La dismissione

La dismissione (Rizzoli, 2002)

di Ermanno Rea

Per il palato di uno come me, che viene da una città industriale come Piombino, il romanzo di Ermanno Rea assume tutto un sapore particolare. Un sapore che ricorda certi odori delle acciaierie, che mi accompagnano sin da quando ero bambino e che variano in base ai venti. Di quegli odori che ti si attaccano alla pelle e ai vestiti e di cui non ti scordi più, che sanno di cieli innaturalmente arrossati e della limatura di ferro che in certi giorni, insieme alla sabbia delle dune marittime a ridosso della fabbrica, sembra posarsi dappertutto, anche nelle narici e sulla lingua.

Per chi, come il sottoscritto, nella fabbrica c’è anche entrato – se pur per un brevissimo periodo, come brevi sono gli unici due racconti che ad essa ho dedicato – questo sapore si suddivide poi in una gamma di odori più specifici, di immagini un po’ apocalittiche che Ermanno Rea sa restituirci magistralmente, senza mai compiacersene troppo.

La storia di Vincenzo Buonocore, ex operaio poi divenuto tecnico specializzato, va infatti oltre i confini di Bagnoli dov’è ambientata, poiché ci parla di un’Italia che sta ormai scomparendo, di un paese che è tornato a essere preda di lotte intestine che ne minano la pur precaria unità.

Da questo punto di vista La dismissione è anche un romanzo profetico, e in questo consiste forse la sua grande forza, poiché, a distanza di quasi otto anni dalla sua uscita, il libro di Rea ci parla del processo, politico e culturale, in atto nel nostro paese (un processo iniziato già negli anni ’80, e acutizzatosi, proprio come per l’industria siderurgica, nel corso del decennio successivo).

Un romanzo, dunque, che attraverso la storia di una delle ultime grandi lotte del movimento operaio ci parla in sostanza della dismissione del sistema Italia, della sua svendita, pezzo dopo pezzo. Con la differenza sostanziale che nel lavoro maniacale e certosino di Vincenzo Buonocore, che la maggior parte degli operai in lotta sembra non comprendere, trasuda l’amore totale e devoto nei confronti della sua fabbrica, che se proprio deve finire nelle mani dei cinesi, deve arrivarci senza uno sgraffio, senza un difetto che possa comprometterne il perfetto funzionamento. Se i pezzi di Bagnoli continuano a funzionare in un altrove disseminato – non solo la sterminata Cina, ma anche la stessa Piombino o Taranto – è proprio grazie a una coscienza di classe che ha cominciato a cedere con l’epoca della cassa integrazione e dei prepensionamenti, e che è venuta meno con la precarizzazione selvaggia di ampi settori lavorativi, con la conseguente disaffezione nei confronti del proprio operato e del proprio spazio d’intervento.

Ecco perché il romanzo di Rea si presenta ancora come una lettura attuale e necessaria, come un’opera che non soltanto – e non è poco – conserva una memoria storica e culturale, ma che c’invita a riflettere sulla deriva intrapresa da questo paese, e lo fa senza indicare i nomi dei “mandanti”, perché i primi ad aver accettato lo smantellamento, i primi responsabili, siamo proprio noi: noi italiani.

Simone Ghelli

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