinua addirittura la presenza di un ossessivo ribattere sui tasti di una vecchia macchina da scrivere (come se ancora ne esistessero ai tempi di internet!). Proprio questa macchina da scrivere, di cui non si è mai trovata traccia a dire il vero, è stata poi assunta quale simbolo di una rivolta delle lettere che si è arenata al primo scoglio: quel potere economico a cui da sempre la letteratura finisce col genuflettersi, e ancor più oggi che del libro si ricorda prima la confezione del suo contenuto.

Rumori sospetti o meno, gli è che i cinque si dettero un gran da fare a stipare materiale altamente esplosivo nel loro portabagagli, e finanche sotto alle poltrone e in mezzo ai piedi, perché ne producevano in gran quantità, e soprattutto lo davano via con difficoltà. Libretti e libricini che sbucavano come funghi velenosi da somministrarsi all’inconsapevole popolino, che come i curiosi della domenica va per boschi con la guida, ma che poi si emoziona al primo mistero che sfugge alla tassonomia ufficiale, e chinansi sopra a coglierlo; che poi si sa, da lì a intossicarsi è un attimo.

Se vogliamo esser precisi, visto che abbiamo qua a che fare con documenti ufficiali – e che l’intento mio non è di far letteratura per amor del bello, ma di mirare al vero per onor del giusto – ce n’era uno di cui non si son trovate tracce di pubblicazioni ufficiali, ma solo strampalate storie stampate, a suo dire, in un connivente internet point bengalese. Era costui di corporatura robusta e avvezzo alle arti marziali, il che conferma il sospetto che dietro la copertura della missione per le arti e lo spirito si nascondesse una cellula di un’organizzazione paramilitare alle prime prove con il colpo di stato. Di questo nerboruto personaggio si ritrovano tracce in vari tornei di karate sparsi per il mondo, dove più d’una volta venne squalificato per condotta violenta, ragion per cui vien da chiedersi di dove gli sortisse fuori tutta questa poesia dell’anima, e da pensare, persino, che la farina fosse d’altrui sacco, magari di qualche sognatore caduto nella trappola dell’inesperienza. Avete idea di che cosa non siano capaci di fare gli scrittori alle prime armi pur di farsi conoscere? Io, che le redazioni me lo son fatte un po’ tutte, ne ho visti di ridotti così male da farmi venire la sincope cardiaca per il magone. I migliori, poi, son quelli che girano da anni con un pacco di fogli che si fa di volta in volta più voluminoso, come se il peso di quella sconfitta dovesse muovere a maggior pietà i pescicani dell’editoria: son questi gli scrittori del romanzo infinito – che niente ha a che vedere con la Poesia ininterrotta di Eluard – quello che cambierà per sempre le sorti del mondo, che se dovesse attendere loro non farebbe neanche la rivoluzione terrestre.

Questo per dire che forse i cinque avevano i loro buoni motivi per nascondere delle armi sotto la carta macerata dei loro libri, anche se di pistole e fucili, per non parlar poi di coltelli, non se n’ebbe a trovar traccia; così come accade oggi per i loro presunti possessori, che prima o poi dovrò anche spiegarvi il motivo che mi spinge a parlar di loro rivolgendomi al tempo passato.

Ma andiamo avanti cercando di rispettare la cronologia degli eventi, che servirà a dar loro un senso secondo l’ordine in cui si sono susseguiti, ché se poi sian stati dominati dal caso, non è certo colpa da imputarsi a chi cerchi di ricostruirne la trama.

Simone Ghelli