Amare è un gesto d’odio

A cavallo fra il 1956 e il 1957 Tomasi di Lampedusa scrisse un bel racconto di sapore vagamente e duplicemente autobiografico che intitolò La Sirena. Duplicemente perché i personaggi attorno a cui s’articola la storia (un vecchio senatore e un giovane giornalista) sembrano proprio la copia carbone dei due aspetti principali dello scrittore: da un lato il giovane giornalista colto e raffinato capace ancora di stupirsi della vita (da leggere i suoi epistolari a firma: Il Mostro), dall’altro il vecchio senatore scorbutico e taciturno che ha gustato una giovinezza molto intensa e ora vive una volontaria e fastidiosa vecchiaia precoce.

Ne La Sirena Tomasi di Lampedusa scrisse una frase che sembra buttata lì per caso, ma che – se ci si sofferma sopra – assume tutto il suo peso: «Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati! Il riccio deve sapere anche di limone, lo zucchero anche di cioccolata, l’amore anche di paradiso». Questa frase, detta dal senatore, ha un certo peso all’interno dell’opera del Tomasi perché chiarifica la concezione che l’autore aveva dell’amore.

Probabilmente potremmo perfino arrivare a ipotizzare che per lui l’amore sia una cosa separata dalla felicità o dalla purezza. È – diamo pure il tono dell’affermazione a questa ipotesi – una cosa di cui sarebbe meglio fare a meno, ma che è troppo bella per farne a meno. Come un brutto vizio. Come una sigaretta (interessante ricordare anche che, all’incirca un secolo prima, Oscar Wilde aveva scritto ne Il ritratto di Dorian Gray che la sigaretta è il prototipo perfetto del piacere perfetto perché è deliziosa e lascia praticamente insoddisfatti; come l’amore, aggiungiamo). Tale considerazione non è campata in aria, anzi, trova riscontro ne Il Gattopardo, quando il Principe di Salina dirà: «L’amore. Certo l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta». Sempre nel Gattopardo paragonerà Cavriaghi all’acqua e Tancredi al marsala: non fa accenno alle loro doti (in quanto a certe doti Cavriaghi era certo superiore a Tancredi), ma solo – con poetica sintesi – alla loro abilità amatoria. È chiaro che per Tomasi l’amore è essenzialmente fisicità.

Baudelaire sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda. Nella parte su Delfina e Ippolita scrive la seguente quartina: «Maledizione eterna al sognatore incapace / che per primo volle, nella sua stupidità, / scivolando in un problema insolubile e fallace, / unire ai fatti d’amore l’onestà». Mi sia abbonata questa traduzione che richiama “la bella menzognera” sia per fedeltà che, spero, per resa.

Anche per il poeta l’amore non ha nulla a che fare col paradiso o con l’onestà o con la felicità: il caso di Delfina e Ippolita ce lo dimostra. Anche per il poeta è solo una questione di affinità fisica.

Vari altri poeti e scrittori si sono cimentati con la definizione dell’amore: Catullo («Odio e amo. Ti chiedi perché lo faccia. Non lo so, ma lo sento e ne sono torturato»), Kierkegaard («L’amore perfetto significa amare quella persona che ci renderà infelici»), Cervantes («Chi ti vuol bene ti fa piangere»), Terenzio («I litigi degli amanti rinnovano l’amore») e tanti altri.

Grossomodo la faccenda resta sempre uguale e, senza badare a tante sottigliezze poetiche, si può citare un passo di Jimmy Fontana mai troppo ripetuto: «L’amore non è bello se non è litigarello».

Una cosa interessante sull’amore la dice, come al solito, Nietzsche in un frammento postumo del 1880: «Voler amare tradisce stanchezza e sazietà di se stessi, voler essere amati invece brama di sé, egoismo. Chi ama si dona; chi vuole essere amato vorrebbe ricevere se stesso in dono».

Per Tomasi di Lampedusa e per Baudelaire l’amore è essenzialmente fisicità. Per vari altri poeti e scrittori e filosofi l’amore è sostanzialmente sofferenza – sofferenza che, a detta di Terenzio, rimpolpa il sentimento amoroso – e, a volte, infelicità. Per Jimmy Fontana l’amore deve essere un po’ conflittuale per essere interessante. Per Nietzsche l’amore è invaghimento o sfinimento di se stessi.

La cosa davvero interessante è che amiamo soprattutto per infatuazione fisica (dello stesso avviso era Alberto Moravia nel saggio breve Erotismo in letteratura del 1961, anche se solamente a livello implicito e particolare), che soffriamo per questo e che se non soffrissimo per amore non ci divertiremmo. L’amore sofferente per una cosa bella ci causa dolore. E il divertente è che ce l’andiamo a cercare quando non ne possiamo più di noi stessi. Preferiamo soffrire piuttosto che rimanere ancora da soli con noi stessi.

Questo la dice lunga su quanto l’essere umano si ami: soffre per un’infatuazione effimera come lo è quella per l’apparenza e, per di più, se non soffre non si diverte!

Ecco com’è l’essere umano: superficiale, masochista, con seri problemi con se stesso e – in ultima analisi – autolesionista.

Solo chi si odia profondamente può amare.

 

Antonio Romano

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L’inutilità del genio post-moderno /2

Entriamo ora nel vivo. «Ogni uomo è un debitore e un mimo, la vita è teatro e la letteratura è una citazione»: Emerson, Società e solitudine. Questa citazione extra ci dà il là per la prossima domanda pleonastica e retorica che dobbiamo porci: di che cosa la letteratura è la citazione?

(Citazione, dunque contagio da un testo all’altro. Contagio esclusivo perché non per tutti e non in tutte le modalità).

Se questa letteratura di cui ci riempiamo la bocca è, come abbiamo visto, un’illusione repertiata e reiterata all’infinito nello spazio e nella storia ed è anche un morbo elitario, inevitabilmente dobbiamo ricercare la sua fonte originaria – cioè la cosa di cui è citazione – in campi analoghi a quelli rilevati.

Illusione (o menzogna o sogno o visione o come si vuole), morbo, fenomeno elitario: dove arriviamo? Arriviamo a una malattia poco comune che ha molto a che fare con l’illusione.

Marx e Freud dicevano (mutatis mutandis) che l’automatizzazione (leggi: reiterazione, compulsività) aliena e uccide (alienazione e thanatos, questi i principi che approfondirono in tal senso). Dunque, questa malattia rara d’illusione vestita, è mortifera e alienante.

La risposta diventa improvvisamente chiara, addirittura lampante: la letteratura è citazione della follia.

L’arte della follia. Il rapporto fra follia e creazione artistica ha creato da sempre curiosità e interesse. Perfino la follia di Nietzsche, quindi non un artista nel senso “tradizionale” o “comune” del termine (è meglio sorvolare sulle sue liriche pubblicate postume in uno stile decisamente brutto e accademico), ha stimolato non poco la fantasia degli studiosi, impegnati a capire se sia stata la follia a influenzare la sua filosofia o se la sua filosofia abbia determinato la follia (in questa sede preferisco trascurare il cinico dato della febbre sifilitica).

Quella di Nietzsche è un caso decisamente poco comune: prescindendo dalle modifiche apportate dalla sorella filonazista Elisabeth, la sua opera si caratterizza per la complessità con cui si snoda attraverso tematiche e registri stilistici assai differenti. Dall’organico saggio letterario-filosofico La nascita della tragedia all’apologo filosofico-favolistico espresso quasi unicamente per aforismi del Così parlò Zarathustra, al libro quasi propriamente filosofico di Considerazioni inattuali o Umano, troppo umano.

Ben consapevole del rischio che si corre di sollevare diatribe già ricorse nel mondo della filosofia e della letteratura, sono tentato di sottolineare la raffinata letterarietà dell’opera del filosofo. Pare quasi che Nietzsche abbia compreso l’importanza d’un linguaggio capace di coinvolgere ed esprimere, lontano dai peripli linguistici d’un Kant o d’uno Hegel (non a caso i testi di quest’ultimo furono definiti da Schopenauer «il più inutile, insulso sproloquio di cui si sia mai accontentato una testa di segatura» espressa nel «linguaggio più orribile e anche assurdo, che ricorda il delirio dei folli»). Sembrava aver colto il problema stesso del dire, così come lo colse in seguito Heidegger, che probabilmente ne aveva abbastanza di dover lavorare con un linguaggio che lo costringeva a scrivere frasi come «Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere».

Lo stile nietzschiano è sobrio, ma ricco; asciutto, ma evocativo; abbordabile, ma elegante. Si tratta d’una vera e propria opera di divulgazione, fatta sia per filosofi che per letterati che per uomini comuni.

Quindi anche per Nietzsche si può innescare una delle suddette diatribe su filosofia e letteratura. Diatribe del tipo: Leopardi, Esopo, Dante Alighieri, De Sade, Borges, Machiavelli, Henry Miller, Orazio, Jean de La Fontaine, S. Francesco sono più scrittori o più filosofi? Confucio, Rousseau, Platone, Sartre, S. Agostino, Pascal, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Kierkegaard, Voltaire sono più filosofi o più scrittori? Per non parlare di casi affini a quelli di La Rochefoucauld, Buddha, Hölderlin, Novalis o lo stesso Nietzsche.

Ma non è questo l’argomento di cui stiamo parlando, perciò ritorniamo al discorso interrotto poco fa.

Un altro dei molti punti in comune fra follia e arte è Van Gogh. Impressionista ante litteram, colpito dalla nausée du vivre prima di molti altri, fragile e forte, visionario e depresso. In lui c’è la sintesi di molti motivi esistenziali e anarchici, superomistici e decadenti, artistici e volgari: un Machiavelli della pittura, azzarderemmo.

All’orecchio di Van Gogh si possono dare mille significati (oltre quelli ufficiali): rifiuto, depressione, ribellione, autolesionismo pseudo-religioso e ancora ricerca di sé, effetti della vita, edonismo masochista, etc…

Come mille significati si possono dare allo stile e alle opere di De Sade, alla sua psicologia, alla sua dialettica, alla sua follia, agli intermezzi filosofici in Justine o in Filosofia del boudoir o nei Dialoghi filosofici.

E ancora il succitato Hölderlin, morto folle dopo essere stato un precoce filosofo e un precocissimo poeta. Quasi identico a Lucrezio, che addirittura, come riporta l’arguto padre della chiesa S. Gerolamo, scriveva per intervalla insaniae.

Tirare le somme di quest’argomento è quasi impossibile (non dico del tutto impossibile solo perché sono convinto che nulla sia impossibile), oltre che per scarsità di studi in merito, perché si cadrebbe sicuramente nell’opinione soggettiva.

L’unico modo per capire se la follia sia elemento integrante della produzione artistica o se piuttosto la produzione artistica conduca alla follia sarebbe diventare pazzi o artisti (che, in fin dei conti, sono praticamente la stessa cosa: o, meglio, sia i folli che gli artisti godono della “lateralità”).

Oppure si potrebbe provare a sostenere la seguente ipotesi: l’artista è un pazzo e viceversa.

Cosa fa l’artista nelle sue opere? Coglie il circostante, lo destruttura… lo smembra, lo rielabora pezzo per pezzo e lo ricostruisce in una propria maniera originale. Il processo patologico della follia è il medesimo. Il pazzo destruttura e ricostruisce la realtà a proprio uso e consumo.

La creazione dell’opera d’arte, insomma, si serve dello stesso processo di derealizzazione del mondo che nel folle è spontaneo. L’artista si serve della sua sensibilità e della sua cultura per ricostruire la realtà, la ricostruisce – per così dire – “umanisticamente”. Mentre il folle opera tale processo servendosi d’una logica; della sua logica, che ricostruisce tutto in termini fondamentalmente incomprensibili per gli altri esseri umani. Ma logicamente! Potremmo arrivare a dire che, mentre l’artista “pecca” di soggettività, il folle conserva una certa logicità all’interno della sua follia. È vittima della propria logica, mentre l’artista lo è della propria sensibilità.

E seppure fosse illogico, il folle, sarebbe comunque antiumanistico.

De Sade, all’incrocio fra arte e follia, dava dei significati propri a concetti comunemente accettati dalla società a lui contemporanea. Così come un secolo dopo avrebbe fatto Nietzsche con la filosofia, Van Gogh con la pittura e come aveva fatto Lucrezio con la poesia.

Tutti loro avevano trasposto la destrutturazione del reale nell’arte, con risultati davvero eccezionali. Altri intellettuali e artisti, pur bravissimi e preparatissimi, non sono stati in grado di raggiungere i risultati di uno dei personaggi succitati.

E perché questo? Perché non erano “pazzi”.

 

Antonio Romano