Odi et amo

Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

In un solo distico elegiaco tanti problemi: un esametrino e un pentametrino.

Quando tradussi questo distico in Versus (Wip Edizioni, Bari, 2005) lo tradussi così:

Non lo so, non so com’è:

odio… amo. E non so com’è.

Non lo so, non so com’è:

odio… amo. E mi sento morire.

Non lo so com’è, ma è così

ed è una tortura.

Lo avevo fatto così perché volevo dargli un ritmo quasi di canzone, di idea che ritorna, di idea che batte e ribatte e che come una goccia lo scava. Che lo affoga e lo lacera.

Bisogna però tenere conto che il distico così come lo leggiamo noi non è esatto. Il latino lo leggiamo nella dizione ecclesiastica, che lo addolcisce. Da anni ormai i glottologi dicono che il vero latino era diverso, che i suoni dolci come la c o la g o la sc (il riferimento potrebbe essere la seconda c di croce, la sc di sciarpa, etc…) in realtà sono duri e gutturali, che i dittonghi si leggono così come sono scritti, che “ti” non si legge “zi”.

Di conseguenza la nostra interpretazione un po’ dolente dei versi è falsata. Difatti, se al posto di quei suoni dolci, ci fossero i suoni duri (dovrebbe essere letta così:  «Odi et amo. Quare id fakiam fortasse requiris. / Neskio, sed fieri sentio et ekskrukior») e la metrica letta come si deve, molto probabilmente la nostra concezione cambierebbe. Percepiremmo – più che una lacerazione di mani (excrucior significa “messo in croce”) o un cruccio – un cricchiare di ossa (o, dialettalmente, “scrocchiare”).

Quindi va a farsi benedire l’amante che è sperduto nei suoi sentimenti ambigui (come anche la mia traduzione di sopra dava adito a pensare) e si profila un poeta che è incazzato come una bestia e soffre come un caimano con le emorroidi. Emorroidi dell’anima, certo, ma sempre emorroidi.

A proposito di traduzioni. Alcuni poeti eccellenti (oltre me, ovviamente) hanno dato la scalata a questo distico. Eccone alcuni.

Il XLIV sonetto dei Cento Sonetti d’Amore di Neruda recita:

Saprai già che io t’amo e che non t’amo
dato che in due modi è fatta la vita,
la parola è un’ala del silenzio,
e nel fuoco v’è una parte di freddo. 
Io t’amo per cominciare ad amarti,
per poter cominciare l’infinito
e per non cessare d’amarti mai:
proprio per questo io non t’amo ancora. 
T’amo e non t’amo come se avessi
nelle mie mani le chiavi della gioia
e un incerto destino sfortunato. 
Il mio amore ha due vite per amarti.
Per questo io t’amo quando non t’amo
e per questo io t’amo quando t’amo.

Giovanni Pascoli la fa così:

L’odio e l’adoro. Perché ciò faccia, se forse mi chiedi,
io, nol so: ben so tutta pena che n’ho.

Per Quasimodo la faccenda era la seguente:

Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile;

non so, ma è proprio così e mi tormento.

Ovviamente la dote sublime di Pascoli è l’ingenuità, da cui deriva la corposità e rotondità dei suoni; Quasimodo era il ragioniere che era e che chissà come vinse il Nobel (probabilmente per l’ultima dozzina di poesie che scrisse prima di morire e che la giuria in Svezia non ebbe modo di leggere).

Dato che la lingua latina non ha rime, ma una notevole elasticità sintattica, più che buttarla in suono, io direi di buttarla in ritmo (un po’ come feci io nel mio libro di cui sopra, trasformandola quasi in una canzone).

Se ci si fa caso si vede che la struttura è molto precisa:

Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Verbo congiunzione verbo. Lo stesso dicasi se partiamo dalla fine: verbo congiunzione verbo. S’inizia il componimento con una scazzottata fra odio e amore e finisce con una scazzottata fra sentio (cioè il sentire, il tatto, il percepire) ed excrucior (cioè l’esperienza che il nostro sentire cerca sempre di evitare).

Poi si potrebbe continuare con illazioni come “Dato che fieri deriva da fio, e che oggi fio significa scotto, quello è come dire che se la merita la sua sofferenza” o “Subisce passivamente la tortura: significa che era frocio e la lotta è con se stesso, fra l’Io e l’Es. E tutto sommato com’è possibile che non volesse incularsi la sua vicina di casa paralitica che in realtà credeva essere sua zia?”, ma non credo di averne la forza.

Anche se l’idea che l’odio e l’amore fossero per se stesso (o, comunque, per una parte di sé) mi stuzzica non poco.

Antonio Romano

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Accabadora

Accabadora (Einaudi, 2009)

di Michela Murgia

Un dono. Questo romanzo è un piccolo capolavoro che riesce a raccontare una storia e una terra, di cui si conoscono di più solo gli aspetti vacanzieri, senza perdersi in finti omaggi alla narrativa italiana e senza fronzoli di alcun genere. Un libro in cui c’è solo la storia di una vita raccontata dalla vita.

Soreni è un paese della Sardegna dove si fa fatica a capire le cose. Dove le persone sono strette come fasci di erba alle loro vite quotidiane. Le chiacchiere che passano di sguardo in sguardo, mentre le mani camuffano le intenzioni delle bocche, sono vento che spesso porta odore di terra bruciata. Un paese che fa parte di una tradizione antica quanto la lingua stessa e dove italiano, sardo, storia e latino si uniscono a creare famiglie, amori e legami. Qui il passato non resta mai tale e fa fatica ad essere sepolto.

Maria vive a Soreni, è una bambina di troppo in una famiglia che ha poco. Una bambina che diventa figlia di anima di Tzia Bonaria Urrai, la sarta del paese. Una donna rispettata e rispettosa. Una di quelle antiche immagini di cui non era facile capire quanti anni avesse perché “[…] erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse paziente di essere raggiunta dal tempo in ritardo”.

La povertà e il menefreghismo della madre di Maria e la sterilità di Bonaria, creano un legame in cui i grandi silenzi, gli spazi lasciati inesplorati e le parole che raschiano il sole diventano ogni giorno più forti. Una famiglia non di sangue che vive in mezzo alle stoffe della sarta e allo sguardo di Maria che, giovane, ascolta la voce di Tzia Bonaria anche se spesso non ne capisce il senso, ma ascolta consapevole che “[…] non tutte le cose si ascoltano per capirle subito”.

Tutto sembra scorrere, tutto va nella direzione degli sguardi che seguono la coppia mentre cammina per le strade del paese. Occhi che puntano e giudicano. Occhi che però sanno qualcosa che sfugge alla piccola Maria, ancora incapace di cogliere i particolari che si nascondono nella pelle tesa degli adulti.

Una notte serve a far porre domande. Una notte soltanto, in cui il sonno è meno divertente delle ombre proiettate nella stanza. Un inverno del 1955 quando la piccola aveva otto anni e mezzo.

Sentire rumori e vedere Tzia uscire nell’oscurità accanto ad un uomo alto, nero in volto e sentirsi subito ammonire dalla figura della “madre”: “Torna in camera tua”. Obbedire e addormentarsi tra pensieri e silenzio. Silenzio e innocenza.

Da questo punto in poi accade qualcosa, qualcosa di silenzioso, di strisciante, che non intacca il rapporto di amore tra le due, che fa andare avanti la spinta dell’anziana a far studiare la sua protetta, a farla applicare. Accade qualcosa di più subdolo. Più complicato. Accade che la vita mette di fronte ai fatti e le campane a morto che si sono sentite dopo l’uscita notturna di quell’inverno non smettono più di riecheggiare.

Cosa aveva fatto e cosa faceva Tzia Bonaria? Perché si alludeva sempre a lei con timore reverenziale nelle chiacchiere di paese e tra amici?

I giorni di Bonaria Urrai si fondono così con quelli di Maria Listru, insieme a molte delle cose che accadranno, che altro non sono che parodia delle cose pensate. In una rincorsa verso il mare, tra i campi, gli amori segreti, le facce arse dal sudore e dal sole, verità e innocenza svelata, scivola “Accabadora”. La storia di una donna che è voce di due donne. Accabadora che in sardo significa “Colei che finisce”. L’ultima madre di molti che è la prima vera madre di Maria.

Alex Pietrogiacomi