La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 21

[Puntate precedenti]

Si racconta che prima di giunger nel bucolico rifugio, i fuggiaschi vagarono per diverso tempo fra rotatorie indifferenziate, chioschi di piadine e crescioni, e soprattutto su e giù per strade sterrate dove contadini increduli sorridevano al loro passaggio, mentre i cani rincorrevano le ruote ormai consumate della povera utilitaria. Essi approdarono al sicuro porto che ormai era calato il sole, mentre il rosso del tramonto colorava i vitigni già saccheggiati dall’avida mano dell’uomo. La Romagna, terra di bevitori e ballerini, accolse i poveri derelitti come meglio non si poteva, offrendo loro la pace e il silenzio di cui abbisognavano dopo tanto clamore, nonché un po’ di buio rassicurante che oscurasse la luce dei riflettori accesisi lungo tutta la dorsale dello stivale.

Casa del Cuculo è il nome del luogo ameno e incriminato, dove i cinque vennero accolti tra vassoi di lasagne al forno e bicchieri di vino rosso, prima di venir loro concesso un salone dal pavimento ricoperto di grossi tappeti, dove pare si riunirono in diversi ad ascoltare le loro deliranti parole, con le quali inveirono contro un paese che non dava più voce alle anime sensibili dei poeti e che piegava il potere della parola all’arte della menzogna.

Per tutta la serata si susseguirono anche altri eventi disseminati fra i campi, con contrabbassisti, cantautori, e chissà che altro ancora, perché tutt’intorno era buio pesto, e c’è chi potrebbe financo giurare d’aver visto dei satiri e dei fauni ballare, ma non son certo questi dei testimoni attendibili, per via di tutto il vino che tenevano in corpo.

Lo spasso durò però ben poco, appena il tempo di una notte passata in giacigli d’emergenza, nella promiscuità dei corpi, perché all’albeggiar del giorno dopo si udirono le sirene ululare per tutta la spianata e rincorrersi laddove il razionalismo aveva chiesto spazio alla storia *.

I cinque, con gli occhi ancora gonfi di sonno, raccolsero in fretta e furia le loro cose, mentre gatti sonnacchiosi gli si strusciavano addosso, e grida di bambini felici li accompagnavano in un addio consumato troppo velocemente.

A questo punto, mi scuserete se la narrazione tende al patetico, ma mi sembra giusto concedere un po’ di sentimento anche a queste anime così materialiste, che, nonostante il persistere dell’errore che ha viziato tutta la loro visione del mondo – vedere addirittura in un Presidente l’incarnazione del male assoluto – hanno senz’altro creduto nella loro opera, e con loro vi hanno creduto anche altre sparute persone, come questi villici dei colli romagnoli, che si prodigarono così bene nel coprire le tracce della loro fuga dal lasciare a bocca aperta gl’inquirenti.

Essi cercarono ovunque, tutto all’intorno, e s’impegnarono non poco nell’usare tutte le armi lecite della giustizia in divisa – in tempi in cui l’arma aveva carta bianca in certe operazioni – ma nonostante le intimidazioni e la cura del manganello, che non risparmiò neanche donne e bambini, non un solo indizio scappò dalla bocca di quei predicatori dell’arte e della natura, che avevano rifiutato le comodità della società capitalista per un rudere appoggiato in un pezzo di terra grassa.

La rabbia dei tutori dell’ordine fu tanta e tale che alcuni di essi cominciarono a sparar fra gli alberi, e il giorno dopo, fra la costernazione generale, nei bar dei paesi limitrofi si parlò di un’apertura anticipata della caccia, anche se non v’era ancora odore d’arrosti per l’aria.

Quel che è certo, fu il titolo di un noto giornale locale all’indomani:

Misteriosi spari nella notte: le parole corrono più veloci delle pallottole.

Simone Ghelli

* Intendo la città di Forlì, dove gli architetti di regime abbatterono le porte e le mura antiche per far spazio ai nuovi viali.

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