Un default imperfetto

di Andrea Frau

Un utente Facebook ricarica ossessivamente la pagina, attende invano un segno, un poke di Dio.
Non esiste nulla. Può continuare a far coltivare il suo orto di Farmville a qualche utente marocchino. Rinuncia a caricare la nuova applicazione “coscienza”.
È stanco. Esce dalla sua stanza fatta di notebook, facebook, e film in streaming.
Dopo circa un’ora, la realtà, le macchine e la gente nei bar si bloccano.
Un F16 italiano in partenza per la Libia scrive nel cielo a caratteri cubitali: «Hai raggiunto il limite di 72 minuti fuori dalla tua stanza».
È scattato il coprifuoco.

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Lavorare, passeggiare, raccontare

Con la manifestazione del 9 aprile, che ha segnato un primo tentativo di unire in uno stesso corteo lavoratori (e non) accomunati dall’orizzonte della precarietà (anche se provenienti da contesti diversi),  è stata scattata la fotografia ancora parziale di una famiglia allargata, trasversale alle classi sociali e alle generazioni. Farsi vedere e raccontarsi, superare il senso di vergogna (magari per la differenza tra le aspettative e la realtà) e la paura del ricatto (sul luogo di lavoro), in una parola manifestarsi, rimane assolutamente necessario. Non basta infatti farlo una sola volta, ma deve essere pratica quotidiana e (possibilmente) condivisa. È questo il senso degli Stati Generali della Precarietà 3.0: tre giorni d’incontri che si terranno a Roma nel segno della condivisione di strumenti e strategie, dove «parlare dei nostri desideri, della libertà che vogliamo riprenderci, della forza che vogliamo far esplodere».

Simone Ghelli

Quello che segue è il programma dettagliato delle tre giornate:

Venerdi 15, @ LOA Acrobax [via della vasca navale,6]
dalle ore 19 accoglienza e concerto di Asian Dub Foundation

Sabato 16, @ GENERAZIONE_P RENDEZ-VOUS [via alberto da giussano, 59]:

dalle 21.00: serata di festeggiamento dei primi 6 mesi di occupazione di Generazione P – rendez vous
cena
+ proiezione della videoinchiesta sulla precarietà “Inpreca video”
+
proiezione del docufilmLampedusa next stopa cura di Insutv (presenti gli autori)
a seguire dj set

Domenica 17, @ Volturno [via Volturno, 37]:

Clandestina

Quella che segue è l’introduzione a “Clandestina” (Effequ, 2010), un’antologia curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli, che raccoglie «uno spaccato della produzione letteraria proposta dai migliori blog collettivi e riviste on-line del nostro Paese».

 

Un giorno al Giglio ho conosciuto un vecchio che al Porto non c’è andato mai. Vive in cima al Castello e per andare al mare è sceso sempre dalla parte di Campese. E non c’è andato neppure troppe volte al mare, per uno che ha spaccato pietre tutte isolane. Il vecchio non si è allontanato mai dal Giglio. Al Castello c’è una comunità che gioca a mattonella, prepara il panficato e ha nomi senesi: Aldi, Pini e Landini. Sono i figli di quelli che hanno piantato a vigna le greppe dopo la razzia del ’500, che le aveva lasciate abbandonate. Contadini, figli di contadini. Alla fine del ’700 altri pirati attraccavano a Campese, risalivano la collina pronti a mettere a ferro e a fuoco un’altra volta l’isola (non che nel frattempo non si fossero più visti), ma la nuova aggressione fu respinta, e i corsari decimati non tornarono più. Da quel giorno al Porto nacque una comunità, pescatori che seguivano le rotte del pesce azzurro, da nord o da sud, genovesi e campani. Parlavano dialetti diversi, avevano altre abitudini. Vivono lì da due secoli. Il vecchio, che avrà più di cento anni e che non è uscito mai dall’isola, ha fatto il possibile per non incontrarli mai.

Una volta a Londra c’era un’importante partita di pallone. Era un quarto di finale di Coppa dei Campioni e l’allenatore della squadra di casa era squalificato. I giocatori del Chelsea Football Club una partita così non l’avevano giocata mai, e l’allenatore, che era Mourinho, per non lasciarli soli, invece di starsene in tribuna si infilò nel cesto dei panni sporchi nello spogliatoio. Ci rimase tutta la partita e i giocatori lo trovarono lì nell’intervallo. Durante l’incontro comunicò con la panchina via sms e per spiegare le tattiche fece arrivare ai giocatori dei pizzini. Il Chelsea vinse 4-2.

Un’altro giorno ancora un ragazzo scappava scavando a bracciate le acque del Tigri. Si chiamava Abd-ar-Rahman e non era un giovane come gli altri, era un principe. Le frecce avvelenate fischiavano senza centrarlo, scappava da Damasco. La sua stirpe veniva sterminata. E mentre si apprestava alla sua vita da fuggiasco ancora non poteva immaginare che dopo aver corso come un keniota lungo tutto il Maghreb sarebbe giunto in Spagna, in Andalusia, e lì, da esiliato e migrante sarebbe tornato principe, e avrebbe fatto di Cordoba la capitale del regno più splendente al mondo.

Un’altra storia l’ho letta in un libro. Ad Hanoi c’è la statua di un soldato in ginocchio, “con le mani alzate e gli occhi impauriti”. Il pirata dell’aria era sui cieli del Vietnam quando il suo aereo veniva colpito e lui dovette premere il tasto di espulsione. L’esplosione che lo catapultò in aria – è una piccola carica di dinamite a farti saltare fuori da un caccia in picchiata – gli ruppe tutte e due le gambe e un braccio. Dopo di che fu catturato dai nemici, da quelli che lui considerava nemici, insomma dagli altri. Per la precisione cadde in un laghetto nel centro di Hanoi, dove “i piloti di cacciabombardieri erano particolarmente odiati, per ovvie ragioni”. I vietnamiti, i civili, nuotavano nel lago per andarlo a massacrare. Un soldato nemico lo trafisse all’inguine con una baionetta. Un altro gli spaccò una spalla. Poi fu tenuto in cella per alcune settimane, dopo le quali un medico gli ricompose un paio di fratture senza nessuna anestesia. Non tutte, un paio. Il soldato, che ormai è un vecchio, ancora oggi non riesce ad alzare le braccia sopra la testa. Il suo peso scese a 45 chili, gli altri prigionieri erano certi che sarebbe morto. Delirava, per il dolore. Un giorno, mesi dopo, quando il prigioniero riusciva appena a stare in piedi, venne portato nell’ufficio del comandante nemico. Quello gli disse che era libero, poteva andarsene. Saltò fuori che suo padre – il padre del soldato – era diventato il capo delle forze navali americane, e l’idea dei vietnamiti era liberare il figlio, in quello che potremmo definire uno slancio di Realpolitik. Il soldato rifiutò. “A quanto pare il Codice di condotta per i prigionieri di guerra diceva che i prigionieri andavano liberati nell’ordine in cui erano stati catturati”. Il nostro uomo rifiuta di violare il codice. Il comandante non gradisce e gli fa rompere lì, nel suo ufficio, le costole, e gli fa ingoiare i denti. Quindi ripete il suo invito. Il soldato rifiuta ancora, o con gli altri o niente. L’uomo, che rimase altri quattro anni in una stanza grande come il vano di un camino, è l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain.

Altre storie finiscono in relitti di gommoni in fondo all’Adriatico o nei centri di espulsione di Lampedusa o di Ponte Galeria. Alcune galleggiano negli sguardi concentrici di una pittrice in manicomio, o in quelli di terroristi, che non sanno ciò che fanno; o di migranti, che non hanno scelta. Di queste storie comincia a essere fatto ciò che resta di questo Paese, le cui risorse e le cui pulsioni migliori cominciano a essere relegate allo stato di clandestinità. La speranza è che trovino spazio. La differenza, tra le quattro raccontate qui sopra e quelle che cominceranno una volta girata la pagina, è che le storie che state per cominciare sono più vive, più belle.

Federico Di Vita

Orfeo e Euridice a Lampedusa

Oggi ho visto una ragazza che ti assomigliava. A dire il vero non è proprio che ti assomigliasse, aveva capelli biondo scuro e occhi verdognoli del Nord, che nulla avevano a che fare con i tuoi colori scuri. Però c’era qualcosa nel suo sguardo che mi ricordava te, il modo in cui i suoi occhi deridevano il mondo, in cui sfuggivano continuamente ad ogni controllo. Maledetti quegli occhi che non hanno saputo guardare avanti, e che io non sono stato in grado di governare.

Era un poco più grande di te, credo avesse sui diciotto anni. Se ne stava in un angolo della barca, commentando con i suoi occhi divertiti una coppia di turisti che facevano la gita con lei. La donna rideva sguaiata e si aggrappava a un cinquantenne color aragosta che esibiva come un trofeo. Mentre sfoderavano un falso sorriso da fotografia di viaggio, lei lo rimproverava perché in quell’isola dimenticata da Dio in cui lui l’aveva trascinata non c’era abbastanza vita mondana, Neanche un pareo party! Il prossimo anno tutti a Ibiza con la barca del Ferdy. In quel momento una folata di vento le ha slegato il foulard azzurro che è volato via, facendo esplodere una massa di capelli ricci e selvaggi. Ho guardato il foulard planare lentamente sull’acqua, quasi a godersi la brezza marina, e poi dissolversi nel celeste irreale di Cala Pulcino, finalmente libero. Sono stato felice per lui.

Io invece, Lampedusa, l’ho imparata ad amare, e sento che un po’ somiglia a ciò che sono diventato. Mi piacciono le sue scogliere crudeli e inaccessibili, le barchette dei pescatori sospese sull’acqua adamantina, e quell’unica strada asfaltata spolverata di bianco. Ma amo soprattutto ciò che resta quando il ronzio dei turisti in quod e scooter sparisce: una terra di solitudine profonda e amori obbligati. L’arida desolazione della roccia specchiata in un mare troppo grande, i cani randagi che passeggiano malinconici e bonari, il grido di dolore che lancia l’isola quando soffia il maestrale. Il grido di chi cerca qualcosa che ha perduto per sempre.

La storia poi di come dai motoscafi della speranza sono arrivato a condurre barche per i turisti in giro per quest’isola, ha dello straordinario. L’unico tra tutti gli immigrati arrivati ad essere riuscito a fermarsi qua. Forse racconteranno la mia storia, giù al Paese. La racconteranno i pescatori mentre sgraneranno le reti, annoiati dal troppo mare e vogliosi di immaginare uomini e donne al di là di quel muro blu e le loro vite straordinarie, esempi virtuosi o canaglie da non imitare, con i loro soliti impasti affascinanti di ammonimenti e realtà.

Erano stati proprio i pescatori a raccontarmi anche quella leggenda che ci riguardava, ricordi? Chi era costretto a fuggire dal Paese e desiderava che il viaggio andasse a buon fine doveva riuscire a non voltarsi indietro, verso la terra natia, durante il primo mezzo minuto del viaggio. Sembrava facile, ma era un’ardua sfida di volontà, dicevano tutti dandosi ragione a vicenda.

«Tutte superstizioni!», mi hai detto quando ti ho riferito la storiella, scuotendo il capo e prendendo in giro tuo padre. Il bagliore bianco del tuo sorriso si è aperto sul tuo viso scuro come una ferita. Tua madre aveva lo stesso modo di sorridere, assoluto e prepotente, che mi vinceva ogni volta.

«Hai ragione. Sono tutte superstizioni. Ma per una manciata di secondi possiamo provare a resistere, no?»

Me li ricordo bene quei trenta secondi. Spalla a spalla con altri settanta disperati come noi, in quel gommone di una dozzina di metri, il loro fiato sul collo, e le onde ad aspettarci come aguzzine. Mi ero messo apposta sulla parte anteriore per evitarci ogni tentazione. Il tuo volto rischiarato dalla luna era per me l’unica isola in quel mare nero. Fissavo preoccupato i tuoi occhi irrequieti, distratti dalla paura. Volevo inchiodarteli alla piccola prua, figlia mia, stringerti a me, proteggerti per sempre dalla notte salsa del mare. E invece al venticinquesimo secondo ti ho vista come un lampo voltare la testa e guardare indietro, verso casa nostra, verso le tue amiche, la nostra terra, i tuoi sogni di ragazza, forse qualche giovane uomo. L’attrazione verso il passato, l’identità, la sicurezza è stata per te troppo forte, irresistibile.

Allora tutto l’Universo mi è scivolato inesorabilmente tra le dita. Io tentavo di trattenerlo con le unghie, cercando di salvare un po’ di esistenza e di speranza, per te, ma come un imbuto quel tuo gesto mi è sembrato risucchiare ogni cosa.

Tu ti sei accorta dei miei occhi atterriti, hai dondolato la testa, ma quella volta non mi hai deriso. Nei tuoi occhi brillavano le costellazioni, ed io ero schiacciato dalla mia finitezza e impotenza.

«Sono tutte superstizioni!», hai sussurrato contro la notte, che, avvolgendoti, stava preparandosi a farti sua.

Sofia Assirelli