Il vecchio ciabattino – #fiabebrevichefinisconomalissimo

di Francesco Muzzopappa

Proprio lì in alto, in cima a quel monte imbiancato, si dice vivesse in estrema solitudine un vecchio ciabattino.
Niente di strano, si dirà, chissà perché. E invece ciò che si racconta ha dell’incredibile e del misterioso, perché il vecchio calzolaio in realtà si narra fosse Leggi il resto dell’articolo

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Carta taglia forbice – 9

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Una piccola città dell’Europa occidentale

Lei

Il Tempio è una cosa importantissima nella vita delle persone e anche nella mia. Io posso essere me stessa, nel Tempio, posso infilare il filo nella cruna e sentire l’odore della fede. Da quando sono piccola i miei genitori mi portano tutte le domeniche al Tempio, che è la chiesa dei Santi degli ultimi giorni. Noi siamo mormoni. Così ci chiama la gente. Ci chiamano mormoni perché Leggi il resto dell’articolo

Accabadora

Accabadora (Einaudi, 2009)

di Michela Murgia

Un dono. Questo romanzo è un piccolo capolavoro che riesce a raccontare una storia e una terra, di cui si conoscono di più solo gli aspetti vacanzieri, senza perdersi in finti omaggi alla narrativa italiana e senza fronzoli di alcun genere. Un libro in cui c’è solo la storia di una vita raccontata dalla vita.

Soreni è un paese della Sardegna dove si fa fatica a capire le cose. Dove le persone sono strette come fasci di erba alle loro vite quotidiane. Le chiacchiere che passano di sguardo in sguardo, mentre le mani camuffano le intenzioni delle bocche, sono vento che spesso porta odore di terra bruciata. Un paese che fa parte di una tradizione antica quanto la lingua stessa e dove italiano, sardo, storia e latino si uniscono a creare famiglie, amori e legami. Qui il passato non resta mai tale e fa fatica ad essere sepolto.

Maria vive a Soreni, è una bambina di troppo in una famiglia che ha poco. Una bambina che diventa figlia di anima di Tzia Bonaria Urrai, la sarta del paese. Una donna rispettata e rispettosa. Una di quelle antiche immagini di cui non era facile capire quanti anni avesse perché “[…] erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse paziente di essere raggiunta dal tempo in ritardo”.

La povertà e il menefreghismo della madre di Maria e la sterilità di Bonaria, creano un legame in cui i grandi silenzi, gli spazi lasciati inesplorati e le parole che raschiano il sole diventano ogni giorno più forti. Una famiglia non di sangue che vive in mezzo alle stoffe della sarta e allo sguardo di Maria che, giovane, ascolta la voce di Tzia Bonaria anche se spesso non ne capisce il senso, ma ascolta consapevole che “[…] non tutte le cose si ascoltano per capirle subito”.

Tutto sembra scorrere, tutto va nella direzione degli sguardi che seguono la coppia mentre cammina per le strade del paese. Occhi che puntano e giudicano. Occhi che però sanno qualcosa che sfugge alla piccola Maria, ancora incapace di cogliere i particolari che si nascondono nella pelle tesa degli adulti.

Una notte serve a far porre domande. Una notte soltanto, in cui il sonno è meno divertente delle ombre proiettate nella stanza. Un inverno del 1955 quando la piccola aveva otto anni e mezzo.

Sentire rumori e vedere Tzia uscire nell’oscurità accanto ad un uomo alto, nero in volto e sentirsi subito ammonire dalla figura della “madre”: “Torna in camera tua”. Obbedire e addormentarsi tra pensieri e silenzio. Silenzio e innocenza.

Da questo punto in poi accade qualcosa, qualcosa di silenzioso, di strisciante, che non intacca il rapporto di amore tra le due, che fa andare avanti la spinta dell’anziana a far studiare la sua protetta, a farla applicare. Accade qualcosa di più subdolo. Più complicato. Accade che la vita mette di fronte ai fatti e le campane a morto che si sono sentite dopo l’uscita notturna di quell’inverno non smettono più di riecheggiare.

Cosa aveva fatto e cosa faceva Tzia Bonaria? Perché si alludeva sempre a lei con timore reverenziale nelle chiacchiere di paese e tra amici?

I giorni di Bonaria Urrai si fondono così con quelli di Maria Listru, insieme a molte delle cose che accadranno, che altro non sono che parodia delle cose pensate. In una rincorsa verso il mare, tra i campi, gli amori segreti, le facce arse dal sudore e dal sole, verità e innocenza svelata, scivola “Accabadora”. La storia di una donna che è voce di due donne. Accabadora che in sardo significa “Colei che finisce”. L’ultima madre di molti che è la prima vera madre di Maria.

Alex Pietrogiacomi

Precari all’erta! – Un dito di rosso

Visto che oggi è ferragosto ed è il compleanno di mio nonno Mariano, mi concedo una tregua dai miei soliti interventi e vi posto questo racconto a lui dedicato, che nel 2007 è arrivato finalista al Premio Letterario Castelfiorentino.  Magari potrà distrarvi per alcuni minuti da questa calura estiva, visto che si parla di paesaggi invernali e di vino rosso…

Un dito di rosso.

Mio nonno ne beve un dito ancora dopo il caffè, di rosso, come i suoi pensieri, pensieri ostinati di una vita, masticati con il pane, intinti con dita non tremanti, ma mica come l’ostia, che si scioglie in bocca senza sapore, no… un retrogusto amaro risale, di fumo incallito e di bestemmie davanti al televisore.

Capita che il vino prenda d’acido se la bottiglia sta troppo tempo aperta.

E così mio nonno ne mesce un bicchiere dopo l’altro, su e giù con il gomito proprio come quando correva con il camion per i colli, tra i tornanti, a caricare e scaricare frutta e verdura per un banco ai mercati, d’inverno con il ghiaccio che cedeva sotto i battistrada, d’estate con il volante che arroventava la pelle. E lo faceva praticamente con una gamba sola, perché l’altra se l’era mangiata l’alta tensione sopra un traliccio, e la ditta per cui lavorava gli passava una pensione che a fatica gli bastava per garze e pomate. Una faticaccia il rituale serale della fasciatura riscaldata al caminetto, pelle viva che non si cicatrizzava e piangeva pus!

Forse mio nonno è da quel momento lì che ha iniziato a bere vino del contadino, di quello che ti allega la bocca e sembra non voler scendere giù, proprio come la lingua che il suo compagno di lavoro gli srotolò fuori per non farlo strozzare. Un pezzo di legno lo ha tenuto in vita, ma non di pregiato aduso per botti, bensì un volgare stecco di ciliegio dal retrogusto fruttato. Ma per bere ogni giorno un litro di quello si deve aver visto la morte in faccia per davvero, e ci vuole coraggio a scriverne, poiché nell’ebbrezza poi la parola ci sfugge, si contorce, rigira nel palato e va a scavare le gengive tra i denti prima di rantolare fuori piena di stenti. E a ragione s’infuria con la medicina che vorrebbe togliergli anche quest’ultimo privilegio! S’inaridiscano pure i reni, gonfi lo stomaco e scoppi la vescica… avanti prego, adesso chi c’è?… e il fegato, eh?! Come la va con il fegato? Quello si rigenera, si rigenera sempre, e mio nonno ne è testimone coerente! Il segreto sta nell’aglio crudo strusciato sul pane con un filo d’olio e un po’ di sale, che anche quei vampiri dei fascisti c’ha scacciato così, che quelli il rosso rubino che mio nonno tiene nelle vene mica lo digerivano così bene! Tira tira, che a lui gli si tirano al massimo i tendini del collo per il nervoso, magro come un manico di scopa, ma di saggina però, che si flette e si flette e non si spezza mai! Col vino in corpo c’ha poi alzato per una vita quintali e quintali di pomodori, maturi all’arrivo sul bancone e sfatti al ritorno da servì in tavola alla famiglia come contorno, e melanzane e peperoni e zucchine, e le mele di tutti i tipi, e mai una volta che gli ha annebbiato la vista, neanche sul ghiaccio a Castelnuovo Val di Cecina, che me lo ricordo che c’ero anch’io, piccino piccino pigiato fra lui e mi ma’, che anche s’ero tutto assonnato il culo mi si stringeva per la paura! Con me non si casca di sotto, scemo!, mi diceva, e poi vedrai che quando s’è finito si va a mangià la braciolina impanata su in trattoria… hai capito? Col nonno di sotto non si casca mai…

Ma fermiamoci un attimo, proprio qua sul ciglio, a pensare in silenzio. Godiamoci questo paesaggio brullo di vigne e d’olivi che ti accompagnan fino a Volterra, sotto al carcere coi matti, che chissà là quanti ce n’hanno chiusi con troppi grilli in testa per poi farli inacidire e cantà come cicale.

Lasciamolo adagiato al buio, se è la che vuole stare, come il vino da invecchiare. Non ha bisogno di altra luce, il chicco ormai è maturo. Passo io, signor fattore, a controllare. Come? Lei dice troppi anni, che il rosso ormai è svanito? Glielo spieghi lei, signor fattore, che adesso va di moda il bianco, da servirsi fresco nel calice lungo e stretto. Io per me, mi piace ascoltarlo questo raglio d’asino che stringe il morso, che abbassa gli occhi sul lumino della cicca e par che guardi lontano, dove non si sa, perché due briciole sul tavolo son tutto quel che c’ha. Cadute dalla bocca, le lascia lì a danzare nel cielo acquoso degli occhi, e chissà a che pensa?, forse che se c’avesse vent’anni gliela farebbe lui la festa a quei pidocchi!, ché invece gli tocca di sentirli biascicare in sottofondo… bla, bla, il televisore… ma vedrai che tornano, e se tornano, non li vedi?, son già qua pronti in doppio petto!… e bla, bla, i parenti… tutti contro a sfotterlo, a non salare il sugo perché così lui dica che è sciapo, che insomma non sa di niente, e a ritornar su quel solito discorso… troppe sigarette, noi ti si diceva! A che ti giovò il non sentir più sapori? A che pro prendersela tanto per un’idea talmente antica che ormai ha preso di tappo? E giù altre risate, neanche fosse un bambino…

Io, le poche volte che ci sono giuro che ci divento matto! Allora gli calo un altro goccio e me ne verso anch’io, così si butta giù il boccone in due, una corsa pazza fino al caffè… e dice a tutti che meno male che gli è rimasto almeno un nipote che tiene le sue stesse idee, che gli sta appresso col rosso insomma, anche se alle ultime due dita poi non c’arriva e lo lascia da solo proprio sul più bello, là come un pivello sulla linea del traguardo…

Simone Ghelli