La perenne attualità di Jim, cestista fattone

di Gabriele Merlini

Jim entra nel campo di basket
di Jim Carroll
minimum fax, pagine 208.

Giugno 2012.

Ho provato a dare fuoco al liceo tuttavia ignoro quali gioie possano regalare le vere azioni di rottura: sniffare detergente sopra un traghetto dunque vomitare in testa al passeggero sul ponte sottostante. Borseggiare signore chiedendo informazioni per la metropolitana. Assistere a cerimonie religiose ufficiate da anziane che invocano non protezione da Maria Vergine quanto un servizietto orale.
Ho fumato hashish tuttavia mai ho avuto lo stimolo di gettare dalla finestra una bambina. Non ho analizzato occhi di vetro appartenenti a compagni di squadra e troverei inopportuno (dannata morale: migliorerò) ridere del tizio in lacrime cui hanno appena incendiato la pizzeria.
È stata perciò la volontà di colmare queste lacune l’elemento principale che mi ha spinto a leggere Jim entra nel campo da basket. Come riferisce nella introduzione la curatrice Tiziana Lo Porto: «diari tenuti dai dodici ai sedici anni e pubblicati in America nel millenovecentosettantotto. Della sua adolescenza raccontano, appunto, la pallacanestro, la strada, il sesso, New York, l’eroina». Autore: Jim Carroll. Tendenzialmente uno tra i più ammirevoli fattoni del secolo scorso.

Giugno 1999.

Messo spalle al muro e costretto dalle evidenze lo ammetto: non avevo mai visto Jim Carroll in video. L’occasione si presenta stamani con il clip su Youtube di questo show nel quale un signore ingessato (tale Matt Lauer della NBC) torchia l’autore riguardo un fatto scomodo. Quattordici anni fa alcuni ragazzi avrebbero sparato a scuola ispirandosi al libro che sto recensendo. Sia messo agli atti che l’idea di aprire il fuoco in pubblico non stia sfiorandomi, e pure Carroll sembra ritenerla una forzatura. Patologie pregresse, senza dubbio. Fatto sta che di ciò dibattiamo animatamente.
Jim Carroll – poeta, musicista e narratore statunitense – ha il tono da oratore imbarazzato ma sicuro delle proprie argomentazioni, un taglio di capelli attualissimo (si colloca a metà tra Warhol e l’ultimo Win Butler degli Arcade Fire) e giacca nera che cade pesante sui fianchi come già il David Byrne del tour di Stop making sense. Si direbbe calmo al limite del catatonico sebbene quando disquisisce Leggi il resto dell’articolo

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E siamo alla notte in cui mi sono perso a Centocelle, da solo perché lei si era incazzata e normalmente poteva farmi da spalla e genere di conforto ma ora invece preferiva camminare avanti e indietro a vuoto come un trenino monovagone senza pilota, sputando bestemmie e improperi nella mia direzione e sottolineando le sue responsabilità e urlando me ne vado me ne vado me ne vado. Si sa bene che dopo tutti i primitivi, cabernet e brunelli disponibili – quando sei stanco e incazzato e le cose iniziano ad andare storte – l’ultima da fare è dividersi, anzi è il classico gradino che si rompe e ti fa rotolare per dieci metri di scale, tirandosi a catena una catastrofe da un nonnulla, ma fatto sta che convinto di parlare ormai con un’aliena, che tra l’altro aveva già preso per metà la via del mare, passai dall’impotente che cerchiamo una soluzione ti prego ti prego all’offeso che cazzo nessuno è perfetto e cosa vorrai mai da me per quattro stronzate che hai tu di più di me e quattro stronzate che hai tu di meno di me, e dopo aver provato a fermarla senza troppa convinzione rinunciai per fortuna ad azionare il freno a mano in modo brusco e le rivolsi un vaffanculo che tra l’altro non mi uscì granché bene nella tonalità, poco maschio. Nelle tre ore spese a vagare poi da solo come un disgraziato, per strade che alla luce del giorno avrei riconosciuto benissimo, con il cervello in moto perpetuo – mi sarei preso a cazzotti in testa per fermare quel microsolco (sei un peso per tutti, hai perso finalmente la bussola, sei solo e lo sarai sempre e altri fantastici successi di un’estate eterna) – e con la coincidenza di tre passanti stronzi ogni venti minuti che non solo non sapevano un cazzo ma facevano pure smorfiette da cittadini DOC alle prese con un tossico di fuori porta, mi è venuto inevitabilmente da pensare a quella canzone di Jim Carroll, un tossico vero fino a prova contraria, e in particolare a quei versi che dicono

Cause when the city drops into the night

Before the darkness there’s one moment of light

When everything seems clear

The other side, it seems so near

e mi sono sentito malissimo e tutto si è incupito fino allo zenith, perché mi sono reso conto con orrore che non voglio né vivere e né morire, e mi trovo costantemente in un vicolo cieco che a furia di accumulare confronti forzati ed orribili come questo prima o poi mi distruggerà inevitabilmente e del tutto. Non voglio vivere perché non ne sono capace: non voglio guidare l’auto, lavorare regolarmente, fare figli, avere una storia che sia diversa dalla mia consapevolezza orrenda dell’inutilità del nascere, horror vacui che non so più se sia possibile o meno soffocare ancora con l’edonismo (moriremo tutti soli, affogati nelle nostre alcoliche e spermatiche piscine romane). Non voglio morire perché so che è doloroso, ci sono andato vicino ventinove-trent’anni fa e sono certo, certissimo che per i primi e ultimi cinque minuti è la sensazione più orrenda e angosciante che si possa mai conoscere in assoluto. Me lo ricordo da quando un’altra buia notte, che chiude l’epoca felice i cui i pochi ricordi sono tutti di me che ciuccio latte e Plasmon da un biberon, seduto sulla cassapanca in legno del lettone dei miei (tivù – in bianco e nero! – sintonizzata su cartoni random), mi sveglio nello stesso lettone, circondato dagli stessi genitori, normalmente sinonimo di sonni tranquilli e senza incubi, e mi rendo perfettamente conto che sto soffocando. Sulle prime inizio a sgambettare, mettendomi le mani in gola per vedere che cosa non funziona, dopodiché, visto che va sempre peggio e ormai cuore orecchie bocca polmoni e naso sono un tutt’uno pulsante e bloccato, scrollo entrambi disperatamente ma non riesco a parlare emetto rantoli disarticolati e loro mi chiedono che cos’hai che cos’hai e scrollano via le coperte, e questo è tutto. Rotolando finisco con la testa a piedi del letto, con la faccia in giù, e il copriletto è

blu

non me lo scorderò mai

blu

ma sta diventando nero, perché io non ci vedo più e non ci sento più e non ci sono più.

Bella stronzata. Sono appena nato e sto già morendo, ma non come nei cartoni animati, sto morendo veramente. E mamma e papà probabilmente sono lì che si disperano, ma se non hanno capito cosa non va, o se pure l’hanno capito, non possono fare niente di niente di niente. Poi buio totale e un principio di relax non male.

Oggi so che soffrivo d’asma, allora il Ventolin mi sembrava un tubetto di un bel celeste che faceva un’arietta simpatica e fresca. Naturalmente non ho mai più sofferto d’asma da lì a pochissimo, quando mi si è spannata la vista e ho cominciato a vedere delle macchie blu oleose, quindi a respirare affannosamente, come un motore che si riprende a singhiozzi. La ragazza del piano di sotto, una studentessa di medicina allora poco più che maggiorenne, mi stava estraendo dal culo l’ago con cui mi aveva salvato quasi in extremis.

Sua madre, una signora morta poi di cancro nel 1988 o 1990, era in piedi sulla porta con un vassoio di caffè con cui cercava di placare gli animi.

Laringospasmo, tecnicamente si chiama così. Uccide e a volte rende scemi per mancanza prolungata di ossigeno al cervello (nel mio caso, figuratamente, entrambe?).

La mia prima infanzia si chiuse così, di botto, senza alcun preavviso. Il giorno dopo, al risveglio, ero in un mondo più giallo e difficile, fatto di amici che non ti vedono e di incubi senza prevenzione.

Simone Lucciola