In attesa di Fútbologia, dopo la pubblicazione dell’indice de Il mondiale dei palloni gonfiati e Il cigno di Utrecht, ritorna un racconto calcistico firmato Antonio Russo De Vivo. Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora. Fútbologia è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora.
Un giorno noi amici d’infanzia ci trovammo tra le mani una cassetta con un gioco di calcio nuovo per il commodore 64. Si chiamava Gazza’s Superstar Soccer, dal soprannome di un giocatore inglese che non conoscevamo ancora. Era divertente perché potevamo scegliere le squadre di club europee più prestigiose e le nazionali che avevamo da poco visto nel mondiale italiano. I giocatori piccoli, il campo di calcio enorme, non c’era proporzione. Quando ti mettevi in posizione diagonale rispetto alla porta, poco prima dell’area di rigore, e caricavi il tiro, era sempre gol: il portiere che sembrava un granchietto era anche lui troppo piccolo per la porta, e la palla allora, se angolata, non la prendeva mai. Io giocavo col Real Madrid, perché il Napoli non aveva più Diego, perché Diego era scappato, perché vedevamo i suoi gol su VHS come piccolinew romantic del pallone: qualcosa, senza saperlo, era quasi finito.
Nel 1992 Gazza venne in Italia. Biondo, occhi azzurri e mascella larga da supereroe (proprio come l’avevamo visto, la prima volta, a 8 bit), costò 26 miliardi, però il nuovo presidente della Lazio era il re dei pomodori e se lo poteva permettere. Giocò con i biancocelesti per due anni, ma fece poco. Ricordiamo ancora due cose in particolare. A Pescara segnò un gol in serpentina partendo a diversi metri dall’area di rigore e battendo a rete dopo aver superato quattro giocatori. Sembrava Diego, e non più solo per quel ventre che Leggi il resto dell’articolo
Matupènsa, anche a Differdange, polo siderurgico di punta del Benelux, c’è una squadra di calcio, come ovunque nel mondo.
Dopotutto lo si sa, basta un prato quattro pali ed una sfera di cuoio per mettere il timbro sul passaporto della felicità, dal Mozambico alla Guyana Francese al Lussemburgo in generale, e a Differdange in particolare, città dallo skyline che sembra quello di Springfield.
La squadra di calcio della città del ferro non vince mai, il martello batte sull’incudine sempre alla stessa maniera, i successi son ròba da Esch-sur-Alzette, mica da Differdange. Nella città-col-nome-diviso-dai-trattini la compagine l’han chiamata Giovinezza, ha le maglie tutte nere ed un inno che dice, più o meno, “nostra unica bandiera, sei di un unico colore, sei una fiamma tutta nera, che divampa in ogni cuor” (fatto tutt’affatto vero, ma vuoi mettere quale disarmante coincidenza, se invece?). Una cosa vera, siamo seri, è che il Jeunesse d’Esch è l’unica società che da quando è stata fondata non ha mai cambiato nome, mentre tutte le altre: vacci a capire qualcosa. Io, ad esempio, da ragazzino giocavo a Sensible Soccer per Amiga, e di goliardia insufflato maneggiavo gl’omìni dello Spora Luxembourg. Oggi esiste mica più. S’è mescolata con un’altra formazione e porta il nome di Racing FC Union, appunto. Poi c’è anche l’Hamm Benfica, che è mezza lussemburghese e mezza lusitana, ma nel Granducato non è un mistero, c’hanno l’Europa nel sangue, i principi della libera circolazione di persone merci e capitali l’insegnano all’asilo, insieme ai versi degl’animali della fattoria.
Una cosa che fa discretamente sorridere, del campionato calcistico lussemburghese, è che il sistema è quello del girone all’italiana, solo con gare di andata-ritorno-e-ri-andata: ogni squadra sfida l’altra tre volte, c’è da chiedersi con quale criterio si decida dove giocare la terza sfida, un bel pasticcio per i palinsesti televisivi: ma tanto mi sa che a Murdoch gliene frega cicca, di mandare in primetime Pétange-Mondercange, per dire.
Un’altra cosa che suscità ilarità è che le società calcistiche del Granducato, tipo il lunedì, creano su facebook l’evento della partita successiva, ed invitano mica i tifosi: i giocatori.
Io ce l’ho amico sul socialcòso zuckerberghiano, uno che è tesserato per la società della città del ferro, e credetemi, l’ho visto coi miei occhi: ha messo “parteciperò”.
Forse parteciperò: (ovvero, la sindrome di PanXev)
Ivan Ivanovic Panaev ha avuto, dal milleottocentoquarantasette in poi, una manciata d’anni di relativa fama nella città di Pietroburgo: pubblicava sulla rivista Sovremennik dei quadretti di vita pietroburghese che facevano ridere, riflettere, piangere a seconda dell’umore e del meteo che aleggiavano su Prospektiva Nievskij. I pietroburghesi, genti semplici e di grand’animo, gli diedero fiducia quando nel milleottocentocinquantadue pubblicò Uomini di mondo in provincia: lo comprarono, lo lessero avidamente. Poi lo cestinarono, e cominciarono a far girare voci poco simpatiche: però che pippa di scrittore, Ivan Ivanovic Panaev.
Ernesto Pellegrini negli anni Novanta era il presidente della F.C. Internazionale: con uno spiccato senso dell’esotismo ed una nuance gastrofila mica da sottovalutare s’imbarcò in avventure imprenditoriali che lo portarono a gestire catering nell’Africa nera e a regalare ai tifosi del Biscione una macedonia di giocatori tra cui uno nato in Macedonia, quando si dice le coincidenze.
Darko Pancev arrivò a Milano con credenziali di tutto rispetto: bomber di razza, lo chiamavano Il Cobra, colpiva sottorete come un black mamba e poi oh, aveva appena vinto una Coppa dei Campioni con la Stella Rossa di Belgrado,
il Cobra.
Non sto qui a raccontarvi la storiella del suo insuccesso, reclamava tempo ed attenzioni, Osvaldo Bagnoli, che era il suo coach, personalmente m’è diventato simpatico assai quando ha affermato: «Devo avere pazienza con lui perché è macedone? Ma mì sun de la Bovisa, e so minga un pirla!», ad avercene come Bagnoli, e quindi niente: via Pancev, che mezzaséga Pancev, è morto Pancev, viva Pancev.
Dei destini degl’uomini è peccato mortale disinteressarsi. Il Ramarro, così lo schernivano, ramarro, poi s’è accasato al Fortuna Dusseldorf, pure te Darko cercar fortuna al Fortuna, dobbiamo insegnarti tutto; e infine ha chiuso la carriera col Sion, forse pensando che una società con siffatto nome fosse la destinazione naturale per un perseguitato come lui.
Oggi, dal suo appartamento di Skopje, dedica i due minuti d’odio quotidiano all’ Internazionale, la squadra mica l’inno, che gl’ha fatto venire l’allergia al pallone, dice; fissa a lungo il Vardar fluire lento. Poi torna a posare gli occhi sulla missiva poggiata sulla scrivania. Sulla busta c’è il logo del Fudbalski klub Vardar, il club della sua città, gli chiedono: «Dàcci una mano, noialtri ti si vuol bene, non t’abbiamo dimenticato, torna con noi». Gente semplice e di grand’animo, gli abitanti di Skopje.
Lui nicchia. Forse parteciperò, risponde. Come fan tutti, spunta forse parteciperò volend’intendere mi piacerebbe, guarda, ma mi vedrete mica mai, dalle parti vostre.
Non parteciperò (a certi amari epiloghi. Agl’inviti dei lettori invece sì)
C’è un lettore delle Sforbiciate che m’ha suggerito di dedicare due righe a Van der Meyde che ha annunciato il suo ritiro. Non m’è stato mai troppo simpatico Van der Meyde, però è da scorbutici mettere “non parteciperò” ad un invito del genere, perciò ho deciso che gli regalo una rete in mezzarovesciata segnata all’Highbury, questa. Fine del momento lacrimuccia.
Che poi gli addii sono sempre costellati dal pianto, sennò che addii sono?
Il diciotto maggio del duemila l’Olimpico ha salutato l’ultima sgambettata di Giuseppe Giannini, il Principe, uno degli indimenticati Capitani giallorossi.
E quel giorno, io c’ero, son state lacrime un po’ ovunque, sulle tribune ma pure in campo, lacrime di sfogo, lacrime amare.
C’è che la Lazio, pochi giorni prima, aveva festeggiato la conquista dello Scudetto. I tifosi bianchi e celesti si son creduti supersimpa e il giorno dell’addio di Giannini hanno fatto sorvolare lo stadio da uno sfottò aereo, “Lazio campione”, non l’abbiamo presa troppo bene e la partita è toccato sospenderla nell’intervallo del primo tempo per un’invasione di campo tutt’altro che pacifica: e poi gli appelli alla calma, la fine prematura, lo striscione “Scusa” improvvisato in Curva Sud.
A saperlo, che sarebbe andata a finire così, avrei detto no, guarda:non parteciperò.
Riportiamo un estratto del romanzoL’onda sulla pellicola(Besa, 2004) di Michele Lupo, ambientato prevalentemente nel mondo delle scuole private, il cui protagonista è un insegnante precario, nonché erotomane incallito e aspirante cineasta.
Una specie molto gradita da Malerba era costituita da gente sistemata abbastanza da piazzarsi soltanto per prestazioni rapidissime. Ingegneri o avvocati che mai restavano nelle aule per più di dieci minuti di seguito, attaccati ai cellulari per rimediare appuntamenti di lavoro tra la rogna di una lezione e la farsa di un’interrogazione. Sei, sette ore settimanali mirate alle trecentomila in più a fine mese. Gente incline a non far domande che ponessero in discussione l’andazzo generale, immune da ogni preoccupazione concernente il senso o la qualità o i fini sociali di quel lavoro. Si informavano sulle condizioni di Nesta, sulle intenzioni di Zoff nella campagna acquisti.
E poi, ricordava Livio, qualche povero disgraziato di passaggio, ma soprattutto frustrati d’ogni risma disposti a tutto pur di farsi chiamare professore e professoressa piuttosto che capò alle bancarelle del mercato vendendo brache usate o i calendari di Frate Indovino. Gente che viveva con i genitori a quarant’anni suonati, che si lamentava di non potersi sposare, di non poter programmare un futuro, che la sera lavorava nei bar, nei call-center, o porta a porta. Che la mattina successiva sbandava nei gironi lutulenti del Provveditorato di via Pianciani, si torceva fra le sue spirali metalliche e ne usciva stritolata. Che votava Alleanza Nazionale o Rifondazione Comunista con la stessa identica disperazione. Che qualche volta si sparava.
Che si fossero sbagliati, lui e Fausto, quando avevano concluso che ormai fare l’insegnante, in Italia, equivaleva a un marchio d’infamia? neanche si fosse individuato il novello untore per sanzionarne la condanna in un ghetto? Perché al Centro Studi Malerba vedevi tizi disposti ad aspettare due mesi un assegnino postdatato che mai superava il mezzo milione di lire epperò si gongolavano nella soddisfazione di fare l’appello, di tenere un registro – quando c’era – di parlare da una cattedra. Certo, il tutto veniva poi emendato in audizione di amenità pronunciate dai ragazzi ad alta voce: meglio le corse di notte all’Eur o caricare una slava sulla Cristoforo Colombo e fare poi un lavoro pulito? meglio il tiro a segno con i gatti di PonteMammolo o farla finita con quel perbenismo del cazzo e dare finalmente una lezione a Galeazzi che lo sanno tutti che è della Lazio?
Talvolta erano indirizzate proprio a loro – agli insegnanti. E non proprio facezie, piuttosto consigli dritte suggerimenti. Perché erano sensibili, i ragazzi. Come, diecimila lire l’ora? Dodici, iva compresa. Be’ professo’, nessuno voleva andare, chessò, il sabato e la domenica nel ristorante del padre? Sensibili e svegli, a modo loro. Con quella cifra non si poteva persuadere nessuno ad ascoltare alcunché. Che aveva mai da dire di importante uno che guadagnava diecimila lire l’ora? C’era ancora chi si struggeva la sera davanti alla sua brava laurea con lode incorniciata in cameretta, ma Livio non conosceva quel tipo così diffuso di consolazione fondato sulla comparazione delle sofferenze. Che altri stessero peggio di lui, non modificava in nulla il suo stato. E forse neanche quello degli altri, chi più chi meno tutti pronti a produrre un armamentario social-professionale che supplisse alle carenze evidenti del lavorare lì dentro: menzionare altre occupazioni, ad esempio, più serie, con l’aria impostata alla bisogna – tono, falsetti e gridolini per lo più, e soprattutto studiatissima gestualità. Che poi venisse un pianto, era un dettaglio. Fare l’attore, un minimo devi esserci portato. E Livio rideva, come se fosse solo uno spettatore, persuaso che fosse questione di tempo, per lui; per gli altri, invece, sul proscenio, un modo malinconico di suscitare aspettative, il teatrino consueto di una città di provincia come la Roma di periferia in cui si recitavano arti e mestieri, sperando che le luci smorte del CSM facessero almeno intravedere una qualche ribalta futura…
– Una volta tanto sarò d’accordo con lei, professore – disse una mattina, scoglionatissimo. Ce l’aveva con Perduro. – Non solo ha stravinto, il capitale, ma ti ha ficcato il suo chiodo rovente nel cervello, ha ossidato le tue difese immunitarie e ti ha iniettato pure la vergogna di non averlo, un lavoro. Quella che chiamiamo filosofia della storia prende proprio delle cappellate, certe volte, non crede?
L’uomo sembrava impossibilitato a rispondere dalla coda di paglia su cui ogni parola di Livio sfregava come uno zolfanello – si sarebbe bruciato da solo, senza il tempo di replicare.
– Anche la sua, di vicenda, non me ne vorrà, è un po’ singolare, no? Un combattente dell’età di Cossutta, inorridito dalla svolta di Occhetto, pensionato più agiato dell’uno e l’altro messi insieme che svacca il tempo in un privato… Converrà che è un poco eccentrico, o mi sbaglio?
Quella che stava per diventare l’ennesima collisione fra i due insegnanti fu interrotta dall’arrivo di Malerba corsa subito in aiuto dell’ex preside. Prese Livio sottobraccio e se lo portò nel suo ufficio. Aveva dato un’occhiata ai programmi, disse.
– Pensa sia proprio necessario perdere tempo con questo Aretino, professore?
A domande del genere Livio era abituato. Da tempo, aveva ormai deciso che non doveva rispondere, ma limitarsi a guardare dritto verso di lei con un’ aria inespressiva, come di chi non pensa a niente in particolare e non sembra neanche accorgersene.
– Dicevo, Viola, un autore così minore…
Non da tonto, l’aria. Ma insomma.
– Mi ascolta? Deve mica farla per forza, la letteratura contemporanea.
Che non fosse una battuta era evidente, meno dalla sua insipienza nel caso lo fosse stata che dalla faccia serissima che ostentava. La sua di lui divenne di colpo quella di chi si ritrova l’ippogrifo in carne e ossa davanti agli occhi e tace estasiato.
– Senta professore, io ho molta stima di lei. Questo lo avrà capito. Ma non fosse che per gli anni che mi porto appresso, e mi scusi se scomodo il poeta, credo di esser degna di un po’ più di riverenza in vista.
– Non fa esattamente così, signora. Il verso, voglio dire.
– Viola, mi stia a sentire. Guardi che io non ho nulla contro la poesia, ci mancherebbe altro, anch’io sa, di tanto in tanto, prendo una penna e… e butto giù… Oh, lasciamo perdere.
– Peccato. L’ascolterei volentieri.
– Però, vede, io non sono il tipo che si caccia le mani in tasca per sentire poi le dita che ci girano a vuoto, mi segue? Se lei mi perde tutto questo tempo con autori sconosciuti i ragazzi mi volano via, mi volano. Poi ci lamentiamo del disinteresse.
Oh, il disinteresse. Se poco poco gli riusciva di catturare l’attenzione dei ragazzi, era in virtù di un prestigio usurpato, eteronomo alla sua funzione lì: erano le chiacchiere sui suoi trascorsi – in realtà insignificanti – a Cinecittà a propiziargli un po’ di attenzione, o forse solo di curiosità. E si trattava in ogni caso di momenti brevi e casuali, interruzioni fortuite della loro diffidenza, a suo modo giustificatissima. Perché poi non erano mica fessi: era ben strano che dal cinema fosse finito in quello zoo, a parlare di letteratura, ossia, per loro, dell’altro mondo. Dov’era, quest’altro mondo? e questo qui? cosa rimaneva di conosciuto fra cyberspazio e ombrelloni dove si continuava a giocare con i morti fra i piedi? erano tutti così bisognosi di invocarne uno ultimo e definitivo che fosse post-umano? erano o non erano proprio gli uomini i primi a non poterne più di se stessi?
C’è una storiella yiddish che fa così: c’è un cardinale che invita un rabbino a cena. Convenevoli, due chiacchiere, ci si siede a tavola. Il piatto forte della serata è un maialetto da latte cotto sulle braci. Il cardinale ne mangia grossi bocconi, il rabbino lo lascia tutto nel piatto. Cosa c’è, non gradisce rabbino?, chiede il cardinale. Vede, risponde il sacerdote ebraico, noi non mangiamo carne di maiale. Abbiamo una regola da seguire. Ed il cardinale: ah, rabbino! non sa cosa si perde, col grasso che gli cola dai lati della bocca.
Superato l’inconveniente, la cena continua. Arriva il momento dei commiati. Il rabbino e la moglie si avvicinano al cardinale, è stata davvero una serata memorabile, dice il rabbino al cardinale, faccia i complimenti alla cuoca, che devo ragionevolmente supporre trattarsi di sua moglie, sarà così indaffarata ai fornelli, forse è per questo che non l’abbiam vista per tutta la sera.
Il cardinale, stupito, arranca balbettante un ma rabbino, io non ho moglie: noi facciamo voto di castità, non possiamo sposarci. Èuna regola che dobbiamo seguire.
Ed il rabbino: ah, cardinale! Non sa cosa si perde.
Poi c’è un’altra storiella cattoromana che invece dice: finalmente, per la prima volta, portano il Papa allo Stadio Olimpico di Roma, si gioca il derby, il Papa prende posto nella tribuna d’onore e saluta col gesto del pantocrator il pubblico, dopodiché chiede al Gran Camerlengo Camerlengo, per chi dovrei tifare, insomma? Ed il Camerlengo gli risponde Santità, io tifo per la Lazio, con quei colori così angelici, il blu del cielo, il bianco della purezza…
Dalla tribuna retrostante il palco d’onore del Papa qualcuno urla Santitààààà, guarda ch’aaa Lazzie vince ogni morte de papa!
E allora il Papa, in piedi: Forza Roma alé!
E poi c’è una terza storiella, l’ultima, parla della Chiesa dell’Unificazione e fa così:
«Sarà stato il 1936, comprenderete se ho le idee confuse, dopotutto ho un’età: ecco, io a sedici anni ho visto Gesù. E sapete che m’ha detto? Tu sei più forte di me. Vediamo cosa sai fare, ti sfido».«A me?»«Sì». «Ah».
Sun Myung di cognome (o di nome, non si capisce mai com’è che funziona, coi coreani) fa Moon, come la luna. Ma vuole mica la luna, lui: vuole di più. Da quel giorno del trentasei, aveva solo sedici anni, quel giorno in cui Gesù gli ha gettato il guanto di sfida, lui non ha fatto altro che perseguire la sua missione: essere il nuovo Messia. (Me? Sì. Ah!).
Perseguitato, picchiato, deportato, s’è costruito una casa di sassi e fango, una casa che ci pioveva dentro ogni volta. La mattina si svegliava all’alba, camminava fino ad un eremo solitario e pregava. Pregava e disegnava, Moon. Ritratti. C’era sempre la luna, in quei ritratti. E la luna aveva la sua faccia.
Moon, per intenderci, sicuro che la storia la sapete, è quello per seguire il quale Monsignor Milingo s’è tolto la tonaca porporata, che dopotutto gli donava pure, e s’è messo in testa di sposarsi con Maria Sung.
Moon, per intenderci, sicuro che questa invece non la sapete, è quello col quale Gianni Agnelli, nell’anno del Giubileo, ha firmato un accordo per la costruzione di uno stabilimento di produzione Fiat in Corea del Nord.
Moon, per intenderci, era uno di quei Presidenti Politicanti Potenti Grandissimi Imprenditori Che Si Credono Il Nuovo Messia.
Secondo Moon, per dire, sarebbe stato compito di Adamo ed Eva generare la protofamiglia: solo che poi le mele, i serpenti, il peccato, la cacciata: troppi fatti tutt’insieme, e nessuno c’ha pensato più, alla famiglia. Isacco che cerca d’ammazzare Giacobbe, Abele che tira le cuoia per mano di Caino, converrete con me che c’è una visione della famiglia un po’ così, dice Moon.
Invece guardate me, continua: io, che sono la rettitudine, mi sposo la bella Hak Ja Han, formiamo la prima vera famiglia originale e diventiamo in un modo o nell’altro padre e madre di tutta l’umanità. Va bene, figlioli?
Il padre, si sa, è quello che porta a casa la pagnotta: poi piglia il figlio da una parte, gli scompiglia i capelli e gli porge il guantone da baseball chiedendo ti va di fare due tiri col tuo vecchio? oppure mostrando il panorama dalla finestra ammicca vedi tutto questo, figlio? un giorno sarà tuo.
Moon è un padre del secondo tipo: possiede giornali, tipo il Washington Times, e poi un hotel a Manhattan, e ancora una fabbrica di auto, la Panda Motors. Una casa di produzione cinematografica che finanzia pellicole belliche con Laurence Olivier, Jacqueline Bisset e Ben Gazzara nel cast.
E poi: una squadra di calcio.
Vedi figliolo? Anche la squadra di calcio, un giorno, sarà tua.
La squadra di calcio del Reverendo Moon è il Seongnam Ilhwa Chunma, e come tutte le squadre dei Presidenti Politicanti Potenti Grandissimi Imprenditori Che Si Credono Il Nuovo Messia miete successi in patria e a livello continentale, un rullo compressore, sette volte campione di Corea negl’ultimi tredici anni, mica uno scherzo.
Come in ogni squadra proprietà di Messia veri o sedicenti tali, ci son giocatori, nel Seongnam, capaci di miracoli.
Il portiere, Jung Sung-Ryong, una volta ha fatto goal direttamente dalla sua area di rigore. Si giocava un Corea del Sud – Costa d’Avorio di dubbio spessore agonistico, s’era sul nulla di fatto, finché il portiere non lancia lunghissimo, la palla fa un rimbalzo, prende velocità, scavalca l’estremo difensore ivoriano e s’insacca: guardatevela, nel video, la faccia stupita del portiere, quello che ha fatto goal, ma pure dell’altro, e poi ditemi se non vi viene da sorridere, o da sbalordirvi.
La stella indiscussa è un centrocampista colombiano, si chiama Mauricio Molina ed è soprannominato Mao, e pure questo è un aspetto decisamente spiazzante: sentire tifosi sudcoreani inneggiare a Mao, poi ditemi se non vi viene da sorridere, o da sbalordirvi.
il Seongnam Ilhwa ha come simbolo un pegaso rosé, animale leggendario della mitologia coreana: giustappunto, il Chunma.
Chunma, che nella lingua del taekwondo si scrive 천마, vuol dire pure carruba, o barbabietola da zucchero, a giudicare dalle foto che scaturiscono guglando.
La forza maschia e la prolificità del cavallo, la leggerezza spirituale simboleggiata dalle ali, l’evidente fallicità della carruba: non sembrano pure a voi elementi puntuali per un’ottimale rappresentazione del Reverendo Moon nella sua personalissima cosmogonia?
Così non fosse, prendetela per quello che è: uno scherzo da preti.
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