Il rituale consolidato

Mi ero ritrovato con un lavoro.

Rubavo l’anima alla gente.

Avevo perso Marta, ma ottenuto un lavoro. Ero indeciso se considerarlo uno scambio equo.

Un tizio che si era definito “buon amico di tuo padre buonanima” aveva un laboratorio fotografico in uno dei tanti vicoli della via principale di Garogenti. Via Atenea.

Io lavoravo lì ogni giorno della settimana esclusa la domenica.

Il mio compito era soltanto quello di scattare fotografie alle persone che avevano bisogno di una fototessera. Una media di tre o quattro facce al giorno. Benedetta burocrazia.

Dovevo soltanto condurre il cliente per un corridoio tortuoso e ingombro di pacchi impolverati. Farlo entrare dentro uno stanzino. Indicare lo sgabello davanti al telone bianco che faceva da sfondo. Dire sempre che l’altezza dello sgabello è regolabile. Accendere la lampada alogena puntata sul cliente seduto oramai sullo sgabello. Sistemare la macchina fotografica digitale. Poi dire: “Guardi qui”. Se era il caso ripetere: “Guardi qui”. Non mi importava se sorridessero o meno. Ecco. Rimanga così. Ancora un attimo. Fatta. Può alzarsi. Dopo mostrare al cliente l’anteprima sullo schermo della fotocamera. Se il cliente reputava che la foto potesse andare io dovevo solo salvare l’immagine che poi Valerio, l’altro che lavorava con me, avrebbe stampato. Se il cliente reputava che in quella foto era venuto proprio uno schifo mi toccava farne un’altra. Ecco. Rimanga così. Ancora un attimo. Fatta. Può alzarsi.

Questo era il mio lavoro.

Rubare l’anima alla gente tutti i giorni esclusa la domenica.

Non che me ne importasse qualcosa.

**

Io e il mio tascapane a tracolla sul motorino che un tempo era stato di Marta. Suo zio me lo aveva regalato piangendo e mi ero chiesto se avrebbe dipinto un altro ex-voto se solo lei fosse tornata .

Adesso guidavo nella notte, per le deserte strade garogentine, sotto gli aloni arancio dei lampioni. Io e il motorino. Furtivi. Nient’altro che ombre anonime.

L’importante comunque era il rituale consolidato.

Aspettare sempre le tre di notte, prendere il tascapane e le chiavi del motorino e uscire fuori, per strada, con ben stampate in mente le cinque destinazioni fondamentali nell’immaginaria cartina topografica di Garogenti.

Quella era la prima: piazza Enrico Fermi, accanto all’entrata della stazione ferroviaria, la cui prima pietra era stata posata da sua eccellenza cavalier Benito Mussolini in persona. Facendo scempio in tutta tranquillità delle antiche mura cittadine.

Spegnevo il motorino e mi dirigevo verso il mio obiettivo militare: la cabina per la fototessera automatica. La nemesi della mia unica fonte di sostentamento, la rivale del mio insulso lavoro.

Scostavo la ridicola tendina blu e mi infilavo nello stretto cubicolo. Poi tiravo fuori dal tascapane il martello. Il mio alleato. La mia arma. Un Kapriol dalla testa di 800 grammi.

I palmi sudati delle mie mani cercavano di impugnarlo saldamente mentre, ginocchia piegate, lo calavo più e più volte sulla tastiera dei comandi. Rumori di distruzione che sentivo solo io.

A Garogenti c’erano cinque cabine per la fototessera automatica e una volta ogni due mesi uscivo di notte per compiere i miei atti di sabotaggio.

Il rituale consolidato. La mia personale guerriglia al concetto di libera concorrenza.

Tappa dopo tappa, stanco e sudato, infilavo di nuovo il martello nel tascapane e, una volta salito sul motorino, acceleravo per quelle strade color rame verso il nuovo obiettivo sulla mappa. Correvo a ferirlo a morte.

Col favore delle tenebre e del sonno pesante dei garogentini.

Roberto Mandracchia

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